Linguaggi

“Le parole tra noi leggere”

16.03.2022

“…Le parole tra noi leggere cadono”. 

Eugenio Montale, da “Due nel crepuscolo”, in “La bufera e altro”

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Io imparo le parole

“Preposto al servizio delle stelle,
Io giro, come una ruota,
Che s’invola all’istante sull’abisso,
Che finisce sull’orlo del precipizio,
Io imparo le parole.

Velimir Chlebnikov (1885 – 1922): pseudonimo di Viktor Vladimirovič Chlebnikov; poeta futurista russo

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Non c’è che lo spazio di una postilla

“Non c’è che lo spazio di una postilla,
il decoro di un probabile
risultato da contrabbandare.
Poi la parola si torce come serpe inchiodata dalla canna”.

Angelo Scandurra

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Le parole si sono ammalate

“Le parole si sono ammalate.
Oggi le ho trovate pallide, se ne stavano contro il muro di casa
a contarsi le sillabe.
Di sicuro erano in febbre per l’incuria che ho
a serrare gli spifferi e dirigere le correnti.
Per averle dimenticate al freddo mentre rigovernavo la mia vita altrove,
mi hanno fatto lo sgarbo d’infettarsi
e ora stanno lì in un angolo a dire insensatezze
nominando i miei fantasmi e a tossire senza pace.
Le ho sgridate, le mie parole: siete grandi, grandi abbastanza
da accudirvi se mi distraggo o m’incaglio in un impegno
o in un amore.
Ma loro non mi hanno dato da dormire
stanotte scottavano, deliravano ancora
e io ho perdonato loro la verità che cantilenavano
mentre il mercurio passava i quaranta.
Ho chiuso le finestre e dato fuoco al camino
per tamponare ogni vento ho stracciato le mie vesti
– ché non serve stare composta se sommo mancanze.
Domani staranno meglio, le mie parole
e non diranno più che le trascuro per abitare altre stanze vive
ma mentre le assisto so che il malanno s’annida altrove
e già il mio amore -nella stanza in fondo –
comincia a starnutire.”
Elisa Ruotolo, da “Corpo di pane”
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Immagine dal web
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Parole

“La verità
non è lamento
è chicco che diventa grano
da trasformare in pane
l’amico l’ascolta,
la percepisce
non importa
se scritta in un foglio vecchio
e macchiato di lacrime.
La parola è una rosa
quando apre i petali,
l’amico
ammira il profumo e il colore
la custodisce
tra le pagine di un libro
come fosse il suo cuore.”

Anna Maria Cherchi,  “Parole”

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Le parole

“Le parole non hanno né occhi né gambe,
non hanno bocca o braccia,
non hanno visceri
e spesso nemmeno cuore,
o ne hanno assai poco.
Non puoi chiedere alle parole
di accenderti una sigaretta
ma possono renderti più piacevole il vino.
E, certo, non puoi costringere le parole
a fare qualcosa che non vogliono fare.
Non puoi sovraccaricarle
e non puoi svegliarle
quando decidono di dormire.
Qualche volta gli scrittori
si uccidono quando le parole li lasciano.
Altri scrittori fingeranno
di averle ancora in pugno
anche se le loro parole
sono già morte e sepolte.
Le parole sono
uno dei più grandi miracoli al mondo,
possono illuminare o distruggere menti,
nazioni, culture.
Le parole sono belle e pericolose.
Se verranno a trovarti te ne accorgerai
e ti sentirai il più fortunato sulla terra.
Nient’altro avrà più importanza
e ogni cosa sembrerà importante.
Ti sentirai il dio sole,
riderai del tempo che fugge,
ce l’avrai fatta.
Lo sentirai dalle dita
fino alle budella,
e sarai diventato, finché dura,
un fottutissimo scrittore
che rende possibile l’impossibile,
scrivendo parole,
scrivendole,
scrivendole.”

