Monologo su un paesaggio lunare
“A un tratto ho cominciato ad avere dei dubbi. Cos’era meglio: ricordare o dimenticare? Ho sottoposto la questione ai miei conoscenti. Alcuni hanno dimenticato, altri non vogliono ricordare, perché tanto non possiamo nemmeno andarcene da qui…
Quel che mi ricordo… Nei giorni immediatamente successivi all’incidente delle biblioteche sono spariti i libri sulla radiazione, su Hiroshima e Nagazaki e perfino sui röntgen. Circolava la voce che fosse un ordine delle autorità, per evitare il panico. Comunque sia, sono mancate completamente sia le indicazioni mediche che l’informazione in generale. Chi poteva, acquistava delle pastiglie di ioduro di potassio (nelle farmacie della nostra città non erano in vendita, e per procurarsene ci volevano le conoscenze giuste). Capitava che qualcuno inghiottisse un pugno di queste pastiglie accompagnandole con un bicchiere di alcol puro. Accorreva l’ambulanza e lo rianimavano in extremis.
Poi si è individuato un segno indicatore, e tutti hanno cominciato a prestarci attenzione: finché in città o nel villaggio c’erano passeri e colombi, ci poteva vivere anche l’uomo. Ricordo la perplessità di un conducente di taxi: non riusciva a capire perché gli uccelli, come ciechi, si buttassero contro il suo parabrezza, ammazzandosi. Come impazziti… Era qualcosa che somigliava a un suicidio…
Un’altra cosa che ricordo è il mio viaggio di ritorno da quei luoghi. Un vero paesaggio lunare… da una parte e dall’altra della strada si stendevano fino all’orizzonte i campi coperti di dolomite bianca. Lo strato superficiale contaminato del suolo era stato asportato e interrato altrove, e al suo posto era stato sparso un uniforme strato di sabbia di dolomite. Non sembrava più la nostra terra… Questa visione mi ha tormentato per molto tempo e ho perfino tentato di trarne un racconto. Vi immaginavo ciò che sarebbe successo tra cent’anni: un uomo, o quel che è diventato, stando a quattro zampe avanza a grandi balzi slanciando all’indietro le lunghe gambe posteriori con le ginocchia voltate, è notte ma vede tutto distintamente col suo terzo occhio e il suo unico orecchio sulla nuca sente perfino l’andirivieni di una formica. Sono rimaste solo le formiche, tutti gli altri esseri che popolavano la terra e il cielo sono morti…
Ho mandato il racconto a una rivista. Mi hanno risposto che la mia non era un’opera letteraria, ma l’esposizione di un incubo notturno. Naturalmente è anche questione di scarso talento, ma secondo me c’è dell’altro. E ho cominciato a chiedermi come mai Cernobyl’ interessi così poco i nostri scrittori, i quali continuano a scrivere sulla guerra, i lager, ma di questo tacciono. Pensate che sia un caso? Se noi avessimo vinto Cernobyl’, se ne parlerebbe e scriverebbe di più. O se l’avessimo almeno compreso. E invece non sappiamo che senso trarre da tutto questo orrore. Non ne siamo capaci. Perché non è commisurabile né alla nostra esperienza di uomini né al nostro tempo umano.
E allora, cos’è meglio: ricordare o dimenticare?”
Evgenij Aleksandrovic’ Brovkin, docente dell’Università statale di Gomel
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Monologo su tutta una vita registrata sulla porta di casa
“Voglio rendere testimonianza…
È successo allora, dieci anni fa, e ogni giorno lo rinvio di nuovo. È sempre con me.
Vivevamo nella città di Pripjat’. Proprio in quella.
Non sono uno scrittore. Non sarei in grado di descriverlo. La mia ragione non arriva a comprenderlo. E neanche gli studi superiori aiutano. Stai vivendo… Da uomo qualsiasi. Piccolo. Come tutti gli altri, vai al lavoro e ritorni dal lavoro. Ricevi una retribuzione media. Una volta l’anno vai in ferie. Un uomo normale! E di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Cernobyl’. In un fenomeno da baraccone! In qualcosa che incuriosisce tutti e che nessuno sa cosa sia. Tu vorresti essere come tutti, ma non puoi. Non ti è più possibile. Ti guardano con occhi diversi. Ti fanno delle domande: hai avuto paura laggiù? Hai visto bruciare la centrale? Com’era? Cos’hai visto? E, in generale, puoi avere dei figli? Tua moglie non t’ha lasciato? All’inizio siamo diventati dei fenomeni ambulanti… Tuttora la parola “cernobyliano” è come un segnale acustico… Si voltano tutti a guardarti… Viene da laggiù!
