“Ho atteso questo dieci febbraio nella trepidazione della notte insonne, fuori il vento ha fischiato sinistro, un lampione tremava e gettava la sua povera luce fredda nella mia finestra vuota; poi con la grande valigia ho camminato sulle strade della mia città quando il cielo era ancora buio, gli alberi dei Giardini erano scossi dal vento.
Lungo il Corso stretto mi seguiva il vento, che veniva gelido dal mare, molti negozi erano senza vetrine, strappati anche i vetri e le saracinesche, come volti senza occhi, i portoni dei palazzi erano aperti, le imposte lasciate libere si aprivano e si chiudevano nelle case abbandonate, come tombe scoperchiate.
Un vecchio, prima di salire sulla nave, si inchinò fino a terra e la baciò, poi si mise sulla poppa e io vidi la sua schiena che sussultava in un tremito convulso. Guardai ancora una volta la splendida banchina della mia riva, l’Arena e il palazzo dell’Ammiragliato, il ponte di Scoglio Olivi, le piccole case sulla mia collina, e scesi sotto coperta a fissare intontito la mia valigia.”
Guido Miglia, da “Dentro l’Istria. Diario 1945-1947”
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“Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità. Sono nato a Spalato. Ho avuto un’infanzia privilegiata. La famiglia era ricca. Un nonno industriale del cemento. Poi la guerra. I rivolgimenti. La rapida fine di un mondo. Il mio mondo. Conoscevo il tedesco, il croato, l’italiano. In casa si parlava veneto. La Dalmazia aveva avuto una lunga storia con Venezia. La marina della Serenissima era composta di istriani e dalmati. Mi affascinavano le mescolanze di lingue, di storie e di uomini. Poi la felicità venne meno. Mi ammalai. Scoprendo, improvvisamente, il senso della precarietà. (. . . )
La guerra in un miscuglio di orrori aveva travolto villaggi e città. Portammo le nostre cose, quel poco che restava della florida attività imprenditoriale, fuori dall’influenza comunista. E di Tito. Furono mio padre e mio fratello a prendere la decisione di trasferirsi in Italia. Mia madre e mia sorella si adeguarono. A me, sinceramente, non interessava impegnarmi nel loro lavoro. Vidi nella mia famiglia, che era stata per lungo tempo importante, i rovesci della fortuna e i tratti del fallimento.”
Enzo Bettiza, da un’intervista a “Repubblica”
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“Mio padre non era nemmeno un fermo antifascista ma, per naturale disposizione del suo sentire, assai vicino alle loro posizioni, ricche di valori umani e sociali… La decisione del restare fu tutta sua e di sua madre, mia nonna. Era arrivato il camion per trasportare la roba al Molo Carbon, papà puntellava armadi e sbandize del letto con le traversine, c’è questa percezione acuta del martello che batte, nonna aiutava il camionista a caricare le suppellettili e tra un materasso e un comò tutti e tre si scolavano, chi qua chi là, un bicchiere di bianco. I miei avevano l’osteria alle Baracche. Quando tutte le masserizie furono stivate, papà e nonna non erano più sobri. Imbriaghi come i scalini. Una bella sbornia. Provocata dal desiderio inconscio di non essere presenti all’ora, indotta dalla disperazione di abbandonare quella casetta di periferia che quando nonna era arrivata da vedova con quattro figli a carico, non aveva ancora le porte e le finestre. L’aveva comprata da due fratelli muratori e le porte e le finestre se le sarebbe messe da sola. Quanti sacrifici, quanta fame, quanta miseria sofferti per quella casetta in cui aveva aperto l’osteria e la rivendita di sali e tabacchi. E lasciar tutto per andare in un mondo sconosciuto? La bala fu determinante, rese più facile lo scaricamento del mobilio e il congedo del camionista e del camion vuoto. Fu questo il restare dei miei. Le zie, gli zii, le cugine partirono, papà e nonna restarono. Mio fratello ed io eravamo fioi, bambini. Fu questo il nostro restare, il mio restare.”
Nelida Milani Kruljac , da “Una valigia di cartone”
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Esuli
“A bordo della nave, staccati da Pola
pensavano con ansia alle città
che li aspettavano.
Strappati alla loro terra
che sfilava con le coste bellissime
verso un domani ignoto.
E a Venezia una turba li accoglie
con grida ostili e rifiuta loro il cibo;
e a Bologna il treno non può fermarsi,
causa la folla nemica.
I bambini guardano intorno smarriti.
I genitori non hanno più niente da dare a loro.
II domani è un incubo.
Non li sentono fratelli gli Italiani,
una gente da rigettare, esuli.
Essi guardano tutto in silenzio
con gli occhi dilatati
dove le lagrime stanno ferme.
Il dolore di avere tutto perduto
si accresce di questo nuovo dolore.
Lina Galli