Charles Bukowski, “Le parole”

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Catrin Welz-Stein

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La magia delle parole

“Sulla tua bocca la parola si fa goccia di rugiada.
Dici: albero … e tutto un bosco sta dinanzi a me.
Dici pietra … e non l’asfalto, non il cemento,
ma uno scoglio che punge sott’acqua.
Dici: prato … e con pianelle oscure
passa la notte sulla punta dell’erbe.
Dici: lago: … e con lenti gorgoglii
salgono dal profondo anelli e perle.
Dici: bello … e l’alba ci reca un tulipano
e abbiamo il grembiale colmo di primule.
Dici: io … e ardi pallido fuoco
come candela accesa a mezzogiorno.
Dici: estate … e ansimano le lucertole
sulle pietre roventi,
fuoriesce dalla terra la radice del fiore.
E sulla Via Lattea, greve di profumi,
passa un lento carro di fieno.
Dici: autunno … e trenta ceste si riempiono di mirtilli.
E quando quasi tutto è consumato,
ti hai un sigillo rosso al posto della bocca
mentre lentamente fai sciogliere il mio nome.”

Amy Károlyi (poetessa ungherese), “La magia delle parole”

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Scritto con inchiostro verde

“L’inchiostro verde crea giardini, selve, prati,
fogliame dove cantano le lettere,
parole che son alberi,
frasi che sono costellazioni.

Tu bianca, lascia che le mie parole scendano e ti ricoprano
Come una pioggia di foglie su un campo di neve,
come l’edera su una statua,
come l’inchiostro su questo foglio.
Braccia, cintura, collo, seni,
la fronte pura come il mare,
la nuca di bosco d’autunno,
i denti che mordono un filo d’erba.

Il tuo corpo è costellato di segni verdi
Come il corpo dell’albero dalle gemme.
Non ti importi di tante piccole cicatrici luminose
Guarda il cielo e il suo verde tatuaggio di stelle.”

Octavio Paz, “Scritto con inchiostro verde”, da “Libertà sulla parola” (1958)

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Huaibo Luo

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Costruire una capanna

“Costruire una capanna
di sassi rami foglie
un cuore di parole
qui, lontani dal mondo
al centro delle cose,
nel punto più profondo.”

Pierluigi Cappello, da “Stato di quiete”

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Parole povere

“Uno, in piedi, conta gli spiccioli sul palmo
l’altro mette il portafoglio nero
nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.
Una sarchia la terra magra di un orto in salita
la vestaglia a fiori tenui
la sottoveste che si vede quando si piega.
Uno impugna la motosega
e sa di segatura e stelle.
Uno rompe l’aria con il suo grido
perché un tronco gli ha schiacciato il braccio
ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato
e io c’ero, ero piccolino.
Uno cade dalla bicicletta legata
e quando si alza ha la manica della giacca strappata
e prova a rincorrerci.
Uno manda via i bambini e le cornacchie
con il fucile caricato a sale.
Uno pieno di muscoli e macchie sulla canottiera
Isolina portami un caffè, dice.
Uno bussa la mattina di Natale
con una scatola di scarpe sottobraccio
aprite, aprite. È arrivato lo zio, è arrivato
zitto zitto dalla Francia, dice, schiamazzando.
Una esce di casa coprendosi un occhio con il palmo
mentre con l’occhio scoperto piange.
Una ride e ha una grande finestra sui denti davanti
anche l’altra ride, ma non ha né finestre né denti davanti.
Una scrive su un involto da salumiere
sono stufa di stare nel mondo di qua, vado in quello di là.
Uno prepara un cartello
da mettere sulla sua catasta nel bosco
non toccarli fatica a farli, c’è scritto in vernice rossa.
Uno prepara una saponetta al tritolo
da mettere sotto la catasta e il cartello di prima
ma io non l’ho visto.
Una dà un calcio a un gatto
e perde la pantofola nel farlo.
Una perde la testa quando viene la sera
dopo una bottiglia di Vov.
Una ha la gobba grande
e trova sempre le monete per strada.
Uno è stato trovato
una notte freddissima d’inverno
le scarpe nella neve
i disegni della neve sul suo petto.
Uno dice qui la notte viene con le montagne all’improvviso
ma d’inverno è bello quando si confondono
l’alto con il basso, il bianco con il blu.
Uno con parole proprie
mette su lì per lì uno sciopero destinato alla disfatta
voi dicete sempre di livorare
ma non dicete mai di venir a tirar paga
ingegnere, ha detto. Ed è già
il ricordo di un ricordare.
Uno legge Topolino
gli piacciono i film di Tarzan e Stanlio e Ollio
e si è fatto in casa una canoa troppo grande
che non passa per la porta
Uno l’ho ricordato adesso adesso
in questo fioco di luce premuta dal buio
ma non ricordo che faccia abbia.
Uno mi dice a questo punto bisogna mettere
la parola amen
perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.
E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.

