“Come molti uomini della mia generazione, fui allevato secondo i precetti del proverbio che dice «l’ozio è il padre di tutti i vizi». Poiché ero un ragazzino assai virtuoso, credevo a tutto ciò che mi dicevano e fu così che la mia coscienza prese l’abitudine di costringermi a lavorare sodo fino ad oggi. Ma sebbene la mia coscienza abbia controllato le mie azioni, le mie opinioni subirono un processo rivoluzionario. Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa; insomma, nei moderni paesi industriali bisogna predicare in modo ben diverso da come si è predicato sinora.
Tutti conoscono la storiella di quel turista che a Napoli vide dodici mendicanti sdraiati al sole (ciò accadeva prima che Mussolini andasse al potere) e disse che avrebbe dato una lira al più pigro di loro. Undici balzarono in piedi vantando la loro pigrizia a gran voce, e naturalmente íl turista diede la lira al dodicesimo, giacché era un uomo che sapeva il fatto suo.
Nei paesi che non godono del clima mediterraneo, tuttavia, oziare è una cosa molto più difficile e bisognerebbe iniziare a tale scopo una vasta campagna di propaganda. Spero che, dopo aver letto queste pagine, l’YMCA si proponga di insegnare ai giovanotti a non fare nulla. Se ciò accadesse davvero, non sarei vissuto invano.
Prima di esporre i miei argomenti in favore dell’ozio, vorrei eliminarne uno che non mi sento di accettare. Quando una persona ha mezzi sufficienti per vivere e tuttavia pensa di assumere un impiego qualsiasi (di insegnante o di segretario, ad esempio), si usa dire che tale persona toglie il pane di bocca agli altri e compie perciò un’azione malvagia. Se tale argomento fosse valido, basterebbe che tutti stessero in ozio perché ogni stomaco fosse pieno di pane. La gente che parla così dimentica che di solito gli uomini spendono quel che guadagnano, e spendendo danno lavoro agli altri, cioè mettono nelle loro bocche, spendendo, tanto pane quanto gliene tolgono guadagnando. Il vero malvagio, da questo punto di vista, è il risparmiatore. Chi mette i propri risparmi nella calza nega al prossimo possibilità di guadagno. Se invece li investe, la faccenda diventa meno ovvia e il discorso cambia.
Uno dei metodi più diffusi per investire i risparmi consiste nel darli in prestito a qualche governo. Considerando il fatto che la maggior parte dei governi civili spende un’altissima percentuale del denaro pubblico per pagare i debiti delle guerre passate e preparare le guerre future, chi presta quattrini allo Stato si trova press’a poco nella posizione di quell’infame personaggio di Shakespeare che prezzolava assassini. Insomma le abitudini economiche dell’uomo moderno hanno un solo risultato pratico, quello di aumentare il potenziale bellico dello Stato al quale egli presta i suoi risparmi. Ovviamente sarebbe meglio che li spendesse, sia pure ubriacandosi o giocando d’azzardo.
Mi si obietterà che la cosa è ben diversa quando i risparmi vengono investiti nell’industria. Se l’industria va a gonfie vele e produce qualcosa di utile, tutto bene. Ma di questi giorni molte industrie falliscono. Ciò significa che buona parte della fatica umana, che avrebbe potuto produrre qualcosa di piacevole, è stata sprecata per produrre macchine inoperose che non servono a nessuno. L’uomo che vede sparire i suoi risparmi in una bancarotta ha danneggiato gli altri oltreché se stesso. Se avesse speso i propri quattrini, supponiamo, nell’offrire splendide feste ai suoi amici, avrebbe fatto un gran piacere non soltanto a costoro, ma anche al macellaio, al pasticcere e al fornitore di liquori. Invece (è ancora una supposizione) li ha investiti in una impresa destinata a stendere una rete di rotaie in una cittadina che non ha bisogno di tram, e ha così contribuito a deviare una certa quantità di lavoro in un canale che non giova a nessuno. Ciò nonostante, quando sarà in miseria per colpa di quel pessimo investimento, tutti lo considereranno vittima di una sventura immeritata, mentre l’allegro prodigo, che ha speso filantropicamente il suo denaro, sarà disprezzato come un incosciente e uno scervellato.
Ma questa è soltanto una premessa. Io voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro.
