“Abbiamo sede nella Centenary Hall, oscura struttura in mattoni che dividiamo con il dipartimento di cultura popolare, ufficialmente nota come Ambienti americani. Curioso gruppo. Il personale docente è composto quasi unicamente di emigré, transfughi da New York, svegli, duri, pazzi del cinema, folli per i «trivia». Sono qui per decifrare il linguaggio naturale della cultura, per trasformare in metodo formale le splendide piacevolezze da loro conosciute nell’infanzia trascorsa all’ombra dell’Europa, un aristotelismo fatto di involucri di chewing-gum e di canzoncine dei detersivi. Il preside del dipartimento è Alfonse «Fast Food» Stompanato, fosco individuo dalle spalle larghe, la cui collezione di bottiglie di gazzosa anteguerra è esposta in permanenza in una nicchia. Tutti i suoi insegnanti sono di sesso maschile, portano abiti stazzonati, hanno bisogno di farsi tagliare i capelli, tossiscono senza mettersi la mano davanti alla bocca. Messi insieme sembrano una banda di camionisti riuniti per identificare il corpo di un collega fatto a pezzi. L’impressione che danno è di diffusa irritazione, sospetto e intrigo.”
“Ecco che cosa significano per me le città grosse. Si scende dal treno, si esce dalla stazione e si è presi dalla scalmana. Il calore dell’aria, del traffico, della gente. Il calore del cibo e del sesso. Il calore dei grattacieli. Il calore che esce dalla metropolitana e dalle gallerie. Nelle città grosse ci sono almeno cinque gradi di più. Il calore si leva dai marciapiedi e cala dal cielo inquinato. Gli autobus sbuffano calore. Emana dalle folle di acquirenti e impiegati. Tutta l’infrastruttura si basa sul calore, lo usa disperatamente, ne produce altro. La definitiva morte per calore dell’universo, di cui gli scienziati amano parlare, è già ben avviata a verificarsi: in qualsiasi città di dimensioni grandi o medie si sente ovunque che si sta realizzando. Calore e umidità.”
“Questa sera piove.
– Sta già piovendo, – precisai.
– La radio ha detto questa sera. […]
– Guarda il parabrezza, – replicai. – È pioggia o no?
– Sto soltanto dicendo quello che ho sentito.
– Il semplice fatto che l’abbiano detto alla radio non significa che dobbiamo sospendere il giudizio sull’evidenza dei nostri sensi.
– I nostri sensi? Si sbagliano molto più spesso di quanto abbiano ragione. È stato dimostrato in laboratorio. Non conosci tutti i teoremi secondo i quali nulla è come appare? Non c’è passato, presente o futuro fuori della nostra mente. Le cosiddette leggi del moto sono una grossa mistificazione. Anche il suono può ingannare la mente. Soltanto perché non lo si sente, non significa che non ci sia. I cani lo sentono. E anche altri animali. Ma sono sicuro che ci sono suoni che anche i cani non possono sentire. Tuttavia nell’aria ci sono, in forma di onde. Forse non si fermano mai. In tonalità alte, più alte, sempre più alte. Arrivati da chissà dove.
– Piove, – replicai, – o no?
– Preferirei non dover rispondere.
– E se qualcuno ti puntasse una pistola alla testa?
– Chi, tu?
– Qualcuno. Un uomo in trench e occhiali affumicati. Ti punta una pistola alla testa e dice: «Piove o no? Non devi fare altro che dire la verità e io metto via la pistola e sparisco».
– Che verità vuole? Quella di chi stia viaggiando quasi alla velocità della luce in un’altra galassia? Quella di chi sia nell’orbita di una stella neutrone? Magari, se potessero vederci attraverso un telescopio, potremmo apparirgli alti settanta centimetri e potrebbe star piovendo ieri invece che oggi.
– È contro la tua testa che quell’individuo sta puntando la pistola. Quindi vuole la tua, di verità.
– A che cosa serve la mia verità? Non significa niente. E se invece questo tizio con pistola venisse da un pianeta di un sistema solare del tutto diverso? Ciò che noi chiamiamo pioggia, lui lo chiama sapone. E invece ciò che chiamiamo mele lo chiama pioggia. Che cosa dovrei dirgli?
– Si chiama Frank J. Smalley ed è di Saint Louis.
– Vuole sapere se sta piovendo adesso, esattamente in questo istante?
– Qui e adesso. Esatto.
