Affabulazioni

Bariona

22.02.2022

Nel 1940 Jean-Paul Sartre viene fatto prigioniero dai tedeschi in Lorena, dopodiché viene internato in un campo di concentramento di Treviri. Qui incontra due sacerdoti,  Marius Perrin e padre Boisselot, con i quali si intrattiene a conversare di  di religione e di filosofia. All’approssimarsi del Natale, i due religiosi chiedono a Sartre di scrivere qualcosa che possa parlare indistintamente al cuore di tutti, che riesca, almeno per un attimo, a far dimenticare lo strazio della guerra e a a restituire speranze anche a chi non ne ha più. E Sartre, misurandosi – lui ateo – con la dimensione del sacro, scrive Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti, un atto unico in sette quadri. I nazisti,  pensando che si tratti di una semplice favola natalizia, ne autorizzano la rappresentazione e Sartre, scelti gli attori improvvisati,  sale personalmente sul palco impersonando uno dei Re Magi: Baldassarre.

Bariona,  “il figlio del tuono“, è il capo di un piccolo villaggio della Giudea, i cui abitanti, schiacciati dalla dominazione romana e dal continuo aumento della pressione fiscale, non avendo la forza per ribellarsi alla potenza dei loro oppressori che li affamano,  ricorrono ad una forma estrema e disperata di resistenza: in futuro non faranno più figli, così, quando l’intero paese si sarà spopoleto,  gli esattori romani  non potranno più vessare nessuno. Bariona è talmente determinato a raggiungere il suo scopo, che non desiste neppure quando sua moglie rimane incinta, cerca, anzi, di convincerla che generare una vita significa prolungare la sofferenza di un’altra creatura. Quando però un un angelo compare ad un gruppo di pastori annunciando che a Betlemme è nato il Messia, la sua gente, che finora gli era rimasta fedele, si ribella. Ancora una volta, però, Bariona non vuole cedere, fermo nel rivendicare la libertà dell’uomo davanti a Dio: “Quand’anche l’Eterno mi avesse mostrato il suo volto tra le nuvole, io rifiuterei ugualmente di sentirlo poiché sono libero, e contro un uomo libero Dio stesso non può nulla”. Entrano allora in scena i Re Magi  e Baldassarre si rivolge a Bariona rimproverandolo: “Tu soffri e pertanto il tuo dovere è di sperare […] l’uomo è sempre molto di più di quello che è. Vedi questo uomo, tutto appesantito dalla sua carne, radicato sul luogo dai suoi due grandi piedi e tu dici, stendendo la mano per toccarlo: è là. E ciò non è vero: ovunque sia, un uomo, Bariona, è sempre altrove”. Mentre l’intero villaggio decide  di seguire i Magi nel loro viaggio verso Betlemme, Bariona medita di andare ad uccidere il Messia. Arrivato a destinazione, però, trova di nuovo Baldassarre a sbarrargli il cammino, costringendolo a riflettere sul fatto che la sofferenza è inscindibile dall’uomo, per cui va accettata “come se vi fosse dovuta ed è sconveniente parlarne troppo, foss’anche con se stessi”. “Tu non sei la tua sofferenza. – prosegue Baldassarre – Qualunque cosa tu faccia la superi infinitamente, poiché è proprio ciò che tu vuoi che essa sia.” Sentendosi per la prima volta libero, Bariona decide di prendere le armi contro i soldati di Erode per tentare di contrastare la strage dei neonati e per coprire le spalle alla fuga di Gesù. Morirà in questa lotta, senza riuscire a vedere suo figlio.

Prologo

[…] Ecco il prologo. Sono cieco, per caso, ma prima di perdere la vista, ho guardato più di mille volte le immagini che contemplerete. Le conosco a memoria poiché mio padre era presentatore d’immagini come me e me le ha lasciate in eredità. Quella che vedete dietro di me, e che vi mostro col bastone, so che rappresenta Maria di Nazareth.
L’angelo viene ad annunciarle che avrà un figlio e che questo figlio sarà Gesù, nostro Signore. L’angelo è immenso con delle ali come due arcobaleni. Potete vederlo; io non lo vedo più, ma lo guardo ancora nella mia mente. È disceso come una inondazione nell’umile casa di Maria e la riempie ora del suo corpo fluido e sacro, del suo grande abito svolazzante.
Se guardate attentamente il quadro, noterete che si vedono i mobili della camera attraverso il corpo dell’angelo. Si è voluto far risaltare così la sua trasparenza angelica. Sta davanti a Maria e Maria lo guarda appena. Ella riflette. Egli non ha avuto bisogno di scatenare la sua voce come l’uragano. Egli non ha parlato; ella lo presentiva già nella sua carne. Ora l’angelo sta davanti a Maria e Maria è impenetrabile e cupa come una foresta di notte e la buona novella si è perduta in lei come un viaggiatore si perde nei boschi. E Maria è piena di uccelli e del lungo stormire delle fronde. E mille pensieri senza parola si destano in lei, pensieri pesanti di madri che accettano il dolore. E vedete, l’angelo ha l’aria interdetta davanti a questi pensieri troppo umani: gli dispiace essere angelo perché gli angeli non possono nascere né soffrire. E quel mattino di Annunciazione, davanti agli occhi sorpresi di un angelo, è la festa degli uomini poiché è il tempo dell’uomo essere sacro. Guardate bene l’immagine, miei buoni signori, e dapprima la musica, il prologo è terminato; la storia incomincerà nove mesi più tardi, il 24 dicembre, nelle alte montagne della Giudea.