Pierluigi Cappello, “Parole povere”

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Catrin Welz-Stein

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Se non ci fossero le Parole

“Se non ci fossero le Parole,
quelle buone, che riparano le fragilità,
quelle commestibili, che saziano la fame di amore,
quelle che raccontano le storie, trasportandoci dentro le memorie del tempo che fu,
quelle che ci fanno riabbracciare i nostri cari,
quelle che infettano il cuore di compassione e come virus creano pandemie di solidarietà,
quelle che hanno la missione di lasciare un’impronta per le generazioni future,
quelle che sono balsamo quando scende la notte e ci sembra troppo grande la sua ombra,
quelle che sanno meravigliare gli occhi dei bambini e come ninna nanna li accompagnano nel mondo di Hermes che come buon pastore protegge il loro sonno,
quelle che ci portano in dono audaci intuizioni,
quelle che ci fanno uscire dalla prigione dell’apatia per ispirarci a vivere come eroi del nostro tempo,
quelle divinatorie che portano con sé le tracce del futuro.
Ecco, se non ci fossero le parole,
il mondo si ridurrebbe a uno spazio senza stagioni e la sua bellezza smetterebbe di fiorire.
Dunque lasciamo alla parola il dono dell’eternità
e non dimentichiamo di essere impeccabili mentre la esprimiamo.”

Fiorinda Pedone

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S’impara a tacere con gli anni

“Non c’è parola più certa di un’altra.
S’impara a tacere con gli anni,
anche se sembra che parliamo.
Si nasce senza parole
e con tutte le parole distrutte
ce ne andiamo.
E tuttavia,
nonostante vivere significhi ammutolire,
esiste un piacere primordiale nel silenzio,
che giustifica tutti i silenzi.”

Javier Vicedo Alós, da “Omaggio verticale” (dedicata a Roberto Juarroz), in “Finestre da nessuna parte”

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Io temo tanto la parola degli uomini

“Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono tutto sempre cosí chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine.

E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e sarà;
non c’è montagna che li meravigli;
le loro terre e giardini confinano con Dio.

Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani.
A me piace sentire le cose cantare.
Voi le toccate: diventano rigide e mute.
Voi mi uccidete le cose.”

Rainer Maria Rilke

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Una parola muore appena detta

“Una parola muore
appena detta,
dice qualcuno.

Io dico che solo
quel giorno
comincia a vivere”

Emily Dickinson

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Parole semplici

“C’è bisogno di molte parole semplici
come:
pane,
amore,
bontà,
per non sviare dalla retta via
sugli incroci,
accecati dall’oscurità.
C’è bisogno di molto silenzio, di silenzio
fuori e dentro di noi,
per udire la voce,
la flebile, timida e sommessa voce
dei colombi,
delle formiche,
della gente,
dei cuori
e delle loro pene
in mezzo a ingiustizie e guerre
in mezzo a tutto quello
che non è
pane, amore
e nemmeno bontà.
Silenzio,
silenzio. Solo i cuori
seguano il tempo
e traccino il cammino.”