– Esiste un adesso? L’«adesso» viene e se ne va non appena lo si è pronunciato. Come faccio a dire che adesso piove, se il tuo cosiddetto «adesso» diventa «allora» non appena lo pronuncio?
– Ma se hai detto che non esiste passato, né presente, né futuro.
– Soltanto nei nostri verbi. È l’unico posto dove li si trova.
– Pioggia è un sostantivo. C’è della pioggia qui, in questo preciso luogo, in qualsiasi momento nell’ambito dei due minuti successivi a quello che sceglierai per rispondere alla domanda?
– Se intendi parlare di un luogo preciso, mentre sei in una vettura in evidente movimento, allora penso che il problema di questa discussione stia proprio lì.
– Dammi una risposta e basta, Heinrich, d’accordo?
– Il massimo che posso fare è cercare di indovinare.
– O piove o no, – ribattei.
– Esattamente. Proprio quello che intendo io. Si tirerebbe a indovinare. Se non è zuppa è pan bagnato.
– Ma lo si vede che sta piovendo.
– Si vede anche il sole che si muove nel cielo. Ma è lui che si muove, o la terra che gira?
– Un’analogia che non accetto.
– Tu sei sicurissimo che si tratti di pioggia. Come fai a sapere che non è acido solforico proveniente dalle fabbriche oltre il fiume? Come fai a sapere che non sono i residui radioattivi di una guerra in Cina? Tu vuoi una risposta qui e adesso. Puoi dimostrare, qui e adesso, che quella roba è pioggia? Come faccio a sapere che quella che tu definisci pioggia lo è veramente? E comunque, che cos’è la pioggia?
– Quella cosa che cade dal cielo e ci – come si dice – bagna.
– Io non sono bagnato. E tu?
– D’accordo, – dissi. – Benissimo.
– No, davvero: sei bagnato?
– Ottimo, – risposi. – Vittoria dell’incertezza, del caso, del caos. L’ora più bella per la scienza.
– Fa’ il sarcastico.
– Sofisti e pignoli si godono il loro trionfo.
– Continua, fa’ il sarcastico. Non mi importa.”
Nel supermercato: “– I tibetani credono che vi sia uno stato di transizione tra la morte e la rinascita. La morte sarebbe fondamentalmente un periodo di attesa. Dopo poco tempo l’anima sarà accolta da un nuovo grembo. Nel frattempo essa restituisce a se stessa una parte della divinità che ha perduto al momento della nascita -. Studiai il profilo di Babette per cogliervi una reazione.
– È la stessa cosa che penso io ogni volta che vengo qui. Questo posto ci ricarica sotto il profilo spirituale, ci prepara, è un passaggio o una transizione. Guarda quant’è luminoso. È pieno di dati sovrannaturali. Mia moglie gli sorrise.
– Tutto è celato nel simbolismo, nascosto da veli di mistificazione e strati di materiale culturale. Ma si tratta senza ombra di dubbio di dati sovrannaturali. Le grandi porte si aprono scorrendo e si chiudono spontaneamente. Onde di energia, radiazione incidente. E poi ci sono lettere e numeri, tutti i colori dello spettro, tutte le voci e i rumori, tutte le parole in codice e le frasi convenzionali. È soltanto questione di decifrare, ricombinare, eliminare gli strati di impronunciabilità. Non che sia il caso, non che ne possa derivare alcuno scopo utile. Questo non è il Tibet. E neanche il Tibet è più quello di una volta.
Continuai a esaminare il profilo di Babette, che mise dello yogurt nel carrello.
– I tibetani cercano di vedere la morte per ciò che essa è. Ovvero la fine dell’attaccamento alle cose. Una verità semplice ma difficile da capire. Tuttavia, una volta che si sia smesso di negare la morte, si può procedere tranquillamente a morire e poi ad affrontare l’esperienza della rinascita uterina, o l’aldilà giudaico-cristiano, o l’esperienza extracorporea, o un viaggio su un Ufo, o come che lo si voglia chiamare. E possiamo farlo con chiarezza di visione, senza timore riverenziale o terrore. Non dobbiamo aggrapparci artificialmente alla vita, e neanche alla morte. Non si fa altro che procedere verso le porte scorrevoli. Onde e radiazioni. Guarda come è tutto ben illuminato. Questo posto è sigillato, conchiuso in sé. E senza tempo. Un altro motivo per cui penso al Tibet. Morire, in Tibet è un arte. Arriva un sacerdote, si siede, dice ai parenti in lacrime di andarsene e fa sigillare la stanza. Porte e finestre, tutte sigillate. Ha cose serie da fare. Salmodie, numerologia, oroscopi, recitazioni. Qui non moriamo, facciamo acquisti. Ma la differenza è meno marcata di quanto si creda.
