“Perché scrivere? La scrittura non è una tradizione gitana.
La poesia è troppo alta per me, inaccessibile, e poi: volevo vivere la vita, non scriverla.
La mia ragione non ha considerato il cielo. Lentamente, al ritmato modo delle stagioni che passano, ho riempito un quaderno di scuola. Era un libro pieno di poeti che ammiro. Forse, non potevo sopportare di vederli passare al mio fianco. Ho voluto essere uno di loro.”
Alexandre Romanès, gitano circense
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“Cielo, dono, Dionella lingua zigana
si dicono con
la stessa parola.”
Alexandre Romanès, gitano
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“Ho cominciato a scrivere poesie.
Un giorno, ne ho scritte cinque.
Ero così fiero
che quando sono andato
a letto ho messo le mie poesie
nella federa del cuscino:
le volevo accanto al viso
come avrebbe fatto un bambino
di cinque anni con il suo
orsacchiotto di peluche.”
“Ho spezzato il mondo in due:
da un lato ciò che è poetico
dall’altro ciò che non lo è.
Ai miei occhi esiste solo
il poetico – il non poetico
lo ignoro.”
“Fa paura il mondo
e le parole sono logore:
ovunque, regna l’indifferenza.
Quanti violini meritano l’albero?
Quanti poeti sono degni di impeccabili pagine?
Eppure, vige ancora
un sigillo nei gesti
il grido che stride
dell’uccello del paradiso
sospeso a metà cielo.”
“Tutte queste parole insignificanti
tutte queste azioni inutili
e così tanta gente e quel brusio
che non ha spazio per l’importante
e tutti questi libri che non hanno
nemmeno una frase che ti commuova.”
“Da dove viene questa gente?
Vogliono tutto agghindati
da frasi intrise d’oro
da imperiali decisioni.
Per me, preferisco
lo sbrindellato ramo
sulla via, le trecce
impeccabili di una ragazza.”
“Raggiungerò i più poveri
che non hanno che il cielo:
anch’io cerco il silenzio
e una notte per chinarmi
e piangere.”
“Gli uomini passano
al loro fianco senza vederle:
modeste, in ginocchio,
nella tenera erba, le rose
si guardano l’un l’altra
stupite, senza capire.”
“Povera, umana creatura
la tua vita, brandello d’albero
nella bocca di un uccello
pugno di sabbia
gettato lontano.
Se il tuo cuore non è un regno
che senso ha vagare ancora?”
Poesie di Alexandre Romanès, gitano circense
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Édouard Manet, “Gitane avec une cigarette”
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Il mare
“Nacqui nel Nord, in pianura,
un giorno di nebbia
e da allora pianura
di nebbia e nebbia sono state catene.
Rare le evasioni
sempre breve l’estate
e troppo spesso
in fondo alla strada un muro.
Perciò amo il mare
questo infinito giocattolo vivo
nel quale ritrovo i giorni più belli
della mia infanzia e insieme
l’infanzia del mondo
e insieme le lunghe navi fenici e gli eroi
che ritornavano nel sole di ogni mattina
d’estate galoppando su bianchi cavalli
là dove l’onda si ritira e la rena
per un attimo alita strisce di luce.
Così nel mare ritrovo la mia vita più vera
e che importa se dopo
su al Nord, nella terra d’esilio ove nacqui,
mi attendono ancora
le mie catene.”
Luciano “Hexo” Cari (poeta Sinti estrekarja)
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Foto di Hisao Kanno
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Libero come la musica zigana
“Sono nato sotto una tenda
in una notte d’estate
in un accampamento zingaro
ai margini della città.
I grilli mi cantavano la ninna nanna
la luna mi fasciava di raggi d’oro
e le donne vestivano gonne fiorite.
Sono crescuto su un carro
dalle ruote scricchiolanti.
Eravamo ragazzi
senza ieri e senza domani
mendicavamo il pane nella pioggia e al sole
correvamo incontro ai nostri sogni
alle nostre fantasie nel bosco.
Ora sono diventato grande
la mia tenda è distrutta
il mio carro si è fermato.
Ma cammino ancora per essere libero
come il vento che scuote il bosco
come l’acqua che scorre verso il mare
come la musica di un violino zigano.
Olimpio “Mauso” Cari (artista Sinti)
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Opera di Olimpio “Mauso” Cari
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È tempo
“È tempo di imbrigliare il mio cuore e partire. Non scriverò più.
Imparerò di nuovo a non poter scrivere.
Questa vita di scrittura non fa parte della mia condizione nomade.
Non sono fatto per la letteratura.
Sono una razza di alberi.
Piango come il tuono, quando si annuncia. Sono solo un vagabondo, un cantore di parole, che raccoglie pensieri fruscianti, ai margini del percorso della sua anima.
Erano i fiori selvaggi, le foglie morte, la pioggia, il vento, i rovi e gli alberi che mi hanno chiesto di parlare delle loro vite.
È stata una decisione divina.
Quando ho riacceso il fuoco e ho camminato su percorsi sconosciuti, ho finalmente imparato a leggere e scrivere.
La roulotte in cui vivevo, le mie poesie erano i miei cavalli.
I miei pensieri erano i miei piccoli zingari.
Ma ora devo trovare la mia vita nomade.
È tempo di imbrigliare il mio cuore e andarmene.”
