La storia di Cassandra, la giovane donna che diceva la verità ma che non veniva creduta, non è affatto radicata nella nostra cultura come lo è invece quella del ragazzo che gridava «Al lupo! Al lupo!», la cui bugia all’inizio era stata creduta più di una volta. Forse, però, dovrebbe esserlo. Cassandra, bella sorella di Ettore e Paride, possedeva un dono disgraziato, quello di fare profezie esatte a cui nessuno prestava attenzione; la sua famiglia la considerava matta e bugiarda, e in certe versioni del mito la fece rinchiudere prima che Agamennone facesse di lei una schiava sessuale e il caso la conducesse a morte violenta insieme a lui. Nell’attraversare le acque agitate dei conflitti di genere, ho pensato a Cassandra perché la credibilità è un potere fondamentale in questo tipo di guerra e perché molto spesso le donne vengono accusate di essere decisamente carenti in questo settore. Una reazione non infrequente quando una donna dice qualcosa che mette in discussione un uomo, in particolare un uomo potente o aderente alle convenzioni (non un afroamericano, a meno che non abbia ottenuto la nomina alla Corte Suprema da un presidente repubblicano), o una istituzione, specialmente se ha qualcosa a che fare con il sesso, è non solo mettere in dubbio la verità delle sue asserzioni, ma la sua stessa facoltà di parola e il suo diritto a esprimersi. Generazioni di donne sono state bersagliate di accuse: di essere deliranti, confuse, manipolatorie, maligne, delle intriganti, di avere una tendenza innata alla disonestà, e spesso tutte queste cose insieme; la si potrebbe definire «sindrome di Cassandra». Uno degli aspetti che trovo interessanti è la veemenza con cui le si denigra e la frequenza con cui questa veemenza finisce per assumere tratti molto somiglianti alla incoerenza o isteria di cui le donne sono regolarmente accusate. Sarebbe bello se, per dire, Rush Limbaugh, che ha attaccato Sandra Fluke per la sua testimonianza a favore della necessità di sovvenzionare il controllo delle nascite dandole della sgualdrina e della prostituta, senza, a quanto pare, capire un accidente di come funzioni il controllo delle nascite – se Limbaugh, il re dei discorsi a vanvera, lui che di problemi ne ha davvero, lui che nervoso lo è perennemente, ogni tanto si sentisse dare dell’isterico. Ma il termine isterica ha quasi sempre avuto una connotazione di genere. È così che si sentì bollare Rachel Carson per il suo Primavera silenziosa, libro che è una pietra miliare sui pericoli dell’uso dei pesticidi. Carson aveva messo insieme un testo inattaccabile, basato su massicce ricerche bibliografiche e con una tesi di fondo oggi considerata profetica. Ma all’industria chimica non fece piacere, e il fatto di essere una donna fu, per dire così, il tallone di Achille di Carson: la si potrebbe definire la Cassandra dell’ecologia. Il 14 ottobre 1962 il Tucson Arizona Star recensiva il suo libro sotto il titolo «Troppa isteria nella denuncia di Primavera silenziosa». Quello stesso mese, in un articolo che rassicurava i lettori sull’assoluta innocuità dei pesticidi per gli umani, il Time Magazine definiva il libro di Carson «parziale, fazioso, drammatico in modo esagerato e isterico». «Molti scienziati vedono con favore l’attaccamento mistico di Miss Carson all’equilibrio della natura» concedeva la rivista, «ma temono che l’emotività e l’inaccuratezza del suo sfogo possano fare danni». Fra parentesi, anche Carson era una scienziata.
Parole spezzate e paioli rotti
La parola isteria deriva dal termine greco che significa «utero», e un tempo era considerata un effetto dell’instabilità uterina; gli uomini erano esentati in maniera categorica da questa condizione che oggi sta a indicare semplicemente un atteggiamento di incoerenza, di forte agitazione o magari di confusione. Alla fine dell’Ottocento le diagnosi di isteria femminile erano la normalità. Pare che le donne descritte come isteriche, le cui sofferenze furono mostrate pubblicamente da Jean-Martin Charcot, maestro di Sigmund Freud, in certi casi fossero state vittime di abusi, del trauma che ne seguiva e dell’impossibilità di raccontarne la causa. Il giovane Freud ebbe una serie di pazienti con problematiche che sembravano scaturire da abusi sessuali subiti nell’infanzia. Ciò che dicevano era letteralmente inesprimibile a parole: ancora oggi i casi più gravi di traumi vissuti in guerra o nella sfera familiare rappresentano una tale profanazione dei costumi sociali e della psiche della vittima che parlarne, o persino disseppellirli dagli angoli oscuri della mente dove spesso sono stati riposti, procura un’enorme sofferenza. La violenza sessuale, come la tortura, è un attacco al diritto della vittima all’integrità corporea, alla sua autodeterminazione e all’espressione di sé. È qualcosa che annichilisce, che zittisce. Dopo essere stata messa a tacere, la vittima è esortata a parlare sia dai rappresentanti della legge che dalla terapia della parola. Raccontare e ottenere il riconoscimento e il rispetto di ciò che è accaduto e di colui o colei che lo racconta costituisce ancora uno dei metodi più efficaci per il superamento di un trauma. Le pazienti di Freud, sorprendentemente, riuscirono a trovare un modo per raccontare i traumi subiti, e all’inizio Freud stette ad ascoltarle. Nel 1896 scriveva: «Dunque, la mia teoria è che alla base di tutti i casi di isteria vi siano uno o più casi di esperienze sessuali precoci». In una lettera a un collega scrisse che, dando fede alle sue pazienti, «in tutti i casi è il padre, incluso il mio, a dover essere accusato di essere un pervertito». In seguito, però, Freud rinnegò le sue scoperte. Come scrive la psichiatra femminista Judith Herman nel suo saggio Guarire dal trauma: «La sua corrispondenza evidenzia le sue crescenti preoccupazioni riguardo alle implicazioni sociali troppo radicali della sua ipotesi.[…] Di fronte a questo dilemma, Freud smise di ascoltare le sue pazienti». Se stavano dicendo la verità, per sostenerle Freud avrebbe dovuto mettere in discussione l’intero edificio dell’autorità patriarcale. Più oltre, Herman aggiunge: «Con una perseveranza ostinata che lo condusse a una grande involuzione teorica, egli affermò che le donne immaginavano e desideravano gli abusi sessuali di cui si lamentavano». Fu come se fosse stato costruito un comodo alibi per ogni forma di autorità trasgressiva, per tutti i maschi che commettevano un crimine contro le donne. Lei lo desiderava. Lei se lo è immaginato. Lei non sa cosa sta dicendo. E quegli schemi sono rimasti tra noi. «È pazza» è l’usuale eufemismo per dire «Mi sento in difficoltà».
Rebecca Solnit, da “Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile”, 2014
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Nell’immagine: Anthony Frederick Augustus Sandys, “Cassandra”, 1885