Tone Pavček, “Parole semplici” (poeta e saggista sloveno)

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Le non-parole
“Lui ha teso verso di me una foglia come una mano con le dita.
Io ho teso verso di lui una mano come una foglia con i denti.
Lui ha teso verso di me un ramo come un braccio.
Io ho teso verso di lui il braccio come un ramo.
Lui ha piegato verso di me il suo tronco
come un melo.
Io ho piegato verso di lui la spalla
come un tronco nodoso.
Sentivo la sua linfa accelerare pulsando
come il sangue.
Sentiva il mio sangue rallentare salendo come la linfa.
Io sono passata attraverso di lui.
Lui è passato attraverso di me.
Io sono rimasto un albero solo.
Lui
un uomo solo.”
Nichita Stănescu, da “La guerra delle parole”, 1999 – Traduzione di Fulvio del Fabbro e Alessia Tondini
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René Magritte, “La ricerca dell’assoluto”, 1940
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Due parole

“Questa notte all’orecchio m’hai detto due parole.
Due parole stanche
d’esser dette.
Parole così vecchie da esser nuove.
Parole così dolci che la luna che andava
trapelando dai rami
mi si fermò alla bocca.
Così dolci parole
che una formica passa sul mio collo e non oso
muovermi per cacciarla.
Così dolci parole
che, senza voler, dico: “Com’è bella la vita!”
Così dolci e miti
che il mio corpo è asperso di oli profumati.
Così dolci e belle
che, nervose, le dita
si levano al cielo sforbiciando.
Oh, le dita vorrebbero
recidere stelle.”

Alfonsina Storni, “Due parole”

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Aver ragione

“Quando a furia di prove e di argomenti
e obiezioni e domande sei riuscito
a farti dare ragione
e l’altro, quello che ha torto,
lo vedi zitto lì davanti,
sgonfio, come morto,
questa scena di uno abbandonato
dalle parole
ti fa talmente patire
che pur di farlo ancora un po’ parlare,
pur di non essere più
lì da solo
vorresti dire che non importa,
che la cosa non è
poi tanto chiara.

Proprio allora
ti accorgi che il discorso
ha lasciato anche te.”

Umberto Fiori, “Aver ragione”, da “Chiarimenti”

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Porto in salvo dal freddo le parole

“Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.”

Francesco Scarabicchi

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Siccità poetica

“Le parole non si attaccano alla carta,
volano sparse, si perdono nell’aria.
Vanno come matte da legare,
come puttane
all’epoca dei conventi.
Soffrono di demenza.
Rinnegano.
Finché un bel giorno
si fermeranno all’improvviso.”

Anahì Lazzaroni (poetessa argentina)

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Va scomparendo 

“Va scomparendo perfino
l’intelligenza dei fanciulli,
e gli adulti non hanno più memoria:
anche la lingua va morendo,
né ci sarà la Neolingua a salvarci:
ci saranno solo dei segni
e dei grugniti…
se appena qualcuno mostrerà
di comprendere, si dirà:
“è intelligente”!
E continueremo
ad ingannarci:
illusi di aver capito.”
David Maria Turoldo, da “O sensi miei…” in “Poesie 1948-1988”

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Lui aveva…

“Lui aveva – gli sembrava – mille cose da dire
a queste parole che non dicevano niente;
che attendevano, allineate;
senza passato né destino.
E ciò la turbava infinitamente;
al punto di non avere, lei stessa, più niente da dire,
già, già”
Edmond Jabès (poeta egiziano), da “Le Seuil le Sable”, 1990
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Amo il bianco tra le parole

“Amo il bianco tra le parole,
il loro margine ardente,
amo quando taci
e quando riprendi a parlare,
amo la parola che galleggia
solitaria
sullo specchio buio del vocabolario,
e quando sborda, va alla deriva
con deciso smarrimento,
quando si oscura
e quando si spezza,
si fa ombra.
Quando veste il mondo,
quando lo rivela,
quando fa mappa,
quando fa destino.
Amo quando è imminente
e quando si schianta,
quando è straniera,
quando straniera sono io
nella sua ipotetica terra,
amo quello che resta,
dopo la parola detta,
non detta. E quando è proibita
e pronunciata lo stesso,
quando si cerca e si vela,
quando si sposa
e quando è realtà dei muri
e quando sfracellarsi al suolo,
quando scorre candida
e corre per prima a bere,
e quando preme alla gola,
spinge all’aperto,
quando è presa a prestito,
quando mi impresta al discorso
dell’altro, quando mi abbandona.
Non voglio una parola di troppo,
voglio un silenzio a dirotto,
non un commercio tra mutezza e voce,
ma una breccia,
una ferita che allarga luce,
un sottosuolo della musica.
Dammi un amore che precipita –
parola.”

