“Siamo rimasti solo voce. Come la ninfa Eco, che a furia di consumarsi, per passione, finì col rimanere voce… eco di voce, eco della sua voce.
Non abbiamo più peso, né corpo, né vita, siamo soltanto voce.
La voce che si spande nei canali della quantità, la voce rinchiusa, asserragliata a spurgare, incarcerata. La voce dai motel, la voce rimasta impigliata nella rete dei telefoni, delle strade, dei binari.
Siamo rimasti Voce, senza più corpo, sul bordo della nostra gioventù, sull’orlo di come sarebbe dovuta andare. La voce delle serenate, che ci echeggiano nelle orecchie, e non ci lasciano in pace.
Puniti dalla troppa passione, ci si è portati al punto di rimanere fermi davanti ai bivi.
Allora ci è voluto il ritiro, l’impresa e l’epopea.
La voce è diventata la nostra divinità, il nostro nume.
Essa soltanto ci tutela e conserva, ci riproduce, che ci ha infebbrato la vita, ingravidati, e solo la voce è rimasta per sgravare quella colica di immaginazione, quel mare grosso che ci ha sollevati fino a dove Dio si è fatto intravedere e poi ancora, ci ha annegati, ributtati dalla parte di sotto. La voce è la nostra barca, il nostro confine, quel che resta di noi, l’eco della nostra voce, rimbalzante per tutti gli spigoli dai quali ci siamo intravisti.
La voce, eco della visione.”
“Dove siamo finiti tutti? Il tenente Dum, Caarlo sul sidecar a spasso nella notte, e Nuttless, e Maldonado… siamo rimasti solo voce.
E i poeti… i maestri? E i geni… i farneticatori, dove sono finiti? Dov’è il lustro dell’umanità?
Forse ora non sono più, non più nelle arti almeno, forse sono tornati alle strade, vociferano nelle officine, si accaniscono con le loro opere, che gli tolgono il senno.
Da lì dentro riportano il mondo a una frase conchiusa, a un marchingegno, a un volano… si annidano oscuri, nelle fucine, nello scasso, nel girone del recupero. Lì si abbandona la farneticazione, l’umanità rivoltata, l’umanità pangermanica, il cui linguaggio esotico è il tedesco. L’umanità a gas, che ancora conserva, che tutto conserva!
Il genio portentoso è tornato alle cave, alle fucine, s’è ridotto ai pistoni e alle pompe, da lì elabora la vita e la dispiega!
Qui sotto, tre gradini sotto il livello della strada, nel ventre di capodoglio della quantità, gli stuzzico i suoi grossi fanoni con il becco della mia penna. Mi abbandono all’impresa, all’edificio di vanità della costruzione della mia epopea.
Bisogna spurgare ora e spandere inchiostro come il calamaro degli abissi che si nasconde per essere centrato.
Materiale ce n’è. Materiale a peso, a litro, a quantità! Da farsi prendere dalla paralisi. Subito!
Vorrei che queste pagine si potessero prendere a etto, sfuse, a capitoli, a ognuno la parte che gli serve, come dal macellaio. Ordinatela a capitoli! A capitolazioni! Io non ne so più, non ne posso più…
Mi esce dalle orecchie, la Quantità, mi sopraffà, mi seppellisce, m’invade, mi butta a letto nel torpore… è torbida la quantità, non ci si ritrova, non ci si rispecchia più. La quantità mi sommerge, mi fa abbassare il groppone… non c’è scarto, non c’è nemmeno la speranza dello scarto nella quantità!
Tutto arriva e rifluisce! Rumina, rutta da sola e si ringoia, tutto si prende. La purezza dell’anima, la gioia, la bellezza, sprazzi perfetti, aguzzati dalla solitudine, dalla sbornia, dalla mistica… bagliori che raggiungono fino al fondo dove ci si è annidati, dove si è scomparsi, rintanati, ricacciati dal fastidio, dall’inedia, dalla febbre. Ah Gioia… abbagliante pagliuzza da cercare al setaccio, perforante come un’ulcera, chiarificante, che deposita, incatenata nel pigmento del materiale riproducibile, nelle registrazioni, nelle pagine, in tutti i supporti a cui rimane attaccata!
Se non si può dare in quantità, bisogna allora finire nella quantità! Buttare l’opera e il pensiero nella quantità, spremerla come un pus, come un’infezione, come Troilo spremeva il suo mantice!
Non c’è altro lì fuori. Solo questo conta… o se no, se non è veleno, allora distillarlo, depurarlo. E se è vapore, se è magia eterea, allora disseccarsi, sbiancarsi, come i legni sulla spiaggia.
Germogliare bisogna, infettarsi, in modo da imprimere sulla lastra di registrazione l’anima. Non ci devono essere artifici, è l’anima che di suo deve emanare, la lastra soltanto conta.
Oppure ancora, se si è febbricitanti, mobili come cani per strada, farla imprimere da sola, al passaggio.
Venire registrati, farsi prendere la targa in corsa.
Dev’essere la vita, che non lascia in pace nessuno per propagarsi ancora, per riprodursi.
Le femmine vengono prese dalla tristezza, una tristezza primordiale, ogni mese, tutti i mesi, quando falliscono la riproduzione. La vita gliel’ha messa in corpo, e la devono portare a frutto, altrimenti piangono, senza sapere perché.
Ai farneticanti del mistero è stata messa dentro la farneticazione, non hanno requie, devono depositare, come i salmoni le uova, controcorrente e diventare mostri, mostri d’amore.
Ai mangas, ai cantanti solitari, gli hanno messo il lutto dentro. È la loro ricchezza, il dono, e la vita li magnifica e non gli concede tregua.