“Era una fila interminabile, uomini donne e tanti bambini che venivano inviati ogni giorno alle camere a gas. Vi rendete conto di cosa significa vivere in quelle condizioni? Giorno e notte uscivano fumo e fiamme dai forni crematori, con scintille ben visibili. Era una fila interminabile di uomini di tutte le regioni d’Europa… che erano figli, sorelle, padri, madri, tutti con una propria vita, tutti che dovevano ugualmente morire.
Auschwitz era il posto dove chi sopravviveva, veniva privato di ogni diritto. Non poteva avere ricordi, anche il ricordo dei familiari, il senso della famiglia veniva schiacciato dall’esigenza di sopravvivere.
Ad Auschwitz il prigioniero non aveva nome, gli internati non erano contati come persone ma come pezzi. Ai prigionieri veniva tolto ogni dignità. Di quelli usciti dal campo vivi, pochissimi sono riusciti a sopravvivere, e a tornare ad essere persone degne di essere chiamate tali.
L’efficiente macchina bellica tedesca, non sprecava nulla. Anche dopo la morte tutto veniva usato e riciclato , la pelle, i capelli, dei prigionieri. (…)”
“Ero un ragazzo felice, l’ultimo di una famiglia di otto persone, protetto dall’affetto di tutti. Tre giorni prima avevo compiuto 10 anni. il 15 novembre come tutti gli altri giorni entrai in classe e mi diressi verso il mio banco ed ebbi la sensazione che i miei compagni mi osservassero in modo insolito. L’insegnante fece l’appello ma non chiamò il mio nome; soltanto alla fine mi disse che dovevo uscire e alla mia domanda: ‘Perché? Cosa ho fatto?‘ Mi rispose : ‘Perché sei ebreo.‘
Mi sentii smarrito, provavo rabbia e mi rendevo conto che stavo subendo una terribile ingiustizia. Ero stato educato all’amore per lo studio e mia madre non tralasciava occasione per ricordarmi che riuscire nello studio era il mezzo per riuscire nella vita e pensai subito alle sue parole. Andai con il pensiero al mio futuro e mi vedevo costretto a dover svolgere i lavori più umili per vivere. E poi gli amici. Erano tutti lì in quella classe. Avrei potuto averli ancora come amici? No, non fu possibile. Non è mai arrivata una telefonata di un genitore per avere notizie. Tutti spariti. Ci sarà pure stato qualcuno che non era fascista, eppure nessuno ha mai mostrato indignazione per quello che stava accadendo ma neppure solidarietà. Evidentemente era una cosa che non riguardava la gente, ma riguardava gli altri e gli altri eravamo noi Ebrei.
Passai subito alla scuola ebraica che era stata organizzata in tutta fretta per accogliere quel gran numero di ragazzi cacciati dalle scuole di ogni ordine e grado (anche non governativa, recitava la legge). Non fu certo difficile formare un corpo insegnante molto valido per il fatto che tutti i docenti ebrei dalle elementari all’università avevano dovuto abbandonare anch’essi la scuole pubbliche e si erano improvvisamente trovati senza lavoro. (…)
Ma quella scuola funzionò soltanto fino all’anno scolastico 1942/44. Poi con l’ 8 settembre e l’occupazione tedesca ci fu il precipitare degli eventi: la fuga dalle nostre case braccati dai fascisti, la consegna, me e i miei familiari insieme a migliaia di nostri correligionari, ai loro alleati tedeschi per essere portati a morire per gas nei lager dell’est e per essere dati alle fiamme nei forni crematori. Fummo traditi per 5000 lire a persona da un ragazzo fascista che tra l’altro corteggiava mia sorella. 8 persone, totale 40.000 lire. A quei tempi era una bella cifra. Vennero 7 SS in pieno assetto di guerra, urlando cose incomprensibili. Eravamo tutti insieme per festeggiare la Pasqua ebraica.
Fummo portati a Fossoli, e poi ad Auschwitz.”
“Non vi racconto le altre sofferenze perché secondo me, esiste un limite alla credibilità dell’orrore”.
Piero Terracina, da una testimonianza del 27 Febbraio 2002, nel quadro di un incontro organizzato dall’Istoreco, Istituto per la Storia della Resistenza e la società Contemporanea di Reggio Emilia