Forse è vero che con i classici, o miti che dir si voglia, gli incontri diretti e reali avvengono dopo: dopo che ne abbiamo sentito parlare, dopo che ce li hanno raccontati, dopo che ne abbiamo visto trasposizioni e citazioni, dopo che sono entrati a far parte del nostro linguaggio o del nostro immaginario.
Con Alice, curiosamente (se non ricordo male è proprio l’aggettivo curioso a ricorrere più spesso nel testo), il percorso può addirittura essere duplice, o molteplice, il che credo sarebbe piaciuto molto al reverendo Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll. Nel senso che può capitare di avere letto il libro da bambini, e di essersene completamente dimenticati, o di non averlo amato affatto (troppo misterioso, troppo inquietante); oppure di averlo amato moltissimo, perfino eccessivamente, al punto da rifiutarsi di mangiare coniglio (vane le giustificazioni degli adulti sul colore del pelo della vittima in oggetto) o da manifestare terrore nei confronti delle carte da gioco e diffidenza verso le figure degli scacchi. O ancora, di averlo amato e apprezzato «il giusto», senza particolari sconvolgimenti, e di essere rimasti folgorati, anni dopo, nel ritrovarne improvvisa memoria in situazioni e ambiti diversissimi e insospettabili.
Per esempio, studiando Jacques Lacan e la sua teoria sull’âge du miroir. O comprendendo per la prima volta fino in fondo il senso di un’odiosa affermazione dell’odiosissimo Humpty Dumpty, il quale afferma di infischiarsene del presunto significato dei vocaboli di uso comune: «Quando io uso una parola, questa assume il significato che io decido: io, le parole, le pago». Sembra scritto da Michele Serra ieri, o dopodomani, e invece l’ha scritto un mite diacono inglese, centocinquant’anni fa.
Alice e la sua curiosità. Alice e il suo coraggio, la sua determinazione ad andare avanti comunque, a tutti i costi, pur di scoprire un altro pezzo di mondo, perché «io indietro non ci voglio andare» («Non faremo un passo indietro neppure per prendere la rincorsa»: mica per niente l’emittente che alla fine degli anni Settanta infiammava le piazze bolognesi, e non solo quelle, si chiamava Radio Alice).
Alice che non avrebbe potuto essere altro che una donna, e non soltanto per le predilezioni non sempre limpidissime del suo tormentato autore (il «casto pedofilo», come l’ha definito qualcuno, ha più volte affermato di amare tutti i bambini del mondo, a parte i maschi); non soltanto per le sue virtù, ma anche per i suoi difetti, o debolezze, prima fra tutte la costante sensazione di essere inadeguata, inadatta, «sbagliata»:
O troppo alta, o troppo bassa,
le dici magra, si sente grassa,
son tutte bionde, lei è corvina,
vanno le brune, diventa albina.
Troppo educata! piaccion volgari!
Troppo scosciata per le comari!
Sei troppo colta e preparata,
intelligente e qualificata,
il maschio è fragile, non lo umiliare,
se sei più brava non lo ostentare!
Sei solo bella ma non sai far niente,
guarda che oggi l’uomo è esigente,
l’aspetto fisico più non gli basta,
cita Alberoni e butta la pasta.
Troppi labbroni, non vanno più!
Troppo quel seno, buttalo giù!
Sbianca la pelle, che sia di luna
Se non ti abbronzi, non sei nessuna!
L’estate prossima, con il cotone
tornan di moda i fianchi a pallone,
ma per l’inverno, la moda detta,
ci voglion forme da scolaretta.
Piedi piccini, occhi cangianti,
seni minuscoli, anzi, giganti!
Alice assaggia, pilucca, tracanna,
prima è due metri poi è una spanna
Alice pensa, poi si arrabatta,
niente da fare, è sempre inadatta
Alice morde, rosicchia, divora,
ma non si arrende, ci prova ancora.