Chandra Livia Candiani, da “La bambina pugile”, 2014

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Loui Jover 

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Non ho le parole
“Non ho le parole
dalla mia parte,
stanno nel mondo,
in ordine sparso,
fuori, attorno alle cose
o nel loro oscuro fondo,
sono solchi
su terra spaccata,
urlo di bestia nella notte,
male che orienta,
che dà alla luce.
Fanno trincea,
sbrigliando pulsano forte
nella nudità delle cose,
fanno fessura,
lasciano un appuntamento,
nella gioia incredula del mondo.
«Passami il pane».
«A che ora parti?»
«Lo accompagni?»
Passami la tua mano,
trasmetti senso a perdita d’occhio,
non orizzonte spento,
chiamala la parola,
passa l’impedimento
che ci sgretola,
l’aspro invito del limite.
Mi inginocchio,
chino le spalle tutte
sotto il peso del grande,
lo snodo, lo perdo,
nell’infinito del pavimento,
preghiera a terra.
Dammi una parola sola,
un richiamo per esseri umani.”
Chandra Candiani da “La bambina pugile”
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Aprire le gabbie togliere le virgole
“Aprire le gabbie togliere le virgole
allontanare tutti i punti sparare
in aria lasciar scappare le parole
nella notte sentirle abbaiare nei
dintorni la mattina sentirle rientrare
da sole le parole non ci sanno stare
fare la conta di quelle rientrate
chiudere le gabbie sentirle ringhiare.”
Andrea Bajani, da “Promemoria”
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Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole

“Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole,
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole. Costruiremo un terrazzo con la timida rosa
con colonne fatte di parole,
E una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.
Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
chi pregheremo… se non le parole?”

Nazik al-Mala’ika, poetessa irachena

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Perché abbiamo paura delle parole?

“Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa,
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote,
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?
Perchè abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e di vita?
Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,
e caldi calici.
Perché abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere hanno estratto il tepore della speranza da due labbra,
e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada tra la felicità momentanea di due occhi
inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote, suoni
che, assopiti nella loro eco, colorano una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.
Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.
Su, versaci due calici di parole…”
Nazik al Mala’ika
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Thomas Broomé
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Alcune delle parole più trite

“Alcune delle parole più trite
entrarono in coma. La parola
rosa nascose i suoi petali e si nascose
in una siepe di ortiche e di erbacce.
La parola luna si nascose
dietro le cisterne di amianto sui tetti
e avvisò le altre su una cricca di ipocriti
che passava di lì cacciando falsi sogni
con una rete consumata per cacciare farfalle.
Alcune parole sfiancate
da centurie di stolti, riuscirono a fuggire
alla muta e a mettersi al sicuro
nella casa dei muti. Uno sciopero di voci
si rifiuta d’essere esibita come un bottino.
Si pensa che si ridusse la popolazione
di predatori della lingua, come anche
le tristi veglie del tedio
e il traffico falso di miraggi.
Se ne sono andate all’entrare nell’oblio dei circoli
dove cantano la bellezza e nascondono i denari.
Perfino la parola amore
è emigrata dalle ballate e dai sermoni”
Juan Manuel Roca (poeta colombiano)
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Remedios Varo, “Papilla estelar”, 1958
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Siate cauti con le parole

“Siate cauti con le parole,
anche con quelle miracolose.
Per le miracolose facciamo del nostro meglio,
a volte sciamano come insetti
e non lasciano una puntura ma un bacio.
Possono essere buone come dita.
Possono essere sicure come la roccia
su cui incolli il culo.
Ma possono essere margherite e ferite.

