“Io vorrei pur drizzar queste mie piume
colà, signor, dove il desio m’invita,
e dopo morte rimanere in vita,
col chiaro di virtute inclito lume.
Ma ‘l volgo inerte che dal rio costume
vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita,
come digna di biasimo ognor m’addita,
ch’ir tenti d’Elicona al sacro fiume,
all’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto,
come che qui non sia la gloria mia,
vuol ch’abbia sempre questa mente intesa.
Dimmi tu ormai che per più via dritta via
a Parnaso ten vai, nobile spirito,
dovrò dunque lasciar sì degna impresa?”
Sonetto attribuito a Ortensia di Guglielmo, poetessa del Trecento
(L’attribuzione di questo sonetto è, tuttavia, incerta. Ricorda Daniele Cerrato in “Presenza assenza delle petrarchiste marchigiane”: «Nel 1635, Giacomo Filippo Tomasini, riporta nella sua opera Petrarca redivivus, il nome di Giustina Levi Perotti di Sassoferrato, come autrice del sonetto «Io vorrei pur drizzar queste mie piume», che Giovanni Gilio invece, nella sua Topica poetica del 1580, attribuiva a Ortensia di Guglielmo».
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Tu vorresti drizzare le tue piume (attenta, che il termine si usa anche per l’oca)
Là dove il desiderio (della gloria?) chiama
e dopo morta rimanere in vita (che ossessione: elimina l’ossimoro, non è meglio l’effimero?)
con la virtù di un lume (togliamo “inclito”?)
Dici che il volgo è inerte, reo e ha smarrito la via (quale?)
ti addita col suo biasimo (è normale, come i maschi nei social
seguaci di quell’Onan che non ha meglio da fare)
una che tenta di salire il fiume delle arti e non è Musa (…)
Dicono, (come qualcuno oggi?) che devi stare a casa
anzi nell’orto (ti chiami Ortensia, dunque lì devi stare, a fare giardinaggio)
Che devi coltivare la salvia, il rosmarino – non il lauro o il mirto
e non devi pensare, – questo è il vero peccato –
ma stare con la mente intenta al tuo cucito.
Ortensia, non scrivere a Petrarca (se è vero che hai chiesto il suo parere)
cosa vuoi che risponda – chiedi a un altro poeta (del futuro) scavalca i sessi
lascia che un’H s’illumini davanti alla vocale. Diventa Hortense, smetti
di essere virtuosa, poi trasformati di nuovo, diventa la libellula di Amelia,
disperdi il seme, l’umore, smetti di sospirare per la fama
disubbidisci
stai fuori dall’elogio e dalla rima, diventa spensierata,
filosofa dei boschi, deponi la speranza e la paura
diventa un corvo, una cornacchia, trovati da sola.
Antonella Anedda
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Poesie tratta da “Tacete o maschi. Le poetesse marchigiane del ‘300, accompagnate dai versi di Antonella Anedda, Mariangela Gualtieri e Franca Mancinelli”, 2020