Com’era la sua famiglia?
«Mia madre mi ripeteva: “Non parlare così tanto, o ai ragazzi non piacerai”».
E invece, nella sua vita, l’americana Martha C. Nussbaum, 73 anni, una delle più importanti filosofe del nostro tempo, ha parlato eccome. Docente di Law and Ethics nella University of Chicago Law School, ha scritto decine di libri, ha pubblicato più di 450 articoli scientifici, tiene conferenze in tutto il mondo — domani, domenica 29, alle 19 sarà tra gli ospiti del Festival del Classico, qui festivaldelclassico.it. Da sempre, Nussbaum intreccia riflessione giuridica e mito, teatro e filosofia, tragedia greca e storia familiare. A proposito…
Com’era suo padre?
«Un razzista del Sud. Proveniva da Macon, in Georgia. Di umili origini, si era fatto strada, grazie alla sua abilità e al duro lavoro, in uno studio legale di Filadelfia fino a diventarne socio, ed era convinto che il sogno americano fosse accessibile a tutti. Obbligava le colf a usare un bagno separato e minacciava di diseredarmi se fossi apparsa in pubblico in un gruppo di cui fosse stato membro un afroamericano».
Perché?
«Ripeteva che gli afroamericani non si erano affermati sul piano economico in America semplicemente perché non avevano lavorato abbastanza duramente».
E lei che cosa pensava?
«La mia famiglia, che viveva nella prestigiosa Main Line di Filadelfia, era di classe medio-alta e abbastanza benestante. Nata e cresciuta in una famiglia privilegiata, in scuole di alto livello senza pressioni di genere, mi rendevo conto che il suo modo di pensare non teneva conto delle condizioni degli afroamericani, oppressi e offesi dallo stigma e dalla segregazione. Inoltre mio padre disprezzava i molti che avevano raggiunto il successo con il lavoro, specie gli afroamericani e gli ebrei della borghesia».
Lei poi ha sposato un ebreo, si è convertita all’ebraismo, ha mantenuto il cognome di suo marito anche dopo il divorzio.
«Sì, ero e continuo a essere attratta dal primato della giustizia sociale nella religione ebraica. Con l’iniziale “C.” onoro il mio nome da nubile, Craven»
Nussbaum, lei ha dedicato una vita allo studio delle disuguaglianze, dei diritti delle donne e di quelli delle minoranze. In che modo un padre «razzista del Sud» ha influenzato le sue scelte?
«Guardi, io ho amato profondamente mio padre, ci tengo a dire che è stato di grande aiuto per la mia educazione e per la mia carriera. Lui credeva che le donne potessero essere del tutto uguali agli uomini. Ma allora com’è possibile che ragioni bene per un verso e male per un altro? Il problema è che le persone sono complicate».
Si spieghi meglio.
«Mio padre era nato nel 1901. È cresciuto nel Sud della Georgia in un momento storico in cui non c’erano esempi di antirazzismo da seguire. Quando si è trasferito al Nord aveva ormai quasi cinquant’anni, un’età in cui è difficile cambiare opinione. Però mi ha sempre incoraggiato a pensare con la mia testa, e così ho fatto, rifiutando le sue teorie. Quando mi sono sposata si è rifiutato di venire al mio matrimonio perché sposavo un ebreo. Poi nel tempo ha cambiato visione politica anche lui, disgustato da Nixon. Purtroppo a 71 anni è morto e dunque non possiamo sapere che cosa penserebbe oggi. Ma sa quale lezione ho tratto dalla sua storia?»
Quale?
«Che le persone sono una mescolanza di cose buone e cose cattive. La cosa importante però è che non bisognerebbe bandirle completamente, ma prendere il buono, cercare di trovare il bene in loro e sperare che questa parte prevalga. Questo, credo, è ciò che Martin Luther King Jr. intendeva dicendo che provava “amore” per i suoi avversari: non approvava il loro pensiero, ma vedeva in loro una possibilità».
La discriminazione in quanto donna è uno dei suoi temi di ricerca. Racconta un episodio personale?
«Uh, ce ne sono a centinaia. Guardiamo il quadro d’insieme: famiglia benestante, ottime scuole, sono stata sostenuta nel lavoro e nella carriera da tanti uomini. Eppure sono stata violentata due volte, ho subito molto spesso molestie sessuali e ho sopportato molti altri tipi di umiliazione. Ma qui le voglio raccontare un aneddoto più leggero».
Prego.
«Quando sono diventata la prima donna ad essere una “Junior Fellow” nella “Society of Fellows” di Harvard, un grande onore, un famoso professore del mio dipartimento di studi classici, quello nel quale stavo lavorando al dottorato, mi scrisse per congratularsi e si cimentò in un joke (facezia, ndr.). Come avrebbe dovuto chiamarmi?, si chiedeva. Fellow o Fellowess? Fellowess (compagna, ndr.) sarebbe stato imbarazzante. Allora ricorse al greco antico per risolvere il problema. Poiché in greco “compagno” è hetairos, ecco lui avrebbe potuto chiamarmi hetaira. Sapendo bene — e sapendo che anche io ne ero a conoscenza — che hetaira è il termine che si usa per una prostituta. Così quel lazzo era un tipico insulto rivolto alle donne: si fa capire loro che sono utili solo per il sesso, non per le doti intellettuali».