Prima di tutto, che cos’è il lavoro? Vi sono due specie di lavoro: la prima consiste nell’alterare la posizione di una cosa su o presso la superficie della terra, relativamente a un’altra cosa; la seconda consiste nel dire ad altri di farlo. La prima specie di lavoro è sgradevole e mal retribuita; la seconda è gradevole e ben retribuita, ed anche suscettibile di infinite variazioni. Per esempio, non soltanto vi sono persone che danno ordini, ma anche persone che danno consigli circa gli ordini che bisogna dare. Di solito due gruppi organizzati di uomini danno simultaneamente due tipi di consigli opposti: ciò si chiama politica. Questo genere di lavoro richiede un talento particolare che non poggia sulla profonda conoscenza degli argomenti sui quali bisogna esprimere un parere, ma sulla profonda conoscenza dell’arte di persuadere gli altri con la parola o con gli scritti, cioè la pubblicità.
In tutta Europa, seppur non in America, vi è una terza classe di persone, molto più rispettate dei lavoratori delle due categorie. Costoro sono i proprietari terrieri, i quali riescono a far pagare ad altri il privilegio di esistere e di lavorare. I proprietari terrieri sono oziosi, e ci si potrebbe perciò aspettare che io ne tessa gli elogi. Purtroppo il loro ozio è reso possibile soltanto dal lavoro degli altri; dirò di più: il loro smodato desiderio di godersi i propri comodi è l’origine storica del vangelo del lavoro. L’ultima cosa al mondo che essi si augurino è di vedere imitato il loro esempio.
Dall’inizio della civiltà fino alla rivoluzione industriale, un uomo poteva, di regola, produrre con molto lavoro un po’ più di quanto fosse necessario al mero sostentamento di se stesso e della sua famiglia, sebbene sua moglie lavorasse almeno quanto lui e i suoi figli cominciassero a lavorare appena l’età glielo consentiva. Questo esiguo margine non rimaneva però a chi lo produceva, ma veniva incamerato dai guerrieri e dai preti. In tempi di carestia non era possibile produrre più del minimo indispensabile, ma guerrieri e preti pretendevano la loro parte come sempre, col risultato che molti lavoratori morivano di fame. Questo sistema restò in vigore in Russia fino al 1917 [E da allora, taluni membri del partito comunista sono riusciti ad assicurarsi lo stesso privilegio dei guerrieri e dei preti. (N.d.A.)], e sussiste ancora in Asia; in Inghilterra, nonostante la rivoluzione industriale, fiorì anche nel periodo delle guerre napoleoniche e fino a cento anni fa, quando una nuova classe di manufatturieri andò al potere. In America si estinse con la rivoluzione, fuorché negli Stati del Sud, dove perdurò fino alla guerra civile. Naturalmente un sistema praticato per tanti secoli ha lasciato una profonda impronta sui pensieri e sulle opinioni degli uomini. Molte idee che noi accettiamo ad occhi chiusi a proposito delle virtù del lavoro derivano appunto da tale sistema e non si adattano più al mondo moderno perché la loro origine è preindustriale. La tecnica moderna consente che il tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una comunità. L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi.
È ovvio che, nelle comunità primitive, i contadini lasciati liberi non si sarebbero privati dei prodotti in eccedenza a favore dei preti e dei guerrieri, ma avrebbero prodotto di meno o consumato di più. Dapprima fu necessaria la forza bruta per costringerli a cedere. Ma poi, a poco a poco, si scoprì che era possibile indurli ad accettare un principio etico secondo il quale era loro dovere lavorare indefessamente, sebbene una parte di questo lavoro fosse destinata al sostentamento degli oziosi. Con questo espediente lo sforzo di costrizione prima necessario si allentò e le spese del governo diminuirono. Ancor oggi, il novantanove per cento dei salariati britannici sarebbero sinceramente scandalizzati se gli si dicesse che il re non dovrebbe aver diritto a entrate più cospicue di quelle di un comune lavoratore. Il concetto del dovere, storicamente parlando, è stato un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere anche a se stessi questo fatto, convincendosi che i loro interessi coincidono con gli interessi dell’umanità in senso lato. A volte ciò è verissimo; i proprietari di schiavi ateniesi, ad esempio, impiegarono parte del loro tempo libero in modo da apportare un contributo di capitale importanza alla civiltà, contributo che non sarebbe stato possibile sotto un sistema puramente economico. L’ozio è essenziale per la civiltà e nei tempi antichi l’ozio di pochi poteva essere garantito soltanto dalle fatiche di molti. Tali fatiche avevano però un valore non perché il lavoro sia un bene, ma al contrario perché l’ozio è un bene. La tecnica moderna ci consente di distribuire il tempo destinato all’ozio in modo equo, senza danno per la civiltà.
