“Il becchino di Lampedusa mi parla dei primi morti in mare che ha visto. Della menta pistata che s’è infilato in una mascherina per non sentire la puzza dei corpi in decomposizione. Le croci di legno che ha piantato quel giorno sono ancora nel piccolo cimitero dell’isola. Stanno lì senza nome. Sembrano tombe di un film western.
Me le ricordo in un’alba straziante.
Al camposanto c’erano solo i musicisti della banda. La prima tappa della marcia che finisce nell’acqua della Guitgia comincia lì. Suonano per i loro compagni musicisti defunti.
Poi cominciano a bere, ospiti nelle case di chi tiene le porte aperte.
Mi ricordo Fessaha. S’è presentata nella casa a un piano di Cala Pisana, la casa di Paola e Mèlo a un metro dal mare.
Mostra due fotografie di ragazzi. Uno ha gli occhiali scuri. Indica il più giovane e comincia a parlare.
Erano 368 persone, lui era con suo fratello maggiore. Quando son partiti dalla Libia il suo fratello maggiore ha detto “è meglio che tu rimani qua, che torni a casa”.
Lui ha insistito “io voglio seguire le tue tracce, voglio venire con te”.
È salito su questa barca e il fratello grande non lo sapeva… dopo, quando è partita la barca ha visto suo fratello piccolo.
Quando hanno visto la terra ferma, hanno visto le luci, tutti quanti, anche quelli che stavano nella stiva son saliti gridando Ave o Maria, in tigrino si dice “Madre di Dio, tu che sei onnipotente, tu ci hai salvato”.
Musulmani, cristiani, ortodossi, cattolici tutti insieme hanno cantato questa invocazione.
“Grazie a te che ci hai messo il tuo manto sopra siamo arrivati sani e salvi”.
Poi di colpo lo scafista ha bruciato qualcosa perché passavano delle navi. È stato come se qualcuno dal buio arriva, ti da uno schiaffo, e tu non capisci chi è stato, cosa è successo e la barca… è finita.
E io cercavo mio fratello e si era aggrappato alla mia gamba, poi il mare l’ha portato via.
E malgrado tutto questo tutti quanti gridavamo “O Vergine Madre!” come se fosse un’esplosione di un vulcano.
E poi ho visto il corpo di mio fratello che mi abbandonava e io non potevo farci niente. Ho lottato contro l’onda e solo io son riuscito a salvarmi. E ho visto otto bambini piccoli che venivano strappati dal mare, dalle loro mamme, che non capivano, che gridavano. Alcuni pensavano che era un gioco, cercavano la loro mamma. Io ho visto tutti questi bambini andare giù. E non potevo fare niente.
E lì ho gridato ancora al cielo, anche con gli altri “perché ci hai abbandonato, mentre prima ci avevi portato in salvo?”
Le mie lacrime salate si mischiavano all’acqua salata che ci veniva in bocca e negli occhi.
Fessaha dice che lui, il più giovane, voleva andare a studiare. Perché in Eritrea c’è un regime di dittatura che dai 16 fino a 55 anni vanno a fare il servizio militare e questo impedisce ai giovani un futuro, di studiare, di lavorare, di sposarsi. Per questo la maggior parte delle persone scappano.
Il governo eritreo fa questo con la scusa dicendo “l’Etiopia ci vuole attaccare”, ma non è vero. L’Etiopia ha i suoi problemi.
Nella casa di Cala Pisana c’è Dag. A Lampedusa è sbarcato 8 anni prima. Ora è un regista di documentari. Siamo seduti a un metro dall’acqua.
“Io partecipo a tutti gli incontri” dice “anche se poi vedo che tutti ci tengono a organizzarsi ognuno contro gli altri. Ognuno con le proprie ragioni. È come se ciascuno stesse sulla barca e sotto ci fossero le persone che affogano. E quelli di sopra litigano e si dicono: tocca a te ripescarlo… no, tocca a te… io ci ho messo la barca, tu lo devi ripescare. E intanto che litigano con tutte le migliori ragioni: di sotto c’è gente che affoga”.
A Lampedusa ho imparato che forse prima di raccontare le storie degli altri bisogna imparare a raccontare le nostre.
Che forse stiamo diventando disumani per questo.
Non perché non siamo capaci di commuoverci per quello che vediamo.
No.
Noi non siamo più capaci di vedere le cose.
Sei anni fa a un metro dall’acqua, dalla piccola terrazza della casa a un piano di cala Pisana ho visto il mare che si gonfiava.
È un fenomeno naturale che non puoi prevedere e non sai quanto dura.
L’aria calda diventa fredda, lo scirocco lascia il posto al maestrale, il cielo è grigio e il mare fa una pancia che sale anche di un metro e mezzo. Anche di due. Poi si sgonfia. È un piccolo maremoto che certe volte rovescia i pescherecci nel porto. L’onda di ritorno lascia ancora per un po’ le barche a cozzare tra loro, che però a Cala Pisana non ci stanno. E allora è il mare quasi immobile che ti si para davanti. E da dietro le spalle ritorni a sentire il rumore di fondo della centrale elettrica.
È il marrobbio.
Me lo ha detto Mèlo che si chiama così.”
Ascanio Celestini, “Lampedusa. In memoria”