Nonostante tutto questo, lei esorta a rispondere alle discriminazioni con un atteggiamento inclusivo. Esortazione difficile da seguire nell’America che vediamo oggi, dominata da divisioni e paure. Quell’emozione che lei analizza nel libro «La monarchia della paura».
«Di per sé la paura non è un elemento destabilizzante della democrazia. La paura può essere addirittura utile quando sia i fatti che i valori sono corretti. In questa pandemia, però, molti americani hanno troppo poca paura e questo mette a rischio la salute degli altri. Ma la paura è un’emozione primitiva. Ciò significa che, più di altre emozioni, può facilmente avere la meglio sulla ragionevolezza. E così vediamo che una società spaventata può diventare una società che non si ferma ad analizzare i fatti, le verità scientifiche. Ecco perché bisogna curare il dibattito pubblico ed enfatizzare la scienza».
Lei analizza la speranza sul piano filosofico, come risposta concreta.
«Intanto mi concentro sulle responsabilità individuali. Non possiamo evitare le responsabilità affermando a proposito del nostro odio o della nostra paura eccessiva: “Mi dispiace, ma è così che sono le persone”. No, non c’è nulla di inevitabile o “naturale” nell’odio razziale, nella paura degli immigrati, nel desiderio di subordinare le donne, o nel disgusto nei confronti dei corpi delle persone con disabilità. Abbiamo fatto tutto questo tutti insieme, e possiamo, dobbiamo, disfarlo. E la speranza deve essere concreta. Obiettivi raggiungibili, non utopistici»
C’è una sorta di nostalgia per un’«America Felix»…
«Quando ero una bambina, negli Stati del Sud gli afroamericani venivano linciati. I comunisti licenziati. Le donne stavano appena iniziando a entrare nelle università e nel mondo del lavoro. Le molestie sessuali erano un flagello onnipresente. Gli ebrei non potevano diventare soci dei più importanti studi legali. I gay e le lesbiche, considerati criminali per legge, quasi sempre non osavano manifestarsi. La categoria dei transgender non aveva ancora un nome. Un’America giusta e inclusiva non c’è mai stata in passato e non è ancora una realtà pienamente raggiunta».
Trump ha certamente alimentato le divisioni, sociali e culturali. Non a caso Biden, ora, insiste sulla riunificazione. Ma Trump non è caduto dal cielo: evidentemente ha trovato un terreno fertile nel 2016. Qual è?
«Guardiamo come sta cambiando l’economia mondiale. L’esternalizzazione e l’automazione hanno allontanato molti lavoratori dal loro impiego tradizionale. I nuovi posti di lavoro richiedono altri standard educativi. Quindi c’è una classe di lavoratori, bianchi e della classe medio-bassa, i cui redditi sono rimasti stagnanti e che devono affrontare una disoccupazione più elevata».
Sentono di aver smarrito il “sogno americano”?
«E sono preoccupati del giudizio dei figli. Incolpano le élite o le persone con una istruzione universitaria o i nuovi lavoratori, in particolare le donne e le minoranze, convinti di essere stati spodestati da loro. Queste persone hanno problemi reali, per esempio molti sono dipendenti da oppiacei. Ora, Trump non ha soluzioni per i problemi reali, che sono complessi e richiedono una conoscenza dell’economia per essere compresi. Ma è bravissimo nel far pensare alla gente che il problema sia causato dagli immigrati, o dalle donne, o dalle minoranze, e scatenare rabbia».
Nel 2016 fece scalpore la sconfitta di Hillary Clinton. Quanto ha pesato, secondo lei, il suo essere donna?
«Clinton era percepita come una rappresentante delle élite che avevano allontanato gli uomini della classe medio-bassa dalla loro posizione. Certamente l’essere donna ha avuto il suo peso. Penso che anche il suo modo di porsi non sia stato l’ideale: è stata troppo “distante” e inoltre ha definito “deplorevoli” i sostenitori di Trump, con condiscendenza. Ora Biden, che ha relazioni migliori con la working-class, è riuscito a riconquistare gli elettori persi da Clinton, per dire: Wisconsin, Pennsylvania e Michigan. Ma è interessante che Kamala Harris non abbia suscitato lo stesso tipo di reazioni che ha fatto scaturire Clinton, forse perché ha i piedi per terra, indossa le scarpe da ginnastica e ha un background meno “da privilegiata”».
Lei ha studiato a lungo gli stereotipi. Pensa che quello nei confronti dell’età sia tra i più radicati?
«Nei miei libri illustro il concetto di disgusto (concetto molto complesso, ndr.), E penso che il “disgusto” nei confronti delle persone che invecchiano sia stata una costante per molto tempo. Non credo che oggi sia più forte. Pensiamoci: le ultime elezioni hanno visto non solo due candidati presidenziali ultrasettantenni, ma anche altri potenti leader sui settanta, come Bernie Sanders e Nancy Pelosi. Il disgusto nei confronti di chi invecchia svanirà mano a mano che le persone vedranno sempre più leadership attive da parte di settanta-ottantenni. Tuttavia, affinché ciò avvenga, tutte le nazioni devono rimuovere l’età pensionabile obbligatoria, che è un reato contro la giustizia di base. Il pensionamento obbligatorio è stupido e ingiusto».
Roberta Scorranese, “Martha C. Nussbaum: «Odio e razzismo non sono un destino. La risposta alla paura è la speranza»”, “Corriere della Sera”, 27 novembre 2020
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