«Se la storia, intesa modernamente, dev’essere storia di tutti e non soltanto di minoranze intellettuali, è chiaro che le donne, come le masse dei lavoratori manuali, vanno considerate esistenti e partecipi delle vicende umane, non meno dei generali e dei capi di Stato. Nei testi di storia tradizionali le donne non esistono, come non esistono, se non in qualche vicenda eccezionale gli schiavi, i servi della gleba, i proletari. Ma è soprattutto sulle donne che pesa il silenzio, come se le loro vite, le loro attività, il loro pensiero, non avessero avuto nessuna incidenza sullo svolgere degli avvenimenti umani.
Eppure queste donne sono nate, hanno vissuto e sono morte e, in questo arco di tempo non sono state con le mani in mano e prive di ogni capacità di riflettere, di ragionare, di trasformare sé stesse e il loro ambiente»
«Essere donna l’ho sempre considerato un fatto positivo, un vantaggio, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo o quello? Ah, sì? Vi faccio vedere io! Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anche io. E in più, so fare anche un figlio».
Joyce Lussu, da “L’erba delle donne; Padre, padrone e padreterno”
Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, meglio nota come Joyce Lussu, figlia di un conte, nipote di un garibaldino, moglie dello scrittore Emilio Lussu…
Ma Joyce, per essere ricordata non ha bisogno di legami parentali.
Joyce è una partigiana, medaglia d’argento al valor militare per la sua partecipazione alla Resistenza.
Joyce è un’esponente di spicco del movimento “Giustizia e libertà” e poi, al termine della guerra, del Partito d’Azione e dell’Udi (Unione Donne Italiane).
Joyce è al fianco dei popoli che combattono per la loro indipendenza, soprattutto dei curdi.
Joyce è una traduttrice ed è proprio grazie al suo lavoro che possiamo leggere le opere di autori curdi, albanesi, africani, vietnamiti, Inuit…
Joyce è lei stessa poeta e scrittrice.
«Durante la guerra fredda, avevo lavorato con il Movimento mondiale della Pace, che aveva per emblema la colomba di Picasso col ramoscello d’ulivo e si contrapponeva alla crociata anticomunista indetta dagli Stati Uniti e dalle potenze colonialiste, coi loro clienti e dipendenti, compresi i governi italiani. Durante quest’attività, avevo girato parecchio e conosciuto rivoluzionari di tutti i continenti, rendendomi conto che la guerra partigiana che avevo combattuto era stata soltanto l’inizio di una lunghissima serie di guerre partigiane altrettanto legittime e necessarie, dato che il nazi-fascismo era stato solo parzialmente abbattuto e rispuntava dalle sue radici: lo sfruttamento sostenuto dalla forza delle armi, il colonialismo, il razzismo».
Joyce Lussu, da “Lotte, ricordi e altro”, 1992
Joyce, “cittadina del mondo”. La sua vita percorre la carta geografica della storia: dalla Resistenza al Sessantotto europeo, dalla lotta di liberazione in Kurdistan e in Angola fino alla militanza nei gruppi ecologisti. Lei la definisce “una divertente avventura politico-esistenziale. Divertente perché non sono i rischi che mettono in pericolo il nostro buonumore: è il nostro essere o meno in sintonia con noi stessi. A me, i miei genitori avevano insegnato a fare sempre quello che ritenevo giusto. A dar seguito alle intenzioni, insomma.“
I ricordi: “Di tutte le donne della mia famiglia ricordo che calzavano comode scarpe basse e vivevano con determinazione. Determinazione che non mancava nemmeno a mio padre: figlio di un ricco proprietario terriero, si era ribellato alle consuetudini familiari, aveva tradotto Herbert Spencer, era vicino a Bertrand Russell: e a me tutto questo piaceva. Ho preso dalla famiglia un’ imprinting psicologico-politico che non mi ha mai lasciato. E già la famiglia paterna cominciò ad aver noie coi fascisti… Oh, sì. Io personalmente cominciai a nove anni, perché fui sorpresa a scrivere sui muri Abbasso il fascio. Avevo dodici anni quando gli squadristi vennero a casa nostra. Si portarono via mio padre. Mio fratello quindicenne (lo storico Max Salvadori, ndr) li seguì di nascosto a distanza. Quando tornarono, mio padre era pesto. Dovemmo fuggire. Cominciò per noi una serie di peregrinazioni: prima in Italia (dove continuammo sempre ad andare e venire), poi all’ estero. Trovammo un po’ di pace in Svizzera, dove io frequentai una scuola inglese, forse finanziata da filantropi connazionali di mia madre, la Fellowship School. Amavo già tanto i cavalli, e in quella scuola li amai ancora di più.“
