“Mi chiamano il mago Cotrone. Vivo modestamente di questi incantesimi. Li creo. E ora, stiano a vedere. Nero! Questo nero la notte pare io faccia per le lucciole, che volando – non s’indovina dove – ora qua ora là vi aprono un momento quel loro languido sprazzo verde. Ebbene, guardino:… là… là… là… (…)
Lucciole! Le mie. Di mago. Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa. (…)
Se la ajutano a entrare in un’altra verità, lontana dalla sua, pur così labile e mutevole… rimanga, rimanga così lontana e si provi un po’ a guardare come questa vecchietta che ha veduto l’Angelo. Non bisogna più ragionare. Qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere. Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per disperazione ci viene di cangiarle. Disperazione a modo nostro, badiamo! Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? mitologiche; naturalissime, dato il genere della nostra esistenza. Non si può campare di niente; e allora è una continua sborniatura celeste. Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi. (…)
Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi. (…)
Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venir fuori dal segreto dei sensi, o a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto. Ne inventai tante al paese, che me ne dovetti scappare, perseguitato dagli scandali. Mi provo ora qua a dissolverle in fantasmi, in evanescenze. Ombre che passano. Con questi miei amici m’ingegno di sfumare sotto diffusi chiarori anche la realtà di fuori, versando, come in fiocchi di nubi colorate, l’anima, dentro la notte che sogna. (…)
Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù, cose tutte che le bestie, per grazia di Dio, ignorano nella loro beata innocenza. Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze. Guardiamo alla terra, che tristezza! C’è forse qualcuno laggiù che s’illude di star vivendo la nostra vita; ma non è vero. Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede; ma nell’anima che parla chi sa da dove; nessuno può saperlo: apparenza tra apparenza, con questo buffo nome di Cotrone… e lui, di Doccia… e lui, di Quaquèo… Un corpo è la morte: tenebra e pietra. Guaj a chi si vede nel suo corpo e nel suo nome. Facciamo i fantasmi. Tutti quelli che ci passano per la mente. Alcuni sono obbligati. Ecco, per esempio quello della Scozzese con l’ombrellino. O quello del Nano con la cappa turchina. Specialità della villa. Gli altri son tutti di nostra fantasia. Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza. Ebbene, signori, vi dico come si diceva un tempo ai pellegrini: sciogliete i calzari e deponete il bordone. Siete arrivati alla vostra mèta. Da anni aspettavo qua gente come voi per far vivere altri fantasmi che ho in mente. Ma rappresenteremo anche la vostra «Favola del figlio cambiato», come un prodigio che s’appaghi di sé, senza più chiedere niente a nessuno.”
Luigi Pirandello, da “I giganti della montagna” (Mito incompiuto in tre atti – Atto secondo), 1937
Composto probabilmente intorno al 1933, ma rimasto incompiuto, il dramma è basato su una delle “Novelle per un anno” (“Lo storno e l’Angelo Centuno”, del 1910)
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Immagine: Fortebraccio teatro