“Qui io sono. Tesori più grandi sono quelli su cui è scritto: Ricordi ancora. Ma i tesori più belli sono quelli su cui sarà scritto: Là ero. LÀ ERO dovrebbe stare scritto sui tesori, sosteneva Tur Prikulitsch. La laringe mi andava su e giù sotto il mento, come se avessi inghiottito il mio stesso gomito. Il barbiere disse: Intanto siamo ancora qui. Il cinque viene dopo il nove. A quel tempo, nella stanza del barbiere credevo ancora che se non fossimo morti qui sarebbe stato in seguito, in un dopo. Si è fuori dal Lager, liberi, magari addirittura nuovamente a casa. Allora si può dire: LÀ ERO. Ma il cinque viene dopo il nove, abbiamo avuto un po’ di balamuc,e cioè una felicità confusa, e bisogna dire anche dove e come. E perché mai uno come Tur Prikulitsch doveva affermare spontaneamente in seguito, a casa, che lui non aveva affatto bisogno della felicità. Forse già allora qualcuno del Lager aveva deciso di ammazzare Tur Prikulitsch, dopo il Lager. Uno che vagava insieme all’ angelo della fame mentre Tur Prikulitsch posava le scarpe sul corso del Lager come se fossero borsette di vernice. All’ epoca-di-pelle-e-ossa forse qualcuno all’ appello o in carcere si è esercitato infinite volte nella mente a spaccare a metà la fronte di Tur Prikulitsch. Oppure quel qualcuno stava allora sepolto fino al collo nella neve spazzata dal vento, lungo un tratto di ferrovia, o nella jama, immerso nel carbone fino al collo, o nella sabbia della kar’ er o nella torre del cemento. O sdraiato insonne sulla branda, nella luce gialla della baracca, quando ha giurato vendetta. Forse ha progettato l’ omicidio addirittura il giorno stesso in cui con sguardo untuoso Tur ha parlato dei tesori. O nel momento in cui Tur mi ha chiesto nello specchio: E allora, com’ è da voi in cantina. Forse addirittura nell’ istante in cui ho risposto: Piacevole, ogni turno è un’ opera d’ arte. Presumibilmente anche un assassinio con la cravatta nella bocca e l’ ascia sulla pancia è un’ opera d’ arte procrastinata.
So nel frattempo che sui miei tesori c’è scritto LÀ RESTO. Che il Lager mi ha lasciato tornare a casa per stabilire la distanza di cui ha bisogno per ingrandirsi nella mente. Dal mio ritorno, sui miei tesori non c’è più scritto QUI IO SONO, ma neppure LÀ ERO. Sui miei tesori c’è scritto: DI LÀ NON VENGO VIA. Sempre più il Lager di estende dal lobo temporale sinistro a quello destro. Perciò devo parlare del mio intero teschio come di un territorio, del territorio di un Lager. Impossibile proteggersi, né con il silenzio, né con il racconto. Si esagera nell’uno come nell’altro, ma un LÀ ERO non c’è in nessuno dei due. E non c’è neppure una giusta misura.
Ma i tesori ci sono (…). Il sole entra nella stanza. L’ombra del tavolino sul pavimento è una valigia grammofono. Mi suona la canzone del narciso o la Paloma che si balla plissé.
Prendo il cuscino dal divano e ballo nel mio pomeriggio greve.
Ci sono anche altri compagni.
Mi è capitato di ballare persino con la teiera. Con la zuccheriera.
Con la scatola dei biscotti.
Con il telefono.
Con la sveglia.
Con il portacenere.
Con la chiave di casa.
Il mio compagno più piccolo è un bottone, strappato via da un cappotto.
Non è vero.
Una volta, sotto il tavolino bianco di formica, c’era un’uvetta impolverata.
E ho ballato pure con lei.
Poi l’ho mangiata.
Poi c’era una specie di lontananza in me.”
Herta Müller, da “L’altalena del respiro”, 2009
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Foto di Sonia Simbolo