All’Università di Heidelberg. “Lì aveva studiato anche mio padre. Era, allo stesso tempo, un ripercorrere il suo cammino e una possibilità di maggiore internazionalizzazione. Non essere provinciali era uno dei nostri motti. Tuttavia, in certo senso fu dura: vidi il nascere del nazismo da vicino. Nel maggio ’32 Hitler annunciò il suo arrivo per un raduno. Io decisi di sfidarlo a un contraddittorio. Altro che contraddittorio! Già la notte prima la città fu invasa da nazisti con la divisa bruna, che occuparono strade e piazze accendendo bivacchi e cantando a squarciagola canzoni patriottiche. Durante la notte le canzoni patriottiche diventarono oscene, ma gli urli non smisero. Io e i miei amici cercammo di avvicinarci: Raus, raus! Fuori, Fuori! Ci cacciarono. Io corsi dai miei professori, i filosofi Jaspers e Rickert; ma mi delusero. “Quando quei ragazzi si saranno sfogati, tutto tornerà come prima”, dissero. La loro ottusità mi sconvolse.“
In Italia, da Benedetto Croce: “A Palazzo Filomarino bussai la prima volta quando avevo diciassette anni. In una borsa della spesa portavo un fascio di manoscritti: poesie, racconti, e un dramma in cinque atti a sfondo politico. Croce mi disse che avevo qualche talento (pubblicò una delle mie poesie sulla Critica e ne affidò una raccolta all’ editore Ricciardi). Era piccolo, con la testa a pera e un grande naso. Leggeva così rapidamente che pareva succhiasse le parole. Era gentile, umano: personalmente ne ho un ricordo straordinario. Certo, fra le sue idee politiche e le mie non correva buon sangue. Pensava che le donne fossero inferiori agli uomini (io ero la classica eccezione), e aveva orrore del socialismo. Era un grande filosofo, ma anche un grande proprietario terriero, non molto diverso dai miei nonni a cui mio padre si era ribellato. Comunque, per tutta la vita siamo stati amici.“
L’incontro con Emilio Lussu a Ginevra: “Fu subito un grande amore. Lui fu sorpreso di incontrare la latrice di pericolosi messaggi clandestini (a Ponza, dove Joyce era andata a trovare suo fratello, i confinati le avevano affidato un messaggio da consegnare a Emilio Lussu e lei girò mezza Europa per riuscire a trovarlo, con il messaggio nascosto nel manico della sua valigia. Ndr), una ragazza di buona famiglia, proletarizzata dalla lotta e dall’ emarginazione economica e sociale. Io, finalmente, mi trovavo davanti al prestigioso rivoluzionario: c’ erano gli estremi, oltre che per un amore, anche per una robusta militanza comune. Ma dovetti aggiustargli intorno alla testa il concetto di casa. Non sarebbe stata, gli dissi, una palla al piede nella vita di un militante; al contrario, lui sarebbe stato uno scapolo molto più felice se avesse avuto una casa, una donna fissa e un figlio appena possibile. Vivemmo insieme nella Parigi degli esuli. Ma non che dal quel momento divenissimo inseparabili: ciascuno seguiva il ritmo dei suoi impegni. Io andai perfino a finire, in Inghilterra, in un campo-caserma per combattenti dei paesi occupati dalla Germania.“
La morte di Emilio: “Il ’75 fu invece un anno triste. Emilio morì ai primi di marzo, senza vedere l’inizio della prima-vera. Era una bella giornata, e dalle finestre si vedevano le chiome dei pini attorno a Castel Sant’Angelo, che avevamo guardato insieme per trent’anni. Nel silenzio totale della casa, sentivo la
sveglia di cucina battere il tempo con ritmi monotoni e tristi, come gli attitus delle donne sarde. Non più, per te, il tempo… il tempo, per te, mai più“. (Joyce Lussu, “Portrait”, 1988).
