Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.
Dovresti aggiungere un bottone al soprabito, gli disse l’amico. L’incontrai in mezzo alla Cour de Rome, dopo averlo lasciato mentre si precipitava avidamente su di un posto a sedere. Aveva appena finito di protestare per la spinta di un altro viaggiatore che, secondo lui, lo urtava ogni qualvolta scendeva qualcuno. Questo scarnificato giovanotto era latore di un cappello ridicolo. Avveniva sulla piattaforma di un S sovraffollato, di mezzogiorno.
A boarrrdo di un auto (bit bit, pot pot!) bus, bussante, sussultante e sgangherato della linea S, tra strusci e strisci, brusii, borbottii, borrrborigmi e pissi pissi bao bao, era quasi mezzodin-dong-ding-dong, ed eccoco, cocoricò un galletto col paltò (un Apollo col cappello a palla di pollo) che frrr! piroetta come un vvortice vverso un tizio e rauco ringhia abbaiando e sputacchiando «grr grr, arf arf, harffinito di farmi ping pong?!».
Poi sguizza e sguazza (plaffete) su di un sedile e sooossspiiira rilassato.
Al rintocco e allo scampanar della sera, ecco-co cocoricò il galletto che (bang!) s’imbatte in un tale balbettante che farfuglia del botton del paletò. Toh! Brrrr, che brrrividi!!!
Aho! Annavo a magnà e te monto su quer bidone de la Esse – e ‘an vedi? – nun me vado a incoccià con ‘no stronzo con un collo cche pareva un cacciavite, e ‘na trippa sur cappello? E quello un se mette a baccaglià con st’artro burino perché – dice – jé acciacca er ditone? Te possino! Ma cche voi, ma cchi spinge? e certo che spinge! chi, io? ma va a magnà er sapone!
‘Nzomma, meno male che poi se va a sede.
E bastasse! Sarà du’ ore dopo, chi s’arrivede? Lo stronzo, ar Colosseo, che sta a complottà con st’artro quà che se crede d’esse er Christian Dior, er Missoni, che so, er Mister Facis, li mortacci sui! E metti un bottone de quà, e sposta un bottone de là, a acchittate così alla vitina, e ancora un po’ ce faceva lo spacchetto, che era tutta ‘na froceria che nun te dico. Ma vaffanculo!
Tanto gentile la vettura pare
che va da Controscarpa a Ciamperetto
che le genti gioiose a si pigiare
vi van, e va con esse un giovinetto.
Alto ha il collo, e il cappello deve stare
avvolto in un gallone a treccia stretto:
potrai tu biasimarlo se un compare
iroso insulta, che gli pigia il retto?
Ora s’è assiso. Sarà d’uopo almeno
ritrovarlo al tramonto, quando poi
non lontano dal luogo ove sta il treno
s’incontri un amico, che gli eroi
della moda gli lodi, e non sia alieno
dall’aumentare li bottoni suoi.
BUS COMPLETO STOP TIZIO LUNGOCOLLO CAPPELLO TRECCIA APOSTROFA SCONOSCIUTO SENZA VALIDO PRETESTO STOP PROBLEMA CONCERNE ALLUCI TOCCATI TACCO PRESUMIBILMENTE AZIONE VOLONTARIA STOP TIZIO ABBANDONA DIVERBIO PER POSTO LIBERO STOP ORE DUE STAZIONE SAINTLAZARE TIZIO ASCOLTA CONSIGLI MODA INTERLOCUTORE STOP SPOSTARE BOTTONE SEGUE LETTERA STOPersi liberi
L’autobus
pieno
il cuore
vuoto
il collo
lungo
il nastro
a treccia
i piedi
piatti
piatti e appiattiti
il posto
vuoto
e l’inatteso incontro alla stazione dai mille fuochi spenti
di quel cuore, di quel collo, di quel nastro, di quei piedi,
di quel posto vuoto
e di quel
bottone.
Un dèi, verso middèi, ho takato il bus and ho seen un yungo manno con uno greit necco e un hatto con una ropa texturata. Molto quicko questo yungo manno becoma crazo e acchiusa un molto rrspettabile sir di smashargli i fitti. Den quello runna tovardo un anocchiupato sitto.
Leiter lo vedo againo che ualcava alla steiscione Seintlàzar con uno friendo che gli ghiva suggestioni sopro un bàtton del cot.
Dopo aver fatto il porro sotto un girasole fiorito, m’innestai su un cetriolo in rotta orto-gonale. Là sterrai uno zucchino dallo stelo inverosimilmente lungo, e il melone sormontato da un papavero avvolto da una liana. E questa melanzana si mette a inghirlandare una rapa che gli stava spiaccicando le cipolle. Datteri! Per evitar castagne, alla fine andò a piantarsi in terra vergine.
Lo rividi più tardi al mercato ortofrutticolo. Si occupava di un pisellino proprio al sommo della sua corolla.