La tecnica moderna infatti ha reso possibile di diminuire in misura enorme la quantità di fatica necessaria per assicurare a ciascuno i mezzi di sostentamento. Ciò fu dimostrato in modo chiarissimo durante la guerra. A quell’epoca tutti gli uomini arruolati nelle forze armate, tutti gli uomini e le donne impiegati nelle fabbriche di munizioni, tutti gli uomini e le donne impegnati nello spionaggio, negli uffici di propaganda bellica o negli uffici governativi che si occupavano della guerra, furono distolti dal loro lavoro produttivo abituale. Ciò nonostante, il livello generale del benessere materiale tra i salariati, almeno dalla parte degli alleati, fu più alto che in qualsiasi altro periodo. Il vero significato di questo fenomeno fu mascherato dalle operazioni finanziarie: si fece credere infatti che, mediante prestiti, il futuro alimentasse il presente. Il che, naturalmente, non era possibile; un uomo non può mangiare una fetta di pane che ancora non esiste. La guerra dimostrò in modo incontrovertibile che, grazie all’organizzazione scientifica della produzione, è possibile assicurare alla popolazione del mondo moderno un discreto tenore di vita sfruttando soltanto una piccola parte delle capacità di lavoro generali. Se al termine del conflitto questa organizzazione scientifica, creata per consentire agli uomini di combattere e produrre munizioni, avesse continuato a funzionare riducendo a quattro ore la giornata lavorativa, tutto sarebbe andato per il meglio. Invece fu instaurato di nuovo il vecchio caos: coloro che hanno un lavoro lavorano troppo, mentre altri muoiono di fame senza salario. Perché? Perché il lavoro è un dovere e un uomo non deve ricevere un salario in proporzione di ciò che produce, ma in proporzione della sua virtù che si esplica nello zelo.
Questa è l’etica dello Stato schiavistico, applicata in circostanze del tutto diverse da quelle che le diedero origine. Non c’è da stupirsi se il risultato è stato disastroso. Facciamo un esempio. Supponiamo che, a un certo momento, una certa quantità di persone sia impegnata nella produzione degli spilli. Esse producono tanti spilli quanti sono necessari per il fabbisogno mondiale lavorando, diciamo, otto ore al giorno. Ed ecco che qualcuno inventa una macchina grazie alla quale lo stesso numero di persone nello stesso numero di ore può produrre una quantità doppia di spilli. Il mondo non ha bisogno di tanti spilli, e il loro prezzo è già così basso che non si può ridurlo di più. Seguendo un ragionamento sensato, basterebbe portare a quattro le ore lavorative nella fabbricazione degli spilli e tutto andrebbe avanti come prima. Ma oggigiorno una proposta del genere sarebbe giudicata immorale. Gli operai continuano a lavorare otto ore, si producono troppi spilli, molte fabbriche falliscono e metà degli uomini che lavoravano in questo ramo si trovano disoccupati. Insomma, alla fine il totale delle ore lavorative è ugualmente ridotto, con la differenza che metà degli operai restano tutto il giorno in ozio mentre metà lavorano troppo. In questo modo la possibilità di usufruire di più tempo libero, che era il risultato di un’invenzione, diventa un’universale fonte di guai anziché di gioia. Si può immaginare niente di più insensato?
L’idea che il povero possa oziare ha sempre urtato i ricchi. In Inghilterra, agli inizi dell’ottocento, un operaio lavorava di solito quindici ore al giorno e spesso i bambini lavoravano altrettanto (nella migliore delle ipotesi dodici ore al giorno) . Quando degli impiccioni ficcanaso osarono dire che tante ore erano forse troppe, gli fu risposto che la sana fatica teneva lontani gli adulti dal vizio del bere e i bambini dai guai. Quand’ero piccolo, cioè poco dopo che gli operai di città conquistarono il diritto di voto, la legge istituì certe giornate festive, con grande indignazione delle classi ricche. Ricordo di aver udito questa frase dalla bocca di una vecchia duchessa: «Ma che se ne fanno i poveri delle vacanze? Tanto loro devono lavorare». Oggigiorno la gente parla con minore franchezza, ma questo modo di ragionare sussiste ed è fonte di una grande confusione economica.