Joyce, poetessa e traduttrice. “La poesia è un veicolo di conoscenza profetico e sintetico. E’ conoscenza e comunicazione, non uno sterile gioco linguistico. Attraverso la poesia ho studiato mondi diversi molto meglio che attraverso volumi di saggistica. Ho passato dieci anni a tradurre poesia del terzo mondo: certo, lavorando solo con poeti viventi. Si trova sempre una lingua in cui intendersi, e il poeta spiega benissimo perché ha usato quella data parola, perché ci tiene. Non si traduce la poesia fra sintassi, grammatica e vocabolario. Io ho tradotto Nazim Hikmet col testo a fronte, e nessun turcologo ha trovato da ridire. Ho tradotto poeti esquimesi, guineiani, vietnamiti, albanesi: esprimono mondi diversi dal nostro, ma in fondo, poi, dicono tutti le stesse cose. E’ stata la poesia che l’ ha trattenuta dal fare carriera politica in parlamento? Non le sarebbe certo stato difficile, specie negli ultimi anni. Non solo la poesia. Avrei dovuto accettare lo squallido gioco delle preferenze e avrei dovuto soprattutto accodarmi a un partito della sinistra storica: e sono ancora tutti troppo ideologici. Una cultura alternativa si viene formando solo adesso. Io faccio politica come ho sempre fatto: dal basso.“
“La luna si è rotta.
Si è rotta in cinque pezzi che galleggiano nel cielo
squallidamente
come cinque cocci di scodella.
Era una luna piena e luminosa
Che aveva un’aria abbastanza felice.
Lì per lì ho creduto che i cosmonauti e i satelliti
artificiali l’avessero offesa in qualche modo.
Ma poi ho capito ch’era tutta colpa mia.
La guardavo fissamente con pensieri tristissimi e scomodi
e tutt’a un tratto – trac – si è rotta in cinque pezzi
quasi senza rumore.
Certo sono i miei pensieri che l’hanno urtata
in un momento in cui si sentiva particolarmente fragile.
Questi pensieri delle donne liberate sono una cosa complicata
e la luna ch’è tonda e semplice ci si trova male”
Joyce Lussu, da “Inventario delle cose certe”
“Continua per te la fatica diurna
di ieri di oggi
pesante è la brocca che porti dal fonte
pesante il cammino in salita
dai ciottoli tondi
pesante la cesta di gialla farina
che stacci
pesanti quei tuoi fratelli aggrappati
ai tuoi bracci
eppure ti senti leggera
leggera
i gesti che compi
son d’oggi di ieri
le stesse parole
tu dici
non muta la piega del viso abbronzato
dal sole spietato
nel cavo del raro sorriso
le mani tue dure operose
non hanno mai posa
eppure sei lieve sei lieve
sei nuova sei nuova
sei come una nuvola rosa
sospesa nel cielo
perché quel ragazzo ricciuto
ti ha guardato e sorriso”
Joyce Lussu, da “Inventario delle cose certe”
“Chi ha detto che la vita è breve?
Non è vero niente
La vita è lunga quanto le nostre azioni
generose
quanto i nostri pensieri
intelligenti
quanto i nostri sentimenti
disinteressatamente umani.
La vita
è infinita”
Joyce Lussu, da “Inventario delle cose certe”
“Noi tutti così diversi, noi tutti così uguali, possiamo forse aiutare a crescere arbusti cespugli e boccioli sparsi qua e là, un giorno o l’altro ci daranno fiori e frutti per tutti di mille forme e di mille colori. Li raccoglieremo con grandi feste In mazzi e ceste, li appenderemo nei recinti di etnie e di nazionalismi artificiali al posto delle armi micidiali così care ai militari, al posto di fasci di tratte e di cambiali, così care agli usurai, al posto di veleni globalizzati che ci vendono ai supermercati sostituendo alle chiusure cancelli senza serrature.“
Joyce Lussu, da “Elogio dell’utopia”
(I passaggi che si riferiscono alla vita di Joyce Lussu sono tratti da Laura Lilli, “Storia di Joyce”, La Repubblica, 11 maggio 1988)
Maddalena Vaiani