Ormai stava praticamente mormorando, per cui cercai di avvicinarmi senza andare a sbattere con il mio carrello in quello di Babette. Volevo sentire tutto.
– I supermercati così grandi, puliti e moderni, per me sono una rivelazione. Ho passato la vita in negozietti di gastronomia con banchi sbilenchi pieni di vassoi su cui erano disposti mucchietti mollicci e umidi di sostanze di svariate colorazioni chiare. Banchi tanto alti da costringere a stare in punta di piedi per ordinare. Grida, accenti diversi. Nelle città nessuno più nota la specificità del morire. Il morire è una componente dell’aria. Si trova ovunque e in nessun luogo. Morendo gli uomini gridano, per farsi notare, per farsi ricordare per un paio di secondi. Morire in un appartamento di città può deprimere l’anima, penso, per diverse vite a venire. Nelle cittadine di provincia invece ci sono le villette, le piante nei bovindi. La gente nota di più la morte. I morti hanno volti, automobili. Se non si sa un nome, si sa però quello di una strada, di un cane. «Aveva una Mazda arancione». Di una persona si sanno un paio di cose inutili che diventano importanti elementi di identificazione e collocazione cosmica, nel caso in cui essa muoia all’improvviso, dopo una breve malattia, nel proprio letto, con trapunta e cuscini rivestiti uguali, in un mercoledì pomeriggio piovoso, febbricitante, un po’ congestionata nei seni nasali e al petto, pensando alla lavatura a secco.”
“La T.V. costituisce un problema soltanto se si è dimenticato come guardare e ascoltare, – replicò Murray. – Ne discuto continuamente con i miei studenti. Cominciano a pensare di doversi ribellare al mezzo televisivo, esattamente come una generazione precedente si è rivoltata contro i genitori e il paese. Io invece dico loro che devono imparare di nuovo a guardare da bambini. A scavare il contenuto. A decifrare i codici e messaggi, per usare la tua espressione Jack.
– E loro che cosa dicono?
– Che il termine televisione non sarebbe altro che un modo diverso di indicare la pubblicità postale, quella che si butta via. Ma io dico loro che non posso essere d’accordo. Dico loro che da più di due mesi sto seduto in questa stanza a guardare la T.V. fino alle ore piccole, ascoltando con attenzione, prendendo appunti. Grande esperienza, che rende umili, consentitemi di dirlo. Prossima al mistico.
– E la tua conclusione qual è?
Murray incrociò compostamente le gambe e rimase seduto con la tazza in grembo, sorridendo direttamente al vuoto che aveva davanti.
– Onde e radiazioni, – disse poi. – Sono giunto a capire che il mezzo televisivo è una forza di fondamentale importanza nella casa tipica americana. Conchiusa in sé, senza tempo, autolimitata, autoriferente. È come un mito nato qui nel nostro soggiorno, come una cosa che conosciamo in modo preconscio, quasi in sogno. Ne sono molto intrigato, Jack.
E mi guardò, ancora sorridendo in modo vagamente sfuggente.
– Bisogna imparare a guardare. Bisogna aprirsi ai dati. La T.V. offre un’incredibile quantità di dati sovrannaturali. Porta allo scoperto ricordi della nascita del mondo, ci accoglie nella grata, nel reticolo di macchioline ronzanti che formano la struttura dell’immagine. C’è la luce, c’è il suono. Ai miei studenti chiedo: «Che cosa volete di più?» Guardate la ricchezza di dati celata in quella grata, in quel bell’involucro, le canzoncine, i quadretti di vita famigliare pubblicitari, i prodotti che balzano in primo piano emergendo dalle tenebre, i messaggi codificati e le ripetizioni interminabili, simili a tanti mantra. “Coke is it”. “Coke is it”. “Coke is it”. Il mezzo televisivo trabocca praticamente di formule sacre, se riusciamo a ricordarci come rispondere con innocenza e a superare l’irritazione, la stanchezza e il disgusto.
– Ma i tuoi studenti non sono d’accordo.
