“La cosa più assurda era che non sempre si era scelte perché ritenute inabili al lavoro, sistema crudele ma che aveva per i nostri aguzzini una sua logica. Talvolta usavano il sistema di contarci ogni tre, ogni quattro, a caso e, ridendo, segnavano il nostro numero sul taccuino, decidendo la nostra fine.
Le giornate nel lager trascorrevano tutte uguali, fra lavoro e punizioni. I lavori erano per lo più assurdi: ad esempio, dovevano stracciare dei tessuti, ricavandone strisce uguali che a gruppi di tre venivano fissate ad un tavolo con un chiodo. Le internate dovevano poi confezionare delle trecce lunghe almeno tredici centimetri, resistenti perché altrimenti i Kapò punivano le malcapitate. Non si sapeva bene a cosa poi servissero quelle trecce di stoffa, ma se il lavoro non veniva svolto bene ne seguiva la giusta punizione. Una di quelle che divertivano maggiormente le SS era chiamata “sport”.
Nel poco tempo che ci era concesso per mangiare la zuppa, le SS che erano di turno, donne incluse, per ragioni insignificanti e spesso anche senza motivo alcuno sceglievano parecchie persone, obbligandole a correre senza fermarsi avanti e indietro, o a inginocchiarsi a lungo o a portare grosse pietre finché cadevano sfinite. Quando crollavano a terra, e ciò succedeva spesso, i militi intervenivano con bastonate e ridevano tra di loro. Credo che questo si possa definire con una sola parla: sadismo. […]
Un pensiero mi assillava: morire prima possibile per evitare il prolungarsi di atroci sofferenze. Io che avevo cercato di resistere fino all’ultimo, ero ormai distrutta. Invocavo la morte che si attardava su di me, invidiavo chi al mio fianco aveva finito di soffrire. Cercavo solo il modo di chiudere al più presto questa indicibile agonia. Mi alzai dal mio giaciglio e scavalcai i corpi dei morti e dei vivi accanto a me; non potevo più sopportare i loro gemiti, la loro agonia e il fetore che c’era nella baracca; io stessa ero nelle loro condizioni e sapevo di essere impotente a portare qualsiasi aiuto. […] Sorreggendomi a fatica mi inoltrai nella zona boscosa che si trovava ai lati delle baracche e mi avvicinai al filo spinato che circondava tutto il comprensorio. […] Giunta nei pressi della recinzione, un milite che io ritenni molto giovane mi vide e avanzò verso di me. Mi intimò di spostarmi, ma io non mi mossi, lo guardai fisso e lo supplicai di spararmi. A questo punto egli si voltò e senza dire nulla si allontanò nella direzione opposta”.
Marta Ascoli, da “Auschwitz è di tutti”, 1998
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Rinchiusa insieme al padre nella Risiera di San Sabba, Marta Ascoli fu deportata ad Auschwitz nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1944. Aveva solo 17 anni. Il padre morì, mentre Marta riuscì a sopravvivere. Trasferita nel lager di Bergen-Belsen il 31 dicembre 1944, venne liberata il 6 luglio del 1945.