Jean-Marie Kerwich (poeta francese di origine gitana)
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Ancora ti prospera il fogliame intorno al cuore
“Ancora ti prospera il fogliame intorno al cuore
e una fresca presa di sale
impregna il tuo sguardo.
Di me nessuno vuol sapere,
di chi io sia la spezia
e di quale amore la durata.
Spesso canta il lupo nel mio sangue
e allora l’anima mia si apre
in una lingua straniera.
Luce, dico allora, luce di lupo,
dico, e che non venga nessuno
a tagliarmi i capelli.
Mi annido in briciole straniere
e sono a me parola sufficiente.
Effimero, mi dico,
perché presto cesserà ogni annidare,
e scorre via il resto di ogni ora.
Mariella Mehr, da “Notizie dall’esilio”, 1998 – Traduzione di Anna Ruchat
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Henri Rousseau, “Zingara addormentata”, 1897
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Niente, nessun luogo
“Niente,
nessun luogo.
C’è ancora rumore
di sventura nella testa,
e sulla mappa del cielo
io non sono presente.
Mai è stata primavera,
sussurrano le voci di cenere,
sulla bilancia del linguaggio
sono una parola senza peso
e trafiggo il tempo
con occhi armati.
Futuro?
Non assolve
me, nata sghemba.
Vieni, dice,
la morte è un ciglio
sulla palpebra della luce.”
Mariella Mehr
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Liberami dalla fame di memoria
“Liberami dalla fame di memoria
spediscimi lontano senza messaggi
una volta almeno per la durata di una fitta al cuore
come la storia del fiore di nessuno.”
Mariella Mehr
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Guardiamo separati nel mondo
“Guardiamo separati nel mondo
ognuno incatenato alla sua ora
le nostre mani toccano una costellazione
per l’ennesima volta senza conseguenze
Nebbia avvolge quell’altrove senza sponde
nebbia si appoggia sulla mia spalla
diventa pesante, più pesante, diventa pietra
Una sola parola captata origliando
voglio estrapolarla e conservarla
perché resti indietro una ferita aperta
per mia consolazione, una strada dentro il domani
Bastava la speranza? E allora sperate con me
tutti voi soccombenti
Spera anche tu
cuore mio
un’ultima volta.”
Mariella Mehr
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Non c’era mare ai nostri piedi
Per tutti i Rom, Sinti e Jenische,
per tutte le ebree e gli ebrei,
per gli uccisi di ieri e per quelli di domani.
“Non c’era mare ai nostri piedi,
anzi, gli siamo sfuggiti a malapena,
quando – le disgrazie, si dice, non vengono mai sole –
il cielo d’acciaio ci incatenò il cuore.
Abbiamo pianto invano le nostre madri
davanti ai patiboli,
e ricoperto i bambini morti con fiori di mandorlo
per scaldarli nel sonno, il lungo sonno.
Nelle notti nere ci disseminano
per poi strappare noi posteri alla terra
nelle prime ore del mattino.
Ancora nel sonno ti cerco, erba selvatica e menta:
chiuditi, occhio, ti dico,
e che tu non debba mai vedere i loro volti,
quando le mani diventano pietra.
Per questo l’erba selvatica, la menta.
Ti stanno leggere sulla fronte
quando arrivano i mietitori.”
Mirella Mehr (poetessa Jenische), da “Notizie dall’esilio”, 1998
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Foto di Jack Barnosky
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Mariella Mehr (poetessa e scrittrice di etnia Jenisch, che, insieme ai Rom e ai Sinti, è una delle più grandi popolazioni nomadi dell’Europa) è stata una delle tante vittime del programma “Enfants de la grand-rout“, messo in atto dalla Svizzera nei confronti dei nomadi. Si trattava di un programma eugenetico, che, a partire dal 1926, prevedeva una “riconversione” dei “bambini di strada”, che venivano strappati alle famiglie di appartenenza e internati in orfanotrofi o in istituti psichiatrici allo scopo di renderli “normali”.
«I piccoli zingari venivano affidati a contadini, e molte ragazze venivano sterilizzate. Solo verso la fine degli anni Sessanta i rom e gli zingari crearono in Svizzera un’associazione e iniziarono una lotta giuridica e politica che portò alla chiusura della “Pro Juventute” e solo nel 1986 il presidente della Confederazione Elvetica ha chiesto pubblicamente scusa ai rom. Alla sua storia, e al percorso psicoterapeutico che le ha permesso di uscire dalla follia in cui era precipitata, Mariella Mehr ha dedicato il libro “La bambina” (…) in cui ricostruisce una storia fatta di violenze: la piccola viene rinchiusa al buio e picchiata per la sua paura, subisce le “viscide attenzioni” del padre affidatario, la violenza carnale di un medico, elettroshock e terapie chimiche, mentre viene indicata come un caso disperato ed emblematico di una razza geneticamente tarata.»
(David Piesoli)
Mirella era piccolissima quando fu allontanata dalla madre e crebbe in in 3 istituzioni educative e 16 diverse case famiglia.
Quando aveva 18 anni, anche suo figlio le venne portato via. Distrutta nel corpo e nella psiche, subì 4 ricoveri in ospedali psichiatrici, dove fu ripetutamente sottoposta ad elettroshock e per quasi due anni venne internata nel carcere femminile di Hindelbank nel Canton Berna.