– Peggio della pubblicità per posta, dicono: da buttare via. Secondo loro la televisione rappresenterebbe gli spasimi agonici della coscienza umana. Si vergognano del proprio passato televisivo. Vogliono parlare di cinema.”
Parlando dei nazisti che accorrevano ai discorsi di Hitler: “Poi arrivarono le folle, masse di gente che invadevano il cortile cantando canzoni patriottiche e dipingendo svastiche sulle pareti e sui fianchi degli animali. Accorrevano folle alla sua villa in montagna, tanta di quella gente che gli toccava stare chiuso in casa. Raccoglievano i ciottoli su cui aveva camminato e se li portavano a casa per ricordo. Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa. Lui parlando chiudeva gli occhi, serrava i pugni, torceva il corpo madido di sudore, faceva della propria voce un’arma elettrizzante. «Assassinii di natura sessuale» furono definiti da qualcuno, questi discorsi. Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce. […] Le folle continuano ad arrivare, a venire eccitate, a toccare, a schiacciarsi… gente bramosa di essere trascinata. Non è una cosa comune? Tutto ciò lo conosciamo anche noi. In quelle folle, invece, doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. Erano lì per vedere pire e ruote infuocate, migliaia di bandiere inchinate per l’addio, migliaia di persone nell’uniforme del lutto. Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere. Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tenere lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla.”
“La famiglia è la culla della disinformazione mondiale. Nella vita di famiglia dev’esserci qualcosa che genera gli errori di fatto. L’eccesso di vicinanza, il rumore e il calore dell’essere. Forse anche qualcosa di più profondo, come il bisogno di sopravvivere. Murray sostiene che siamo creature fragili, circondate da un mondo di fatti ostili. I fatti minacciano la nostra felicità e sicurezza. Più a fondo investighiamo nella natura delle cose, più incerta può sembrar diventare la nostra struttura. Il processo famigliare tende a escludere il mondo. Piccoli errori diventano capitali, le finzioni proliferano. Io gli replico che ignoranza e confusione non possono essere le forze motrici che stanno dietro la solidarietà famigliare. Che idea, che sovversione! Lui mi chiede perché mai, allora, le unità famigliari più forti si trovano nelle società meno sviluppate. Il non sapere è lo strumento della sopravvivenza, sostiene. Magia e superstizione si ossificano a diventare la poderosa ortodossia di clan. La famiglia è più forte là dove è più probabile che la realtà oggettiva venga malintesa.”
“All’aeroporto aspettammo in una nebbia di polvere di intonaco, tra fili esposti, mucchi di detriti. Mezz’ora prima dell’arrivo di Bee, nella zona arrivi presero ad affluire attraverso un tunnel ventoso i passeggeri di un altro volo. Erano grigi e scossi, stremati da stanchezza e shock, e trascinavano i bagagli sul pavimento. Venti, trenta, quaranta persone, senza proferir parola, con lo sguardo fisso a terra. Alcuni zoppicavano, altri piangevano. Attraverso il tunnel ne arrivarono ancora altri, adulti con bambini che frignavano, vecchi tremanti, un sacerdote nero con il colletto di traverso e senza una scarpa. […]
L’aereo aveva perso potenza in tutti e tre i motori, precipitando da undicimila metri a quattromila. Qualcosa come settemila metri. Quando era cominciato il brusco tonfo, i passeggeri si erano alzati, erano cascati, andando a sbattere gli uni contro gli altri, si erano librati sui sedili. Poi erano cominciati sul serio gli strilli e i lamenti. Quasi immediatamente all’altoparlante si era sentita arrivare dal ponte di comando una voce che diceva: – Precipitiamo dal cielo! Andiamo giù! Siamo una macchina di morte argentea e lucente! – Uno sfogo che i passeggeri avevano preso come il segno di una totale perdita di autorità, competenza e presenza ai comandi, provocando una nuova esplosione di lamenti disperati.