Consideriamo per un momento apertamente e senza superstizioni l’etica del lavoro. Ogni essere umano, per necessità, consuma nel corso della sua vita una certa quantità del prodotto della umana fatica. Supponendo, come lo suppongo io ora, che la fatica sia in sostanza ben poco piacevole, è ingiusto che un uomo consumi più di quel che produce. Naturalmente egli può produrre servizi utili anziché beni materiali, facendo il medico, ad esempio, ma in ogni caso deve dare qualcosa in compenso di vitto e alloggio. Fino a questo punto, ma fino a questo punto soltanto, ammettiamo che il lavoro è un dovere.
Non insisterò sul fatto che in tutte le società moderne, al di fuori dell’URSS, molta gente riesce a risparmiarsi anche questo minimo di lavoro, in particolar modo coloro che ereditano quattrini o sposano i quattrini. Non penso però che il fatto che questa gente se ne stia senza far nulla sia dannoso quanto il credere che i salariati debbono spezzarsi la schiena lavorando o morire di fame.
Se il salariato lavorasse quattro ore al giorno, ci sarebbe una produzione sufficiente per tutti e la disoccupazione finirebbe, sempre che si ricorra a un minimo di organizzazione. Questa idea scandalizza la gente perbene, convinta che i poveri non sappiano che farsene di tanto tempo libero.
In America molti uomini lavorano intensamente anche quando hanno quattrini da buttar via; costoro, com’è naturale, si indignano all’idea di una riduzione dell’orario di lavoro; secondo la loro opinione l’ozio è la giusta punizione dei disoccupati; in effetti gli secca di vedere oziare i propri figli. Ma, cosa strana, mentre vorrebbero che i figli maschi lavorassero tanto da non aver il tempo di diventar persone civili, non gli importa affatto che la moglie e le figlie non facciano nulla dalla mattina alla sera. L’ammirazione snobistica per i disutili, che nella società aristocratica si estende ad ambedue i sessi, nella plutocrazia è limitata alle donne, in contrasto sempre più stridente col buon senso.
Bisogna ammettere che il saggio uso dell’ozio è un prodotto della civiltà e dell’educazione. Un uomo che ha lavorato per molte ore al giorno tutta la sua vita si annoia se all’improvviso non ha più nulla da fare. Ma, se non può disporre di una certa quantità di tempo libero, quello stesso uomo rimane tagliato fuori da molte delle cose migliori. Non c’è più ragione perché la gran massa della popolazione debba ora soffrire di questa privazione; soltanto un ascetismo idiota, e di solito succedaneo, ci induce a insistere nel lavorare molto quando non ve n’è più bisogno.[…]
Il fatto è che il modificare e spostare la materia, seppure, entro certi limiti, indispensabile alla nostra esistenza, non è assolutamente uno degli scopi della vita umana. Se lo fosse, un qualsiasi manovale dovrebbe essere considerato superiore a Shakespeare. A questo proposito siamo stati indotti a un equivoco da due ragioni. La prima è la necessità di gabbare i poveri, che ha indotto i ricchi, per migliaia di anni, a predicare la dignità del lavoro, mentre dal canto loro essi si comportavano in modo ben poco dignitoso sotto questo aspetto. L’altra è la gioia che ci procurano le macchine e la soddisfazione che proviamo nel vederle operare straordinari cambiamenti sulla faccia della terra. Direi che né l’una né l’altra esercitano un grande fascino sul comune lavoratore. Se gli chiedete qual è, secondo lui, la miglior parte della sua vita, è improbabile che vi risponda: «Sono felice quando mi applico al lavoro manuale perché sento di compiere uno dei più nobili compiti dell’uomo e perché mi piace sapere che l’uomo può far molto per trasformare questo pianeta. È vero che il mio corpo ha un certo bisogno di riposo che io devo pur soddisfare in qualche modo, ma non sono mai tanto felice come quando, al mattino, riprendo in mano gli attrezzi di lavoro». Non ho mai sentito un operaio dire una cosa del genere. Egli considera il suo lavoro al modo giusto, cioè come un mezzo necessario per procurarsi il sostentamento, e trova invece maggior gioia e soddisfazione nelle ore di riposo.