Alice piange, trangugia, digiuna,
è tutte noi,
è se stessa, è nessuna.
Questa filastrocca – perdonate l’autocitazione – l’ho scritta per la mia versione teatrale di Alice, e non ne sarei mai stata capace senza la frequentazione assidua e benefica del suo autore: è stata la sua vertiginosa, travolgente capacità di giocare con le rime e i ritmi, a farmi osare tanto. L’ho pensata come un omaggio all’arte inarrivabile di questo diacono diafano, coltissimo, malinconico e geniale, e alla sua passione assoluta per le parole, per i giochi e le danze che con le parole si possono inventare. Alice vive di parole, si nutre di parole, parla sempre, non tace mai – un po’ come il ciuchino di Shrek, per capirci. E visto che siamo in argomento, forse non è un caso che proprio Alice in Wonderland sia stato, a detta di molti, forse il più geniale e visionario tra i film di Walt Disney. Come non può essere un caso che abbia ispirato alcuni tra i più grandi registi contemporanei, da Wim Wenders (Alice nelle città), a Martin Scorsese (Alice non abita più qui), da Woody Allen (Alice) ad Arthur Penn e quel suo Alice’s restaurant che fu anche un grande successo musicale di Arlo Guthrie. Stesso titolo ma tutt’altra storia per la versione nostrana, nella quale Maurizio Vandelli dichiarava sconsolato «nel ristorante di Alice stasera nessuno è felice»: il fatto è che l’Equipe 84 ha sempre avuto un rapporto conflittuale con i locali pubblici, basti pensare al casino che ha combinato il suddetto cantante solista quando, seduto in quel caffè, non pensava a lei…
Alice come nome, dunque, prima ancora o forse a prescindere dal personaggio: nome amatissimo e popolare giusto da una quarantina d’anni a questa parte, e infatti a portarlo sono soprattutto le nostre figlie sorelle nipoti.
Alice come metafora amatissima della possibilità di cambiare il mondo, di dare potere alla fantasia, e soprattutto, forse, di domare il tempo. Perché il tempo di Alice è elastico, circolare, vagabondo; è un presente continuo, va e torna, lo si può governare a piacimento, riavvolgere all’indietro o dilatare all’infinito; il tempo di Alice è sempre per sempre, è essere bambini e adulti insieme, impastati della materia di cui sono fatti i sogni, è sognare ed essere sognati; è farla finita una volta per tutte con la trappola mortale della cronologia, e dell’irreversibilità, e dell’unidirezionalità, e «una cosa alla volta», e «un passo dopo l’altro», e «ogni cosa a suo tempo», e «ogni stagione ha i suoi frutti»: non è vero! Time is always now, Time is on my side, We have all the time in the world…
Il tempo è una convenzione, il tempo è un gioco: «Battere il tempo? Ingannare il tempo? Ma Alice, immagino tu non abbia mai neppure parlato con il tempo!» «Secondo te, bambina, qualcuno avrebbe ammazzato il tempo?» «Avresti dovuto vedere il tempo che c’era ai miei tempi…»
Oh sì, avremmo dovuto, avremmo volto vederlo, quel tempo. E se ancora oggi almeno un po’ ci riusciamo, è grazie a un diacono inglese talmente affascinato da una ragazzina da dedicarle un capolavoro immortale e un segmento di anima, per sempre: «Mia cara Alice, per riuscire a dimenticarti sono andato a lezione di oblio».
Molti e autorevoli critici ed esegeti hanno definito quello di Alice un viaggio, e a buon titolo: viaggio fantastico, viaggio metaforico, viaggio simbolico, viaggio fiabesco, viaggio onirico. Un viaggio meraviglioso e meravigliante che comincia un giorno di tanto tempo fa, e comincia con un buco nella terra che conduce in un luogo sotterraneo pieno di simboli misteriosi e di personaggi inquietanti. E se comincia così, i casi sono due: o è la Divina Commedia oppure è Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Lella Costa