– Oggetti rotolavano fuori dalle cambuse, i corridoi erano pieni di bicchieri, utensili, cappotti e coperte. Una hostess, appiccicata alla paratia per effetto dell’angolo acuto di caduta, stava cercando nel «Manuale dei disastri aerei» il passo adeguato alle circostanze. Poi si era sentita arrivare dal ponte di comando una seconda voce maschile, questa, invece, notevolmente calma e precisa, che aveva fatto capire ai passeggeri come in definitiva ai comandi ci fosse ancora qualcuno, dando loro un motivo di speranza: – Qui American due-uno-tre al registratore della cabina di comando. Ora sappiamo com’è. È peggio di come abbiamo mai immaginato. Al simulatore della morte, a Denver, non ci hanno preparato a niente di simile. La nostra paura è pura, così totalmente spoglia di distrazioni e pressioni da costituire una forma di meditazione trascendente. In meno di tre minuti toccheremo per così dire terra. I nostri corpi verranno trovati in un campo fumoso, sparpagliati nelle orribili posture della morte. Ti amo, Lance -. Questa volta, prima che il lamento di massa riprendesse, c’era stato un attimo di silenzio. Lance? A che razza di gente era affidato quell’aereo? Il pianto aveva assunto un tono amaro e disilluso. […]
Sull’aereo che precipitava una hostess aveva proceduto carponi per il corridoio, sopra corpi e macerie, dicendo alla gente delle due file di togliersi le scarpe, di levarsi di tasca gli oggetti taglienti, di mettersi in posizione fetale. All’altro capo dell’aereo qualcuno era alle prese con un’apparecchiatura di galleggiamento. Alcuni membri dell’equipaggio avevano deciso di fingere che ciò che li aspettava nel giro di pochi secondi non fosse un atterraggio con disastro, ma un atterraggio di fortuna. In definitiva si trattava soltanto di una leggera differenza di termini. Il che suggeriva come forse le due forme di conclusione del volo fossero più o meno intercambiabili. Ipotesi incoraggiante, date le circostanze, se non si stava troppo a pensarci, come del resto non c’era tempo di fare. La differenza di base tra un atterraggio con disastro e un atterraggio di fortuna sembrava essere che al secondo ci si può preparare sensatamente, come si stava appunto facendo. La notizia si era diffusa per l’aereo, l’espressione era stata ripetuta fila dopo fila. «Atterraggio di fortuna, atterraggio di fortuna». Si era visto quanto fosse facile, cambiando un’espressione, mantenere una presa sul futuro, estenderla in termini di consapevolezza, se non proprio di fatto. I passeggeri avevano preso a tastarsi in cerca di penne a sfera, avevano assunto la posizione fetale sul sedile. […]
Fu a quel punto della caduta, mentre l’espressione «Atterraggio di fortuna» si diffondeva per l’aereo, con particolare sottolineatura della seconda parte di essa, che attraverso le tende, procedendo carponi e aggrappati con le unghie, arrivarono i passeggeri di prima, che si inerpicarono letteralmente verso la sezione turistica, in modo da evitare di essere i primi a impattare con il terreno. Secondo alcuni di turistica, tuttavia, li si sarebbe dovuti rimandare indietro. Un sentimento non tanto espresso a parole e atti, quanto per mezzo di tremendi rumori inarticolati, per lo più una sorta di muggito, un mugghio pressante e forzato. Poi all’improvviso i motori ripartirono. Senza nessun motivo. Potenza, stabilità, controllo. I passeggeri, pronti all’impatto, ci misero un po’ ad adeguarsi alla nuova ondata di notizie. Rumori nuovi, una rotta diversa, il senso di essere rinchiusi in una tubazione solida e non in un involucro di poliuretano. Si accese il segnale che permetteva di fumare, un’internazionale mano con sigaretta. Apparvero hostess munite di tovagliolini profumati per ripulire sangue e vomito. La gente emerse lentamente dalla posizione fetale, si rilasciò con difficoltà sui sedili. Settemila chilometri di terrore primigenio. Nessuno sapeva che cosa dire. Essere vivi era un coacervo di sensazioni. Dozzine di cose, centinaia. Il primo ufficiale percorse il corridoio, sorridendo e chiacchierando in modo piacevole, vacuo, aziendale. Sul suo volto c’era il lucore roseo e fidente proprio di chi è responsabile di grossi aerei di linea. Guardandolo, si chiesero tutti perché mai avessero avuto paura.
La gente che si era affollata per ascoltare, ben più di cento persone, che si trascinavano dietro sul pavimento polveroso bagagli a mano e valigie, mi aveva spinto lontano dal narratore. Proprio nel momento in cui mi resi conto di essere fuori portata di ascolto, in piedi accanto a me vidi Bee, il visino liscio e bianco tra una massa di capelli ricci. Mi saltò tra le braccia, odorosa di scarichi di jet.
– Dov’è la televisione? – chiese.
– A Iron City non c’è.