Bisogna però dire che, mentre un po’ di tempo libero è piacevole, gli uomini non saprebbero come riempire le loro giornate se lavorassero soltanto quattro ore su ventiquattro. Questo problema, innegabile nel mondo moderno, rappresenta una condanna della nostra civiltà, giacché non si sarebbe mai presentato nelle epoche precedenti. Vi era anticamente una capacità di spensieratezza e di giocosità che è stata in buona misura soffocata dal culto dell’efficienza. L’uomo moderno pensa che tutto deve essere fatto in vista di qualcos’altro e non come fine a se stesso. Le persone più serie, ad esempio, condannano l’abitudine di andare al cinema e ripetono di continuo che tale abitudine spingerà i giovani su una cattiva strada. Però tutto il lavoro necessario per fare i film è rispettabile appunto in quanto è un lavoro, e in quanto frutta quattrini. La convinzione che le attività auspicabili siano quelle che fruttano quattrini ha messo tutto sottosopra. Il macellaio che ti procura la carne e il fornaio che ti fornisce il pane sono persone degne di lode, perché guadagnano; ma se tu ti accontenti di assaporare il cibo che essi ti hanno procurato, sei una persona frivola, a meno che tu non intenda accumulare forze per lavorare. In altre parole, si ritiene che guadagnare quattrini sia un’ottima cosa e spenderli un vizio. Il che è assurdo, giacché si tratta dei due aspetti di una medesima transazione. Si potrebbe allora sostenere che le chiavi sono un bene e le serrature un male. Il merito insito nella produzione di beni sta unicamente nel vantaggio che si ottiene consumandoli. L’individuo, nella nostra società, lavora per un profitto, ma lo scopo sociale del suo lavoro sta nella consumazione di ciò che egli produce. Il divorzio tra l’individuo e lo scopo sociale della produzione rende invece molto difficile per gli uomini avere le idee chiare in un mondo dove assicurarsi profitti è un incentivo all’operosità. Pensiamo troppo a produrre e troppo poco a consumare. Ne deriva che diamo troppo poca importanza al godimento delle gioie più semplici, e non giudichiamo la produzione in base al piacere che dà al consumatore.
Quando propongo che le ore lavorative siano ridotte a quattro, ciò non implica che il tempo libero rimanente debba essere impiegato in frivolezze. Intendo semplicemente dire che quattro ore di lavoro al giorno dovrebbero poter assicurare a un uomo il necessario per vivere con discreta comodità, e che per il resto egli potrebbe disporre del suo tempo come meglio crede. In un sistema sociale di questo genere è essenziale che l’istruzione sia più completa di quanto lo è ora e che miri, in parte, ad educare e raffinare il gusto in modo che un uomo possa sfruttare con intelligenza il proprio tempo libero. Non alludo qui a quel genere di occupazioni che si usano definire «intellettuali». Le danze folcloristiche, ad esempio, sono praticate soltanto da pochi gruppi di volenterosi, ma gli impulsi che le fecero nascere debbono pur sempre esistere nella natura umana. I piaceri della popolazione urbana sono diventati soprattutto passivi: sedersi in un cinema, assistere a una partita di calcio, ascoltare la radio e così via. Questa è la conseguenza del fatto che tutte le energie attive si esauriscono nel lavoro. Se gli uomini lavorassero meno, ritroverebbero la capacità di godere i piaceri cui si partecipa attivamente.
In passato vi era una piccola classe di persone quasi oziose e una vasta classe di lavoratori. La prima godeva dei vantaggi che non sono nemmeno contemplati dalla giustizia sociale, ed era di conseguenza prepotente, godeva di scarse simpatie e doveva inventare delle teorie per giustificare i propri privilegi. Questi fattori diminuirono in modo rilevante la sua eccellenza; ciò nonostante si può dire che essa contribuì in modo quasi esclusivo a creare quella che noi chiamiamo civiltà. Fu questa classe che coltivò le arti e scoprì le scienze, che scrisse libri, inventò sistemi filosofici e raffinò i rapporti sociali. Persino la campagna per la liberazione degli oppressi partì generalmente dall’alto. Senza una classe oziosa, l’umanità non si sarebbe mai sollevata dalla barbarie.