Io sono innamorata delle parole.
Sono colombe che cadono dal tetto.
Sono sei arance sacre sedute sul mio grembo.
Sono gli alberi, le gambe dell’estate,
e il sole, il suo volto appassionato.
Ma spesso non mi bastano.
Ci sono così tante cose che voglio dire,
tante storie, immagini, proverbi, ecc.
Ma le parole non sono abbastanza buone,
quelle sbagliate mi baciano.
A volte volo come un’aquila
ma con le ali di un passero.
Ma cerco di averne cura
e di essere gentile con loro.

Le parole e le uova devono essere maneggiate con cura.

Una volta rotte
sono cose impossibili da aggiustare.”

Anne Sexton, “Siate cauti con le parole”, da “The Complete Poems”

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Quante parole non ci sono più

“Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla
vivere e non c’è nulla,
mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci.
Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.”
Mario Benedetti (poeta italiano), da “Tersa morte”, 2013
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Dan Fleming, “Wordanimals”, 2020
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Le mie parole amate
(a Sosi e Gino)
“Le mie parole sono capra
ed erano capra e pecora
le mie parole sono zappa
e asino vanga e pietra
per affilare la falce erba
medica farfalla e ragno
nella ragnatela al sole
nel granturco e mulo erano
e cavalla scrofa carretto
le mie parole amate.”
Umberto Bellintani, “Le mie parole amate”, in “Dalla grande pianura”, 1998
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Prima coniugazione
Trovare le parole fondamentali.
Imparare come dire “perdono”
nella lingua di chi irrompe,
e “buongiorno”,
e “prendi”
e “sono venuto a conoscerti”.
Imparare come dire “grazie”
nella lingua di quelli
che distruggono
e anche quelli che disfano.
Come dire “caffè”,
“amore”, “patria”,
“shalom”, “salam aalaikum”.
Imparare come si dice “vieni”,
“entra”,
“questa è casa mia”
in un Paese a sud del quale
restano rovine.
Imparare “obrigada”,
“spasiba”.
Imparare quali colori non esistono
nelle lingue d’Africa.
E come rispondere di sì a Pechino.
Arrivare nelle città e scoprire
i segreti del mercato, capire.
Imparare qual è in ogni terra
l’etimologia di “anima”,
e in che modo salutavano la paura
i miei bisnonni.
Trovare le parole fondamentali.
E poi parlare.
Laura Casielles (poetessa asturiana), “Prima coniugazione”
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Parole
“Parole improvvise, sprovviste, non premeditate,
nascono nel vento, parto dell’aria;
muoiono bimbe, appena nate, subito dopo
essere state pronunciate con noncuranza:
alternano Speranza e Paura, sorelle
di tutti i contrari, nella stessa alcova ventosa,
secondo i capricci della mente.
Ma i biglietti d’amore sono testimoni inflessibili
sostanziali documenti affidati all’eternità;
evidenti prove che confessano una verità
su cui l’amante può fare chiaro affidamento;
pensieri rigorosi, ragionati, risoluti:
finché ogni parola non va devoluta alle nuvole.”
Aphra Behn (1640-1689), poetessa, scrittrice, spia al soldo di Carlo II (nome in codice “Astrea”)
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Nomi
“Qual è la parola per dire che non si hanno più sentimenti
negativi verso chi ti ha ferito?
Perdono, mi hanno risposto. Ma io volevo, al contrario, parlare
del rancore.
Questo è stato l’inizio e può valere come esempio.
Ogni giorno c’è una parola nuova di cui non ricordo il senso e il cui suono tintinna un motivo percepito a brani
familiare una volta, ora perduto.
La sua luce abituale cade. Di colpo non importa,
provo rancore, perdono chi prova rancore, mi perdono?
C’è un alfabeto incomprensibile, un linguaggio dimenticato.
I nomi ruotano privi della loro materia fin dal mattino.
Come chiamare la stoffa bianca che il vento muove davanti alla vetrata?
Tenda, tende. Il riso mi si annida in gola.
Lei, cioè io, tende a cosa?