I primi giorni, era questa la sensazione… Di aver perduto non soltanto la città, ma tutta la nostra vita…
Abbiamo lasciato la nostra casa il terzo giorno… Il reattore stava bruciando… Mi sono rimaste impresse le parole di un nostro conoscente: “C’è odore di reattore”. Un odore indescrivibile. Ma ne hanno già parlato anche i giornali. Hanno voluto fare di Cernobyl’ una fabbrica degli orrori, anche se poi quello che è venuto fuori è un cartone animato. Io racconterò solo quel che ho vissuto di persona… La mia verità…
È andata in questo modo… L’avevano annunciato per radio: proibito portare via i gatti! Subito la gatta nella valigia! Ma non ci voleva stare, si divincolava. Ha graffiato tutti! Proibito portare con sé le proprie cose. E io non mi sarei portato via niente comunque. Tranne una cosa, una cosa sola! Dovevo togliere la porta d’ingresso dell’appartamento e portarla via, non potevo in nessun caso lasciarla lì… E avrei sbarrato l’ingresso con assi e chiodi…
La nostra porta… Il nostro talismano! La reliquia della famiglia. Quand’era morto, mio padre era stato messo disteso su questa porta. Non so in base a quale usanza, e se sia diffusa e dove, ma da noi, mi ha detto mia madre, si usava mettere il defunto sulla porta di casa. Avrebbe aspettato lì l’arrivo della bara. Ho vegliato tutta la notte mio padre disteso su quel catafalco… E la casa è rimasta aperta… Tutta la notte. Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore… Di quanto crescevo… E c’è anche indicato: classe prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto, la crescita di mio figlio… Di mia figlia… Su questa porta è registrata tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla?
Ho chiesto a un vicino che aveva la macchina: “Dammi una mano!”. Mi ha fatto capire gesticolando che dovevo avere qualche rotella fuori posto. Ma l’ho recuperata lo stesso… Due anni dopo… La porta… Di notte… In motocicletta… Attraverso la foresta… Il nostro appartamento era ormai stato depredato. Ripulito. Avevo alle calcagna quelli della milizia: “Fermo o spariamo! Fermo o spariamo!” Sicuramente mi avevano preso per un saccheggiatore. Non ci avrebbero mai creduto che stavo rubando la porta di casa mia…
…Ho fatto ricoverare in ospedale mia moglie e mia figlia. Avevano delle macchie nere diffuse su tutto il corpo. Che apparivano e scomparivano. Grandi come monete da cinque copechi… Indolori… Hanno fatto tutti gli esami. Ho chiesto: “E i risultati?”. “Non sono per lei.” “E per chi sono, allora?”.
A quel tempo, tutti non facevano altro che ripetere: moriremo moriremo… E dicevano che per l’anno 2000 sarebbero scomparsi tutti i bielorussi. Mia figlia aveva sei anni. La metto a letto e lei mi sussurra all’orecchio: Papà. Voglio vivere, sono ancora piccola”” E io che pensavo non potesse capire…
Riesce a immaginarsele sette bambine piccole completamente calve, tutte in una volta? Nella stanza erano in sette… No, ne ho abbastanza! Ho finito! Quando racconto di questo ho come la sensazione, è il cuore a suggerirmelo, di commettere un tradimento. Perché devo descriverla come un’estranea… Le sue sofferenze… Mia moglie rientra dall’ospedale… Non ce la fa più a resistere: “sarebbe meglio se morisse, invece di soffrire a quel modo! O che muoia io piuttosto, per non doverla più vedere!”. No, basta! Ho finito! Non posso. No!
L’abbiamo posata sulla porta… Su quella porta dove a suo tempo era stato disteso mio padre. Finché non hanno portato la piccola bara… Era piccola, come la scatola di una bambola, di quelle grandi.