Il sistema dell’ereditarietà, che permetteva all’aristocrazia di tramandare di padre in figlio privilegi senza doveri, implicò tuttavia un notevole spreco. Nessuno dei membri di quella classe aveva imparato ad essere operoso, e tutti, presi nel complesso, non erano eccezionalmente intelligenti. Tra loro poteva sì nascere un Darwin, ma sull’altro piatto della bilancia stavano decine di migliaia di gentiluomini di campagna che non avevano mai fatto nulla di più ingegnoso che cacciare la volpe o punire i bracconieri. Attualmente le università dovrebbero produrre in modo sistematico ciò che la classe aristocratica produsse accidentalmente e quasi per caso. Ciò rappresenta un bel passo avanti, ma ha i suoi inconvenienti. La vita universitaria è così diversa dalla vita reale in senso lato che chi vive in un milieu accademico finisce col non rendersi più conto delle preoccupazioni e dei problemi degli uomini e delle donne comuni; inoltre il modo di esprimersi dei professori universitari è tale da impedire che le loro opinioni abbiano l’influenza che meriterebbero sul grosso pubblico. Un altro svantaggio è che nelle università gli studi sono disciplinatissimi, e l’uomo che segua una linea originale di ricerca rischia di venire scoraggiato. Le istituzioni accademiche dunque, sebbene utili, non riescono a proteggere adeguatamente gli interessi della civiltà in un mondo dove al di fuori delle mura universitarie tutti sono troppo occupati nel perseguimento di scopi utilitari.
In un mondo invece dove nessuno sia costretto a lavorare più di quattro ore al giorno, ogni persona dotata di curiosità scientifica potrebbe indulgervi, ogni pittore potrebbe dipingere senza morire di fame, i giovani scrittori non sarebbero costretti ad attirare su se stessi l’attenzione con romanzacci sensazionali per procurarsi l’indipendenza necessaria alla produzione di opere geniali (che poi non scriveranno più perché, al momento buono, ne avranno perso il gusto e la capacità). Gli uomini che nel corso del lavoro professionale si siano interessati all’economia o ai problemi di governo, potrebbero sviluppare le loro idee senza quel distacco accademico che dà un carattere di impraticità a molte opere degli economisti universitari. I medici avrebbero il tempo necessario per tenersi al corrente dei progressi della medicina, e i maestri non lotterebbero disperatamente per insegnare con monotonia cose che essi hanno imparato nella loro giovinezza e che, nel frattempo, potrebbero essersi rivelate false.
Soprattutto ci sarebbe nel mondo molta gioia di vivere invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia. Il lavoro richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo libero, e non tanto pesante da esaurirci. E non essendo esausti, non ci limiteremmo a svaghi passivi e vacui. Almeno l’uno per cento della popolazione dedicherebbe il tempo non impegnato nel lavoro professionale a ricerche di utilità pubblica e, giacché tali ricerche sarebbero disinteressate, nessun freno verrebbe posto alla originalità delle idee. Ma i vantaggi di chi dispone di molto tempo libero possono risultare evidenti anche in casi meno eccezionali. Uomini e donne di media levatura, avendo l’opportunità di condurre una vita più felice, diverrebbero più cortesi, meno esigenti e meno inclini a considerare gli altri con sospetto. La smania di far la guerra si estinguerebbe in parte per questa ragione, e in parte perché un conflitto implicherebbe un aumento di duro lavoro per tutti. Il buon carattere è, di tutte le qualità morali, quella di cui il mondo ha più bisogno, e il buon carattere è il risultato della pace e della sicurezza, non di una vita di dura lotta. I moderni metodi di produzione hanno reso possibile la pace e la sicurezza per tutti; noi abbiamo invece preferito far lavorare troppo molte persone lasciandone morire di fame altre. Perciò abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo.
Bertrand Russell, da “Elogio dell’ozio”, 1935
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Immagine: Vincent van Gogh, “La siesta”, 1889-1890