Qui so rispondere: tendo alla terza persona
alla grazia sperimentata una volta sola
di un dolore sdoppiato e spinto fuori, poi fissato, ascoltato perfino nello scroscio delle lacrime
ma da un’altra me stessa
capace di lasciare la sua vecchia pelle sulla terra.
Giudica tu ora chi parla:
“I nomi la confondono eppure la sua attenzione si è moltiplicata, lo sguardo si è fatto prensile, capace di rischiarare il pensiero: vai verso la morte. E mentre nota la macchia di oleandro contro l’edera ecco il secondo pensiero: come guardare meglio, come raccogliere quel dettato dal silenzio. E mentre resta immobile ecco il terzo, ultimo pensiero: può sopportare la perdita, può non catturare”.
Antonella Anedda, “Nomi”, in “Dal balcone del corpo”, 2015
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Foto di Sonia Simbolo
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Canto XLI
“Vorrei dirti le parole più profonde che intendo dirti, ma non oso,
per paura che tu ne sorrida.
Ecco perché mi burlo di me stesso e del mio segreto.
Derido il mio dolore per paura che tu faccia altrettanto.
Vorrei dirti le parole più vere che intendo di dirti, ma non oso:
temo che tu non le creda.
Ecco perché smentisco, dicendo il contrario di ciò che penso.
Rendo assurdo il mio dolore, per timore che tu faccia altrettanto.
Vorrei dirti le parole più nobili che io serbo per te: ma non oso
temo che tu non comprenda il loro valore.
Ecco perché ti parlo duramente e vanto la mia forza brutale.
Ti faccio del male, per timore che tu non conosca mai il dolore.
Vorrei sedermi vicino a te in silenzio, ma non oso:
temo che il cuore mi salga alle labbra.
Ecco perché chiacchiero e parlo scioccamente
e nascondo il cuore dietro le parole.
Tratto crudelmente il mio dolore
per paura che tu faccia lo stesso.
Desidero allontanarmi da te, ma non oso:
temo ti si riveli la mia viltà.
Ecco perché tengo alta la testa e vengo alla tua presenza indifferente.
Ma gli sguardi sprezzanti dei tuoi occhi mantengono vivo il mio dolore per sempre.”
Rabindranath Tagore, “Canto XLI”, da “Gitanjali. Il giardiniere”, 1913
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Le parole
“Le parole non hanno né occhi né gambe,
non hanno bocca o braccia,
non hanno visceri
e spesso nemmeno cuore,
o ne hanno assai poco.
Non puoi chiedere alle parole
di accenderti una sigaretta
ma possono renderti più piacevole il vino.
E, certo, non puoi costringere le parole
a fare qualcosa che non vogliono fare.
Non puoi sovraccaricarle
e non puoi svegliarle quando decidono di dormire.
Qualche volta gli scrittori
si uccidono
quando le parole li lasciano.
Altri scrittori
fingeranno di averle ancora
in pugno
anche se le loro parole
sono già morte e sepolte.
Le parole sono
uno dei più grandi
miracoli al mondo,
possono illuminare
o distruggere menti,
nazioni,
culture.
Le parole sono belle
e pericolose.
Se verranno a trovarti
te ne accorgerai
e ti sentirai
il più fortunato
sulla terra.
Nient’altro avrà più
importanza
e ogni cosa sembrerà importante.
Ti sentirai
il dio sole,
riderai del tempo che fugge,
ce l’avrai fatta,
lo sentirai
dalle dita
fino alle budella,
e sarai diventato,
finché
dura,
un fottutissimo scrittore
che rende possibile
l’impossibile,
scrivendo parole,
scrivendole,
scrivendole.”
Charles Bukowski, “Le parole”, da “La canzone dei folli”, Trad. di Milton Fernández 
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Kurt Schwitters – Käte Steinitz – Theo van Doesburg, “Die Scheuche”, 1925
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Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia
“Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
e ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
dal tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore . Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.
Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro alle donne. Alte