Quinto quadro, scena terza

[Parla il presentatore di immagini]

[…] La montagna brulica di uomini in festa e il vento porta l’eco della loro gioia fino alla sommità delle cime. Approfitterò di questa tregua per mostrarvi il Cristo nella stalla, poiché non lo vedete in altro modo: non appare in questa stanza Giuseppe né la Vergine Maria. Ma siccome oggi è Natale, avete il diritto di esigere che vi si mostri il presepe. Eccolo. Ecco la Vergine ed ecco Giuseppe ed ecco il bambino Gesù. L’artista ha messo tutto il suo amore in questo disegno ma voi lo troverete forse un po’ naif. Guardate, i personaggi hanno ornamenti belli ma sono rigidi: si direbbero delle marionette. Non erano certamente così. Se foste come me, che ho gli occhi chiusi… Ma ascoltate: non avete che da chiudere gli occhi per sentirmi e vi dirò come li vedo dentro di me. La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne, e il frutto del suo ventre. L’ha portato nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti, rimane interdetta e pensa: Dio è là e si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino terrificante. Poiché tutte le madri sono così attratte a momenti davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che popolano di pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre poiché egli è Dio ed è oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che è Dio. Lo guarda e pensa: «Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia». E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino-Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride. Questo è tutto su Gesù e sulla Vergine Maria.
E Giuseppe? Giuseppe, non lo dipingerei. Non mostrerei che un’ombra in fondo al pagliaio e due occhi brillanti. Poiché non so cosa dire di Giuseppe e Giuseppe non sa che dire di se stesso. Adora ed è felice di adorare e si sente un po’ in esilio. Credo che soffra senza confessarselo. Soffre perché vede quanto la donna che ama assomigli a Dio, quanto già sia vicino a Dio. Poiché Dio è scoppiato come una bomba nell’intimità di questa famiglia.
Giuseppe e Maria sono separati per sempre da questo incendio di luce. E tutta la vita di Giuseppe, immagino, sarà per imparare ad accettare. Miei buoni signori, questa è la Sacra Famiglia. Ora apprenderemo la storia di Bariona poiché sapete che vuole strangolare quel bambino.

[È Bariona che parla]

Che cosa fanno? Non si sente più un rumore ma questo silenzio non è simile a quello delle nostre montagne, al silenzio glaciale dell’aria rarefatta che regna nei corridoi di granito. È un silenzio più denso di quello di una foresta. Un silenzio che si innalza verso il cielo e stormisce alle stelle come un grosso vecchio albero cui il vento culla la chioma. Si sono messi in ginocchio? Ah! se io potessi essere tra loro, invisibile: poiché in verità lo spettacolo non deve essere abituale; tutti quegli uomini duri e seri, avidi di sfarzo e di guadagno, inginocchiati davanti a un bambino che vagisce. Il figlio di Chalem, che lo lasciò a quindici anni per aver ricevuto troppi scappellotti, riderebbe a vedere suo padre adorare un marmocchio. Sarà il regno dei bambini sui genitori? (Un silenzio). Sono là, ingenui e felici, nella stalla tiepida, dopo la loro grande corsa nel freddo.
Hanno unito le mani e pensano: qualcosa è incominciato. E si sbagliano, s’intende, e sono caduti in una trappola e pagheranno ciò caro più tardi; ma, cionondimeno, avranno avuto questo minuto; hanno fortuna di poter credere a un inizio. Che cosa c’è di più commovente per un cuore d’uomo che l’inizio di un mondo e la giovinezza dai tratti ambigui e l’inizio di un amore, quando tutto è ancora possibile, quando il sole è presente nell’aria e sui visi, come una fine polvere senza essersi ancora mostrato e fa presagire, nell’acre freschezza del mattino, le pesanti promesse del giorno. In questa stalla incomincia un mattino. In questa stalla fa giorno. E qui fuori è notte. Notte sulla strada e nel nostro cuore. Una notte senza stelle, profonda e tumultuosa come l’alto mare. Ecco, sono sballottato dalla notte come una botte dalle onde e la stalla è dentro di me, luminosa e fonda, come l’Arca di Noè essa naviga nella notte, rinchiudendo in sé il mattino del mondo. Il suo primo mattino. Poiché non aveva mai avuto un mattino. Era caduto dalle mani del suo creatore indignato in una fornace ardente, nel nero, e le grandi lingue brucianti di questa notte senza speranza passavano su di lui, coprendolo di vesciche e facendo aumentare la forte affluenza degli onischi e delle cimici.
E io sono nella grande notte terrestre, nella notte tropicale dell’odio e della disgrazia. Ma – potenza ingannevole della fede – per i miei uomini, migliaia d’anni dopo la creazione, si alza in questa stanza, al chiarore di una candela, il primo mattino del mondo.

