Affabulazioni

I pesci non chiudono gli occhi

28.05.2022

“Si voltò verso di me. Per istinto volevo girarmi dalla parte opposta, ma una forza imprevista mi girò testa e collo dalla parte sua. Si fermò la parlantina che mi era uscita facile mentre non la guardavo.

Era così bellissima vicina, le labbra appena aperte. Mi commuovono quelle di una donna, nude quando si accostano a baciare, si spogliano di tutto, dalle parole in giù.

“Chiudi quei benedetti occhi di pesce.”

“Ma non posso. Se tu vedessi quello che vedo io, non li potresti chiudere.”

“Da dove ti spuntano questi complimenti, piccolo giovanotto?”

“Che complimenti? Dico quello che vedo.”

“Ora basta.” Mi passò le dita sopra gli occhi e poi con quelle dita scese ai lati del naso, passando per la bocca, fino al mento. E mi posò le labbra sulla bocca mezza aperta dalla meraviglia.

“Meraviglia,” dissi quando si staccò, facendolo pianissimo.

“Questo era tuo. Te lo chiedo ancora, ti piace l’amore?”

“Be’ sì, se è questo, sì.” Pensai che avrei capito tutti i libri da quel momento in poi.

Se ne aggiunsero ancora, di baci tra le barche. Dopo ognuno mi accorgevo di crescere, più delle ferite. Non chiedeva più di chiudere gli occhi. Vedevo le sue palpebre abbassarsi, e poi serrarsi al momento preciso del contatto di labbra. Mi passò anche le dita tra i capelli, mi studiava la faccia, le spuntava un sorriso e poi di nuovo un bacio. Le mani si facevano carezze.

Restammo seduti di fianco, le ginocchia tirate su. I baci spingevano dai talloni puntati nella sabbia. Risalivano le vertebre fino alle ossa del cranio, fino ai denti. Ancora oggi so che sono il più alto traguardo raggiunto dai corpi. Da lassù, dalla cima dei baci si può scendere poi nelle mosse convulse dell’amore.

Scorro da molto tempo sopra scritture sacre, senza spunto di fede. Nella lettura gusto l’alfabeto antico, la mia conoscenza avviene nella bocca. L’ebraico antico gira come un boccone tra lingua, saliva, denti e sella di palato. Aperto a ogni risveglio, è un avanzo di manna, prende i gusti desiderati sul momento, come succede ai baci.

La prima coppia umana, creata in un giardino il giorno sesto, ebbe sopra di sé la prima notte sconfinata. A loro insaputa spuntò nei corpi l’appetito, la sete, l’entusiasmo e il sonno. La prima notte, sconosciuta, sembrò a loro il resto del giorno uno, sbriciolato in puntini luce.

Non sapevano se sarebbe tornato il sole, allora si abbracciarono. Le bocche si trovarono accanto e inventarono il bacio, il primo frutto della conoscenza. Era mercurio quella conoscenza, un liquido sensibile alla temperatura dei corpi. So quella prima volta perché l’ho avuta anch’io quell’ora sulla bocca, nel loro identico istante, su una sabbia di mare, il cielo scoperchiato sulla testa.

La stanza tra le barche fu schiarita dalla luna salita sulla prua di fronte.

Ci staccammo, le labbra intorpidite. La via verso le case fu alla cieca, perdendola affiancati. A un bivio ci  separammo, sciogliendoci le mani senza necessità di altro saluto. Eva e lo sposo suo, usciti dal giardino, avevano già avuto tutto il bene del mondo. La vita aggiunta dopo, lontano da quel posto, è stata una divagazione.

Adesso e qui sta bene la parola fine, sorella minore di confine e di finestra chiusa.”

 

*****

 

“Piangevo, cantavo, mosse clandestine. Attraverso i libri di mio padre imparavo a conoscere gli adulti dall’interno. Non erano i giganti che volevano credersi. Erano bambini deformati da un corpo ingombrante. Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili. Potevo anticipare le loro mosse, a dieci anni ero un meccanico dell’apparecchio adulto. Lo sapevo smontare e rimontare.
Di più mi dispiaceva la distanza tra le loro frasi e le cose. Dicevano, anche solo a se stessi, parole che non mantenevano. Mantenere: a dieci anni era il mio verbo preferito. Comportava la promessa di tenere per mano, mantenere. Mi mancava. Papà s’infastidiva in città a prendere per mano, per strada non voleva, se provavo si liberava infilandosela in tasca. Era una respinta che mi insegnava a stare al posto mio. Lo capivo perché leggevo i suoi libri e sapevo i nervi e i pensieri che stavano alle spalle delle mosse.”
“Conoscevo gli adulti, tranne un verbo che loro esageravano a ingrandire: amare. Mi infastidiva l’uso. In prima media lo studio della grammatica latina l’adoperava per esempio di prima coniugazione, con l’infinito in -are. Recitavamo tempi e modi dell’amare latino. Era un dolciume obbligatorio per me indifferente alla pasticceria. Più di tutto mi irritava l’imperativo: ama.”
“Al culmine del verbo gli adulti si sposavano, oppure si ammazzavano. Era responsabilità del verbo amare il matrimonio dei miei genitori. Insieme a mia sorella eravamo un effetto, una delle bizzarre conseguenze della coniugazione. A causa di quel verbo litigavano, stavano zitti a tavola, i bocconi facevano rumore.
Nei libri c’era traffico fitto intorno al verbo amare. Da lettore lo consideravo un ingrediente delle storie, come ci stava bene un viaggio, un delitto, un’isola, una belva. Gli adulti esageravano con quell’antichità monumentale, ripresa tale e quale dal latino. L’odio sì, lo capivo, era un contagio di nervi tirati fino al carico di rottura. La città se lo mangiava l’odio, se lo scambiava col buongiorno di strilli e di coltelli, se lo giocava al lotto. Non era quello di adesso, aizzato contro i pellegrini del Sud, meridionali, zingari, africani. Era odio di mortificazioni, di calpestati in casa e appestati all’estero. Quell’odio metteva aceto nelle lacrime.”
“Intorno a me non lo vedevo e non lo conoscevo il verbo amare. Avevo appena letto il Don Chisciotte intero e mi ero confermato. Dulcinea era latte cagliato nel cervello del cavaliere eroico. Non era dama e si chiamava Aldonza. Ho saputo poi che per i lettori è un libro divertente. Lo prendevo alla lettera e mi faceva piangere di rabbia la batosta che doveva subire a ogni capitolo.
I suoi cinquant’anni arditi e rinsecchiti erano per me a quel tempo l’età di cornicione per chi rasenta l’abisso da sonnambulo. Temevo per Chisciotte da un capitolo all’altro. Giusto la mia malizia di lettore mi rassicurava: il libro conteneva pagine davanti a centinaia, non poteva morire nelle prime. Mi faceva lacrime di rabbia lo scrittore che ammaccava di colpi la sua creatura. E dopo le bastonate, le sconfitte, a maggior penitenza gli spalancava gli occhi, lo squarcio di un momento, per fargli vedere la realtà miserabile com’era. E invece aveva ragione lui, Chisciotte, secondo i miei dieci anni: niente era come sembrava. L’evidenza era un errore, c’era ovunque un doppio fondo e un’ombra.”
Erri De Luca, da “I pesci non chiudono gli occhi”, 2011

 

 

Nell’immagine: Annibale Ticinese, “Idillio”, 1907

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