da spaccar le vetrate.
Ma non m’arrendo. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.
E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.
Staccherò
dal muro la lanterna,
un’alba, e dirò addio al vuoto.
A passo a passo
Scenderò nel vallone.
Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?”
Giorgio Caproni, “Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia”
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Foto di mixedframes
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Parlando con gli uccelli
“Quando non c’era più nessuno
che capisse la nostra lingua
mi sedevo fuori e parlavo agli uccelli
e quando gli uccelli erano dentro
parlavo alla luna, cantavo alle stelle.
Quando arrivava la pioggia le dicevo una poesia
e quando al mattino il sole
si spandeva sul pavimento
ballavo da una parte all’altra con la scopa,
strappando storie al mio sonno,
raccontando all’orologio dei miei amici e parenti,
come sedevamo tutta la notte vicino al fuoco
e suonavamo musica e parlavamo senza sosta
senza sapere che stavamo consumando la lingua,
che dall’altra parte di ogni parola
si nascondeva il silenzio, in attesa del suo momento.
Imparate questa lingua, dico agli uccelli,
e cantate ovunque andrete
i modi fantasiosi in cui la usavamo.
Ormai questa casa deve averla di sicuro, la grammatica
per tanto tempo filtrata nei mobili
e quando appoggio le mani sul tavolo
so che il legno sta ascoltando
e i fiori quando si apriranno diranno il mio nome.”
Peter Sirr, dalla rivista «Nuovi Argomenti» -Traduzione di Rita Castigli
(Durante i suoi ultimi anni di vita, una donna della tribù Boa delle Isole Andamane, scomparsa nel 2010, avrebbe “parlato molto con gli uccelli perché non c’era nessuno in giro che parlasse la sua lingua”)
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Quanta fatica per proferire una parola
“Quanta fatica per proferire una parola
a chi è corrotto,e non sa distinguere un sogno
dai robusti rami del pero.
Quanta fatica per una parola
su questa strada polverosa,
nemica delle mie scarpe
più che il sole per la neve
e l’acqua per il deserto.
Quanta fatica per una parola
a mio padre e a mia madre,
quanta fatica per una parola
a tutti quelli che vedono me che invecchio
in un trafitto autunno.
Quanta fatica per una parola
in questi giorni che sono smemorati.
Quanta fatica per una parola.”
Thomas Bernhard, da “Sotto il ferro della luna”, 2020 – Traduzione di Samir Thabet
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Inge Schuster
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Il Linguaggio — è morto, splendido e geniale
“Il Linguaggio — è morto, splendido e geniale
il primo di agosto 2009 alle 14:46. Innamorato
dell’alzare la propria mano, il linguaggio ha vissuto
un’esistenza piena di domande. La sua preferita
era distorcere quanto detto dagli altri. La sua
preferita era scrivere il mondo in bianco
e nero e poi osservare le persone nel tentativo
di leggere le parole a colori. Le lettere erano
solite scorrere il cervello di mio padre prima
di andarsene. Ora le sue parole sono cieche.
Sono a pieghe. Sono il mittente, i
messaggi e il destinatario. Mentre
mia madre moriva, ho costretto tutti
in piedi intorno al letto per quella che sarebbe
stata l’ultima foto di gruppo. Alcuni di noi
hanno riso perfino. Perché morire dura
per sempre finché non finisce. Qualcuno ha detto,
‘Prendine un poco’. Qualcuno ha detto,
‘Sorridi’. Qualcuno ha detto, ‘Grazie’.
Il linguaggio ci tradisce. Nello stesso modo in cui
rompere un braccio significa che l’osso di un braccio
può rompersi ma il braccio stesso non si rompe
a meno che segato o tagliato. Mia madre
non poteva parlare ma gli occhi suoi erano gli
unici che restavano spalancati.”
Victoria Chang, da “Obit. Poesie per la fine”, Traduzione inedita di Fabio Chiusi, 2020
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