Voglio rendere testimonianza che mia figlia è morta a causa di Cernobyl’. E si pretenderebbe da noi che dimenticassimo…”
Nikolaj Fomic Kalugin, un padre
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Monologo su un mostricino che verrà comunque amato
“Recentemente mia figlia se ne è venuta fuori con queste parole: “Mamma, se metterò al mondo un piccolo mostro gli vorrò bene lo stesso”. Ma si rende conto? Sta finendo le medie e ha già di questi pensieri in testa. Le sue amiche… Pensano tutte a questo… A una copia di nostri conoscenti è nato un bambino… Un bambino talmente desiderato, il primo figlio. Di una copia giovane e bella. Ma è nato con una bocca che gli arriva fino alle orecchie, che però non ci sono… Io non vado più a trovarli con la frequenza di un tempo, ci vado anzi il meno possibile, è più forte di me, invece mia figlia, appena può, ci fa un salto. C’è qualcosa che la spinge da loro, quasi volesse vedere com’è veramente, come si fa ad abituarsi a una cosa del genere…
Ci hanno proposto di andar via, ma io e mio marito abbiamo riflettuto e deciso di rimanere. temiamo l’ignoto. Qui siamo tutti “cernobyliani”. Non ci facciamo paura l’un l’altro, se qualcuno ci offre una mela o un cetriolo del suo orto o frutteto, lo prendiamo e lo mangiamo, non lo nascondiamo timorosi in tasca o nella borsetta per gettarlo via appena voltato l’angolo. Noi condividiamo una stessa memoria… Uno stesso destino. Al contrario, in qualsiasi altro posto si vada, siamo degli estranei. Dei lebbrosi. Tutti hanno fatto l’abitudine a espressioni come “quelli di Cernobyl’”, “i bambini di Cernobyl’”, “gli evacuati di Cernobyl’”… Ma in realtà di noi non sapete niente. Perché ci temete… Probabilmente, se a suo tempo non ci avessero lasciati uscire di qui, se avessero circondato la zona con dei cordoni di polizia invalicabili, molti di voi sarebbero stati più tranquilli. (Si ferma.) Non cerchi di dimostrarmi il contrario. Di convincermi che ho torto. L’ho vissuto sulla mia pelle… Nei primi giorni… Ho preso mia figlia e mi sono precipitata da mia sorella, a Minsk… Mia sorella, dico mia sorella, non ci ha neanche lasciati entrare in casa perché aveva un bambino piccolo che ancora allattava. Si rende conto? E abbiamo dovuto trascorrere la notte alla stazione. I folli propositi che non mi sono passati per la testa, allora! Dove potevamo scappare? Forse era meglio farla finita, per non dover più soffrire… Erano i primi giorni… Tutti quanti ci immaginavamo delle malattie spaventose. Inconcepibili… E io sono medico. Figuriamoci cosa potevano pensare gli altri!… Guardo i nostri figli. Dovunque vadano, si sentono estranei anche in mezzo ai propri coetanei… In un campo estivo di pionieri, dove mia figlia un anno ha trascorso le vacanze, avevano paura anche solo a toccarla: “Un riccio di Cernobyl’. Una lucciola. Brilla al buio”. La sera la chiamavano in cortile per vedere se era vero.
Si dice: la guerra… La generazione della guerra… Fanno dei confronti… La generazione della guerra? Ma è stata fortunata! Hanno avuto la vittoria. Hanno vinto! Questo ha dato loro una potente energia vitale, o, per usare termini più attuali, un fortissimo orientamento verso la sopravvivenza. Non avevano paura di niente. Volevano vivere, studiare, mettere al mondo dei figli. Noi invece? Noi abbiamo paura di tutto… Paura per i nostri figli… Per i nipoti, che ancora non ci sono… Ancora non ci sono e noi già temiamo per loro… La gente sorride meno. Alle feste non si canta più come un tempo. Non solo cambia il paesaggio, perché foreste e boschi tornano a crescere dove c’erano i campi, ma anche il carattere nazionale. la depressione regna incontrastata. E ci sentiamo condannati senza scampo. Cernobyl è una metafora. Un simbolo. Ed è anche la nostra vita quotidiana, il nostro modo di pensare.
Qualche volta mi viene quasi da credere che sarebbe meglio se non scrivessero più di noi. la gente ci temerebbe meno. Del resto, chi va a parlare di tumori in casa di un ammalato di cancro? Allo stesso modo, non è il caso di parlare della scadenza di una pena nella cela di un condannato all’ergastolo…”.
Nadezda Afanas’evna Burakova, abitante della cittadina di Chojniki
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Svetlana Aleksievic’ da “Preghiera per Cernobyl”, 1997