– Allora tutta quella roba l’hanno vissuta per niente?”
“È difficile pensare a simili uomini in preda a mesti pensieri di morte. Attila l’Unno è morto giovane. Sulla quarantina. Gli sarà dispiaciuto, si sarà sentito pieno di compassione per se stesso, e depresso? Era il re degli Unni, l’invasore dell’Europa, il Flagello di Dio. Voglio credere che sia rimasto disteso nella sua tenda, avvolto in pelli di animali, come in un film epico a finanziamento internazionale, dicendo cose coraggiose e crudeli ai propri aiutanti di campo e seguaci. Nessun cedimento dello spirito. Nessun senso dell’ironia insita nell’esistenza umana, del fatto che siamo la forma più elevata di vita sulla terra, eppure ineffabilmente tristi, perché sappiamo ciò che nessun altro animale sa, ovvero che dobbiamo morire. Attila non guardò oltre l’apertura della tenda, indicando un cane storpio fermo ai margini del fuoco, in attesa che gli venisse gettato un brandello di carne. Non disse: – Quel patetico animale pieno di pulci sta meglio del più grande dominatore di uomini. Non sa quello che noi sappiamo, non sente quello che noi sentiamo, non può essere triste quanto lo siamo noi.
Voglio credere che non avesse paura. Che abbia accettato la morte come un’esperienza che segue naturalmente alla vita, una folle cavalcata nella foresta, come si conviene a un uomo chiamato il Flagello di Dio.”
“Alcuni scienziati del famoso Istituto per gli Studi Avanzati presso l’Università di Princeton hanno sbalordito il mondo presentando inoppugnabili prove dell’esistenza di una vita dopo la morte. Un ricercatore del suddetto Istituto – ente di importanza mondiale – si è servito dell’ipnosi per indurre centinaia di persone a ricordare le precedenti vite da loro vissute in veste di costruttori di piramidi, di studenti in viaggio di scambio culturale e di extraterrestri.”
“È come se ci avessero ricacciato indietro nel tempo, – disse. – Siamo nell’Età della pietra: conosciamo tutte le cose che sono state prodotte da secoli di progresso, ma che cosa sappiamo fare per rendere più agevole la vita di questa Età? Sappiamo forse fare un frigorifero? Sappiamo anche solo spiegare come funziona? Che cos’è l’elettricità? Che cos’è la luce? Sono cose che sperimentiamo ogni giorno della nostra vita, ma a che cosa serve tutto ciò se ci troviamo ricacciati indietro nel tempo e non siamo nemmeno in grado di spiegare alla gente i principi di base, per non parlare di fare effettivamente qualcosa che possa migliorare la situazione. Indicami una sola cosa che saresti capace di fare. Saresti capace di costruire un semplice fiammifero di legno, che produca fiamma strofinandolo su una roccia? Noi siamo convinti di essere tanto grandi e moderni. Atterraggi sulla luna, cuori artificiali. Ma se fossimo coinvolti in un ribaltamento temporale e ci trovassimo a faccia a faccia con gli antichi greci? Sono stati loro a inventare la trigonometria. Facevano già autopsie e dissezioni. Tu che cosa potresti dire a uno di loro, senza che lui rispondesse: «Bella roba». Potresti parlargli dell’atomo? È una parola greca. I greci sapevano già che gli eventi fondamentali del mondo non possono essere visti dall’occhio umano. Sono onde, raggi, particelle.”
“Abbiamo il calore, abbiamo la luce.
– Cose da Età della pietra. Ce le avevano anche loro. E anche il fuoco. Strofinavano insieme due pietre focaie e producevano delle scintille. Tu saresti capace? Riconosceresti una pietra focaia, se la vedessi? Se un uomo dell’Età della pietra ti chiedesse che cos’è un nucleotide, sapresti dirglielo? Come facciamo a fare la carta carbone? Che cos’è il vetro? Se domani ti svegliassi nel medioevo e stesse infuriando un’epidemia, che cosa potresti fare per fermarla, con le nozioni che hai sul progresso di medicine e malattie? Siamo praticamente nel ventunesimo secolo e hai letto centinaia di libri e riviste, nonché visto centinaia di programmi T.V. di scienza e medicina.”
