“La compassione va oltre le regole. Se non abbiamo la fortuna di esserlo già da sempre, come si diventa compassionevoli? Stando con la propria crudeltà, con l’indifferenza, sentendola, contemplandola e rinunciando ad agirla. Non negare i cosiddetti sentimenti negativi, ma anzi percepire il peso, il sapore, il restringimento dello spazio della coscienza che portano con sé è il primo passo verso la compassione; farsi spazzini del cuore, anziché arredatori di luoghi non visitati, non puliti a fondo, con lo sporco nascosto sotto un impeccabile tappeto. Chi crede di essere buono è pericoloso. Solo conoscere la propria capacità di nuocere e addestrarsi a non esercitarla può far accedere alla bontà fondamentale, o intelligenza del cuore.”
“Bisogna salvare le ferite. Non lasciarle sole, sperdute nell’idea fissa della medicazione e della guarigione. Bisogna interrogare le ferite e aspettare le risposte. La risposta alla ferita siamo noi. I nostri gesti, le nostre possibilità accolte o respinte, i tremori e gli assalti rispondono tutti alle ferite. Perdere una ferita significa perdere una segnaletica importante per un viaggio dentro le orme dell’esistenza, un viaggio che ci accomuna e ci distingue, ci fa cantati, cantati dalla vita cruda.”
“Non riusciamo a vedere i contorni della nostra esistenza, d’altra parte viviamo su un pianetino perso in una piccola galassia tra innumerevoli galassie di un universo che non ha fine. Ma non ci pensiamo mai, non ci guardiamo mai da quella misura, non stiamo nella piccolezza, eppure fa bene, si prende tutto meno personalmente, si ha una visione più vasta dove il male non ci viene fatto perché qualcuno lo decide a tavolino, ma perché siamo ignoranti e presi solo da noi stessi e dalle nostre illusioni. “
“Così ora, nella prima epoca in cui la vita stessa del pianeta è a rischio, fare quel che possiamo, ognuno nel suo campicello, senza pretese tuttologiche, ma con l’interezza del corpo-cuore-mente, ci può far sentire meno impotenti, più chiamati all’essere parte, essere insieme, senza enfasi, facendo per bene il nostro compito, con passione. C’è la possibilità di una rivoluzione personale nelle relazioni che ci circondano, nei passanti che incontriamo, negli amori, nelle amicizie, che se mettiamo in atto ci dà il senso di quello che è da salvare e di come sia naturale e soddisfacente vivere così: lavorando a mano il bene, nella prossimità, nell’ordinarietà, senza sfoggio. C’è un riverbero grande, c’è il disegno di una cicogna che ci aspetta.”
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“Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti, e al massimo ti preparano bende e cerotti per quando sosti un momento e li guardi disperato negli occhi: la disperazione dei cani quando non capiscono i nostri comportamenti discontinui. In ognuno di noi c’è un cane spaventato dalla discontinuità dell’esperienza
Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi.
Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora.
La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore più ferito della terra.
Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo.
Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre più piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere.
Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.”
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“Sono stata spugna. Per molti anni, quasi tutta la giovinezza, appena incontravo qualcuno, ero spugna.
L’avevo imparato nell’infanzia. Stai lí e assorbi tutto.
Non so come, ma quando si incontra una spugna, gli altri si sentono invitati a parlare moltissimo. Quando
poi se ne andavano, ero stanchissima e opaca, completamente senza riflesso. Certe volte andavo a dormire
raggomitolata sotto il piumino e quando provavano a svegliarmi mi lamentavo e mi ci avvolgevo ancora
più stretta, come in un bozzolo. Quando una volta finalmente mi chiesero: «Ma cos’hai? Sei malata?» Risposi
solo: «Ho visto gente». E allora compresi che era ora di finirla.
Per un po’ mi chiusi a riccio: non volevo più vedere nessuno.
Poi, dopo anni di India, di tecniche di meditazione e di approdo a comprendere che stare con il respiro
non è una tecnica ma una storia d’amore, mi sono tramutata, piano piano, con lenta costruzione, in fontana.
Posso ancora ascoltare, ma solo finché c’è acqua che scorre e la fontana non trabocca. Ma soprattutto,
la fontana è lì a disposizione, chi vuole ci va a bere e lei non assorbe niente, scorre. Il cuore non è spugna,
è fontana.”