Un uomo è sempre altrove
Vedi questo uomo, tutto appesantito dalla sua carne, radicato sul luogo dai suoi due grandi piedi e tu dici, stendendo la mano per toccarlo: è là. E ciò non è vero: ovunque sia, un uomo, Bariona, è sempre altrove. Oltre le cime violette che tu vedi di qui, a Gerusalemme; a Roma, oltre questa giornata glaciale, domani. E tutti questi che ti circondano, sarà difficile che siano ancora qui: sono a Betlemme in una stalla, attorno al piccolo corpo caldo di un bambino. E tutto questo avvenire di cui l’uomo è plasmato, tutte le cime, tutti gli orizzonti violetti, tutte queste città meravigliose che bazzica senza mai averci messo i piedi: è questa la Speranza. È la Speranza. Guarda i prigionieri che sono davanti a te, che vivono nel fango e nel freddo. Sai quello che vedresti se potessi seguire la loro anima? E colline e i dolci meandri di un fiume e delle vigne e il sole del Sud, le loro vigne e il loro Sole. È laggiù che essi sono. E le vigne dorate di settembre, per un prigioniero intirizzito e coperto di parassiti, questa è la Speranza. La Speranza è il meglio di essi. E tu, vuoi privarli delle loro vigne e dei loro campi e dello splendore delle colline lontane, vuoi lasciar loro solo il fango e i pidocchi e la rutabaga, vuoi dar loro il presente spaventato della bestia.
Poiché è la tua disperazione: ruminare l’istante che passa, guardare tra i tuoi piedi con un occhio rancoroso e stupido, strappare la tua età dall’avvenire e richiuderla in cerchio intorno al presente. Allora non sarai più un uomo, Bariona, non sarai che una pietra dura e nera sulla strada. Sulla strada passano delle carovane, ma la pietra resta sola e irrigidita come un limite nel suo risentimento.
Un uomo è sempre altrove
“Vedi questo uomo, tutto appesantito dalla sua carne, radicato sul luogo dai suoi due grandi piedi e tu dici, stendendo la mano per toccarlo: è là. E ciò non è vero: ovunque sia, un uomo, Bariona, è sempre altrove. Oltre le cime violette che tu vedi di qui, a Gerusalemme; a Roma, oltre questa giornata glaciale, domani. E tutti questi che ti circondano, sarà difficile che siano ancora qui: sono a Betlemme in una stalla, attorno al piccolo corpo caldo di un bambino. E tutto questo avvenire di cui l’uomo è plasmato, tutte le cime, tutti gli orizzonti violetti, tutte queste città meravigliose che bazzica senza mai averci messo i piedi: è questa la Speranza. È la Speranza. Guarda i prigionieri che sono davanti a te, che vivono nel fango e nel freddo. Sai quello che vedresti se potessi seguire la loro anima? E colline e i dolci meandri di un fiume e delle vigne e il sole del Sud, le loro vigne e il loro Sole. È laggiù che essi sono. E le vigne dorate di settembre, per un prigioniero intirizzito e coperto di parassiti, questa è la Speranza. La Speranza è il meglio di essi. E tu, vuoi privarli delle loro vigne e dei loro campi e dello splendore delle colline lontane, vuoi lasciar loro solo il fango e i pidocchi e la rutabaga, vuoi dar loro il presente spaventato della bestia.
Poiché è la tua disperazione: ruminare l’istante che passa, guardare tra i tuoi piedi con un occhio rancoroso e stupido, strappare la tua età dall’avvenire e richiuderla in cerchio intorno al presente. Allora non sarai più un uomo, Bariona, non sarai che una pietra dura e nera sulla strada. Sulla strada passano delle carovane, ma la pietra resta sola e irrigidita come un limite nel suo risentimento.”

Jean-Paul Sartre, “Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti”, pubblicato per la prima volta nel 1967

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