“Quell’alito di Nyodene D. mi ha seminato la morte in corpo. Ormai, stando al computer, è ufficiale. Ho la morte dentro. È solo questione se riuscirò o meno a sopravvivere. Gli effetti hanno una loro durata. Trent’anni. Anche se non sarà direttamente il Nyodene D. ad ammazzarmi, probabilmente mi sopravviverà dentro il mio corpo. Potrei morire in un incidente aereo e lui continuerebbe a prosperare nei miei resti inviati al riposo eterno.
– È la natura della morte moderna, – considerò Murray. – Ha una vita indipendente da noi. Sta crescendo in prestigio e dimensione. Dispone di uno slancio mai conosciuto prima. Noi la studiamo obiettivamente. Possiamo predirne l’aspetto, seguirne il corso nel corpo. Possiamo ritrarla in sezione, registrarne su nastro tremori e onde. Non le siamo mai stati tanto vicini, mai abbiamo avuto tanta famigliarità con le sue abitudini e i suoi atteggiamenti. La conosciamo nell’intimo. Ma lei continua a crescere, ad aumentare in dimensione e portata, ad acquisire nuovi sbocchi, nuovi passaggi e mezzi. Più ne apprendiamo, più cresce. Che sia una legge della fisica? Ogni progresso in conoscenza e tecnica viene pareggiato da un nuovo tipo di morte, da una nuova specie. La morte si adatta, come un agente virale. Forse è una legge di natura. O forse una mia superstizione personale. Sento che i morti ci sono più vicini che mai. Avverto che abitiamo la loro stessa atmosfera. Ricorda Lao Tse: «Non vi è differenza tra i vivi e i morti. Sono un unico canale di vitalità». L’ha detto seicento anni prima di Cristo. Ed è ancora una volta vero, forse più che mai.”
“C’è una teoria, sul déjà vu.
– Non voglio saperla.
– Perché pensiamo che queste cose siano già successe? Semplice. Perché sono effettivamente successe, nella nostra mente, come visioni del futuro. Essendo precognizioni, è materia che non possiamo adattare al sistema della nostra coscienza così com’esso è attualmente strutturato. Si tratta di roba fondamentalmente soprannaturale. Vediamo nel futuro, ma è un’esperienza che non abbiamo ancora imparato ad analizzare. Quindi l’evento se ne sta rimpiattato finché la precognizione non si avvera, finché non ci troviamo a faccia a faccia con esso. In quel momento siamo liberi di ricordarlo, di avvertirlo come famigliare.
– Perché c’è così tanta gente che soffre episodi del genere proprio adesso?
– Perché la morte è nell’aria, – rispose in tono soave. – Significa liberare materiale rimosso. Significa arrivare più vicini a qualcosa di noi stessi che non abbiamo appreso. La maggior parte di noi ha probabilmente visto la propria morte, ma non sapeva come far affiorare questa visione. Forse, quando moriremo, la prima cosa che diremo sarà: «Questa sensazione la conosco. Qui ci sono già stato».”
“Ogni volta che sono giù di corda per qualcosa, penso a tutti i miei amici, parenti e colleghi raccolti attorno alla mia bara. Gli dispiace molto, ma molto di non essere stati più gentili con me da vivo. L’autocompatimento è una cosa che ho faticato molto per mantenere. Abbandonarlo soltanto perché si è cresciuti? Neanche per idea. L’autocompatimento è una cosa in cui i bambini eccellono, il che significa che dev’essere naturale e importante. Immaginarsi morti è la forma più economica, squallida e soddisfacente di autocompatimento infantile. Come sono tristi, pieni di rimorso e di sensi di colpa, tutti quelli lì, in piedi accanto alla grande bara di bronzo. Non riescono nemmeno a guardarsi negli occhi perché sanno che la morte di quest’uomo rispettabile e pio è il risultato di una congiura a cui hanno partecipato tutti. La bara è sepolta sotto i fiori e circondata da un nastro color salmone o pesca. In che meravigliosi risucchi di autocompatimento e autoconsiderazione si è capaci di sguazzare, vedendosi lì stesi in abito scuro e cravatta, con un aspetto abbronzato, ben messo e riposato, come si dice dei presidenti dopo le vacanze. Ma c’è dentro qualcosa di ancor più infantile e gratificante dell’autocompatimento, qualcosa che spiega perché cerco con regolarità di vedermi morto, omone circondato da lamentatori che tirano su con il naso. È il mio modo di punire gli altri per il fatto di pensare che la loro vita sia più importante della mia.”
Don DeLillo, da “Rumore bianco”, 1985
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