Affabulazioni

All’ombra del vecchio fico

11.02.2022

Il fico lasciava che la sua ombra lunga arrivasse fino alla finestra della casa di pietra.
L’aria di quell’estate che finiva era piena di stoppie che come pensieri monchi coloravano di giallo quelle terre dalle incerte forme geometriche delimitate da muri di pietre ingrigite dal tempo.
C’era nella stalla una matassa di fil di ferro mezzo arrugginito da vecchie piogge tanto caparbie da oltrepassare le assi del tetto e gocciolare giù fino alla vecchia mangiatoia vuota che fungeva da deposito di arnesi.
Lisetta aveva già preparato la cena, gli uomini sarebbero tornati a momenti. Aveva sistemato il bucato e finito di spennare la gallina per il brodo di domenica. La crocchia di capelli neri si era abbassata verso la nuca sudata. Si fermò sulla porta della stalla e guardò il sole che scivolava dietro gli ulivi. Alzò le braccia per sistemarsi i capelli, cercò le forcine poi d’un tratto ci ripensò. Le braccia ricaddero lungo i fianchi come chi non sa cosa fare.
Gli uccelli tornavano ai nidi, i gatti saltarono attorno a qualcosa dietro il muro della casa di paglia. Qualche cane lontano abbaiava al giorno che finiva.
Lisetta si guardò le mani ferite dalla mancanza di attenzioni. Non si sentiva stanca, forse lo era e non sapeva di esserlo, ma era quel momento del giorno quando arrivava quel silenzio pieno di cose che le chiudevano la gola.

Fu di pomeriggio, era un pomeriggio quel pomeriggio che Lisetta prese la matassa di fil di ferro e seduta all’ombra del fico cominciò a intrecciare figure, dapprima strane figure, incerti fiori, idee di uccelli, poi divennero racconti.
Seduta all’ombra del fico che si assottigliava sempre più, Lisetta ogni pomeriggio prese a raccontare storie fatte di fil di ferro e smise di parlare. Nessuno capì che Lisetta non aveva più il tempo di parlare perché doveva pensare alle storie che aveva dentro.
Storie di uomini e di donne che abitavano da qualche parte dentro Lisetta ogni pomeriggio prendevano forma mentre le sue mani sempre più veloci e sempre più ferite piegavano il fil di ferro. Lisetta si accorgeva delle ferite, dei buchi alle dita, solo quando lavando i panni sulla grande pietra bianca le bruciavano al contatto del sapone fatto in casa, ma ci badava poco perché doveva sbrigarsi  a fare il suo lavoro, solo dopo avrebbe ripreso a raccontare le sue storie.

Il compratore guardò quella che una volta era stata una casa di pietra e guardò la vecchia stalla ormai senza tetto dalla mezza porta che cigolava al passare del vento. Gli piaceva, c’era qualcosa che dava serenità in quella campagna così lontana dal traffico caotico della città. Si immaginava entrare con la sua nuova Audi lungo la stradina in salita e parcheggiare al centro del cortile bordato da fiori e piante dall’ombra fresca. Immaginava la sua donna che usciva per accoglierlo e le bici dei bambini lasciate in giro sul prato. Ci sarebbe stato tanto lavoro da fare ma il progetto era ciò che voleva. Era una vecchia casa abbandonata da mezzo secolo, sarebbe diventata una villa che i colleghi gli avrebbero invidiato. Seduto all’ombra di un vecchio e malconcio fico immaginò il suo futuro in quella casa. L’aveva comprata al giusto prezzo: sarebbe stata la rampa di lancio per la sua nuova vita.

C’era un silenzio pieno di luce in quella piccola terra quasi in cima all’altura, era un silenzio che ricordava quello dell’attesa.
Sotto le pietre della stalla, sotto le travi cadute per il peso del tempo, una vecchia cassa di legno marcio aspettava in silenzio di raccontare le storie di Lisetta, o forse aveva già cominciato a raccontare…

Maria Carmela Miccichè – mc.micciche.com

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Nell’immagine: Giovanni Fattori, “Contadina nel bosco”

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