Dopo una breve seduta elioterapica, temendo d’esser messo in quarantena, salii finalmente su un’autoambulanza piena di casi clinici. Laggiù mi accade di diagnosticare un dispeptico ulceroso affetto da gigantismo ostinato con una curiosa elongazione tracheale e un nastro da cappello affetto da artrite deformante. Questo tale, preso subitamente da crisi isterica, accusa un maniaco despressivo di procurargli sospette fratture al metatarso. Poi, dopo una colica biliare, va a calmarsi le convulsioni su di un posto-letto.
Lo rivedo più tardi al Lazzaretto, a consultar un ciarlatano su di un foruncolo che gli rovinava i muscoli pettorali.
Okey baby, se vuoi proprio saperlo. Mezzogiorno, autobus, in mezzo a una banda di rammolliti. Il più rammollito, una specie di suonato con un collo da strangolare con la cordicella che aveva intorno alla berretta. Un floscio incapace anche di fare il palo, che nel pigia-pigia, invece di dar di gomito e di tacco come un duro, piagnucola sul muso a un altro duro che dava di acceleratore sui suoi scarpini – tipi da colpire subito sotto la cintura e poi via, nel bidone della spazzatura. Baby, ti ho abituata male, ma ci sono anche ometti di questo tipo, beata te che non lo sai.
Okey, il nostro fiuta l’uppercut e si butta a sbavare su un posto per mutilati, perché un altro rammollito se l’era filata come se arrivasse la Madama.
Finis. Lo rivedo due ore dopo, mentre io tenevo duro sulla bagnarola, e che ti fa il paraplegico? Si fa mettere le mani addosso da un flosio della sua razza, che gli fiata sulla balconata una storia di bottoni su e giù che sembrava Novella Duemila.
In un parallelepipedo rettangolo generabile attraverso la linea retta d’equazione 84x+S=y, un omoide A che esibisca una calotta sferica attorniata da due sinusoidi, sopra una porzione cilindrica di lunghezza l>n, presenta un punto di contatto con un omoide triviale B. Dimostrare che questo punto di contatto è un punto di increspatura.
Se l’omoide A incontra un omoide omologo C, allora il punto di contatto è un disco di raggio r<l.
Determinare l’altezza h di questo punto di contatto in rapporto all’asse verticale dell’omoide A.
Pssst! Ehi! Ah! Oh! Hum! Ouf! Eh! Toh! Puah! Ahia! Ouch! Ellala’! Pffui! No!? Sì? Boh! Beh? Ciumbia! Urca! ma va!
Che?!! Acchio! Te possino! Non dire! Vabbe’! Bravo! Ma no!
Era il trionfo del demone meridiano. Il sole accarezza con accecante virilità le opime mammelle dell’orizzonte ambrato. L’asfalto palpitava goloso esalando gli acri incensi del suo canceroso catrame roso da rosate lepre. Carro falcato, cocchio regale, gravido di enigmatica e sibilante impresa, l’automobile ruggì a raccoglier messe umana molle di molli afrori, dissolta in esangui foschie al parco che tu dici Monceau, o Ermione. Sulla lucida piattaforma di quella macchina da guerra della gallica audacia, ove la folla s’inebria di amebiche voluttà, un efebo, di poco avanti alla stagione che ci fa mesti, con una calotta fenicia onusta di serpenti, la voce esile dal sapor di genziana, alto levò un clamore, e l’amarezza dei suoi lombi espanse, e de’ suoi calzari feriti da un barbaro, da un oplite ferigno, da un silvestre peltasta.
Poscia, anelante e madido, cercò riposo, esangue di deliquio. Di poco la clessidra aveva sbavato i suoi rugosi umori e ancora il vidi, alla Corte di Roma, astato come bronzo, con un sodale dal volto d’Erma e senza cigli, androgino Alcibiade che il petto gli indicava, il dito come strale, l’ugne tese a ferire. E con voce d’opale, di un bottone diceva, e di sua ascesa, a illeggiadrir la taglia, e a tener la rugiada umida lungi.
Mi pareva che tutto intorno fosse brumoso e biancastro tra presenze multiple e indistinte, tra le quali si stagliava tuttavia abbastanza netta la figura di un uomo giovane, il cui collo troppo lungo sembrava manifestarne da solo il carattere vile e astioso. Il nastro del suo cappello era sostituito da una cordicella intrecciata. Poco dopo ecco che discuteva con un individuo che intravvedevo in modo impreciso e poi – come colto da sùbita paura – si gettava nell’ombra di un corridoio.
Un altro momento del sogno me lo mostra mentre procede in pieno sole davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito».
A questo punto mi sono svegliato.
Raymond Queneau, “Esercizi di stile”, 1947
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“Esercizi di stile” presenta 99 versioni diverse della stessa storia, in realtà molto semplice: siamo a Parigi; un uomo sale su di un autobus molto affollato, in cui assiste ad un litigio tra due passeggeri, uno dei quali scende. Qualche ora più tardi, il narratore lo rivede in un altro punto della città mentre parla con un amico che gli dice di far mettere un bottone sul suo soprabito. La particolarità del libro consiste proprio nelle 99 varianti stilistiche create dall’Autore, che di volta in volta adotta registri linguistici e testuali diversi.