PROLOGO
Dovete ascoltarmi
Io andai cantando errante
tra l’uva
d’Europa
e sotto il vento,
sotto il vento nell’Asia.
Il meglio delle vite
e la vita,
la dolcezza terrestre,
la pace pura,
andai raccogliendo, errante,
raccogliendo.
Il meglio di una terra
e un’altra terra
io innalzai sulla mia bocca
col mio canto:
la libertà del vento,
la pace tra l’uva.
Sembravano gli uomini
nemici,
ma la stessa notte
li copriva
ed era un solo chiarore
quello che li risvegliava:
il chiarore del mondo.
lo entrai nelle case quando
stavano a tavola,
venivano dalle fabbriche,
ridevano o piangevano.
Tutti erano uguali.
Tutti avevano occhi
rivolti alla luce, cercavano
le strade.
Tutti avevano bocca,
cantavano
verso la primavera.
Tutti.
Per questo
io cercai fra l’uva
e il vento
il meglio degli, uomini.
Ora dovete ascoltarmi.
I
L’UVA D’EUROPA
I – Solo l’uomo
Io attraversai le ostili
cordigliere,
tra gli alberi passai a cavallo.
L’humus ha lasciato
sulla terra
il suo tappeto di mille anni.
Gli alberi si toccano in alto,
nell’unità fremente.
Sotto, oscura è la selva.
Un volo breve, un grido
l’attraversano,
gli uccelli del freddo,
le volpi dall’elettrica coda,
una gran foglia che cade,
e il mio cavallo calpesta il molle
letto dell’albero addormentato,
ma sotto la terra
gli alberi di nuovo
s’intendono e si toccano.
La selva è una sola,
un solo gran pugno di profumo,
una sola radice sottoterra.
Le spine mi mordevano,
le dure pietre ferivano il mio cavallo,
il gelo cercava sotto le mie vesti lacere
il mio cuore per donargli canti e addormentarlo.
I fiumi che nascevano
sotto i miei occhi scendevano rapidi
e volevano uccidermi.
All’improvviso un albero ostruiva la strada
come se avesse
cominciato a camminare e allora
lo avesse abbattuto
la selva, e lì stava,
grande come mille uomini,
pieno di capigliature,
pullulante d’insetti,
marcito dalla pioggia,
ma dalla morte
voleva trattenermi.
Io superai l’albero,
lo tagliai con l’accetta,
accarezzai le sue foglie belle come mani,
toccai le poderose
radici che molto più di me
conoscevano la terra.
Io passai sull’albero,
attraversai tutti i fiumi,
la spuma mi trascinava,
le pietre mi mentivano,
l’aria verde che creava
gemme a ogni istante
attaccava la mia fronte,
bruciava le mie ciglia.
Io attraversai le alte cordigliere
perché con me un uomo,
un altro uomo, un uomo
andava con me.
Non venivano gli alberi,
non andava con me l’acqua
vertiginosa che volle uccidermi,
non la terra spinosa.
Solo l’uomo,
solo l’uomo stava con me.
Non le mani dell’albero,
belle come volti, né le gravi
radici che conoscono la terra
mi aiutarono.
Solo l’uomo.
Non so come si chiama.
Era povero come me, aveva
occhi come i miei, e con quelli
trovava la strada
perché un altro uomo passasse.
E sono qui.
Per questo esisto.
Credo
che non ci riuniremo in alto.
Credo
che sottoterra nulla ci attende,
ma sulla terra
andiamo insieme.
La nostra unità è sulla terra.
II – II fiume
Io arrivai a Firenze. Era
notte. Tremai ascoltando
quasi addormentato quel che il dolce fiume
mi narrava. Io non so
quel che dicono i quadri e i libri
(non tutti i quadri né tutti i libri,
solo alcuni),
ma so ciò che dicono
tutti i fiumi.
Hanno la mia stessa lingua.
Nelle terre selvagge
l’Orinoco mi parla
e capisco, capisco
storie che non posso ripetere.
Ci sono segreti miei
che il fiume si è portato,
e quel che mi chiese lo sto facendo
a poco a poco sulla terra.
Riconobbi nella voce dell’Arno allora,
vecchie parole che cercavano la mia bocca,
come colui che mai conobbe il miele
e sente che riconosce la sua delizia.
Così ascoltai le voci
del fiume di Firenze,
come se prima d’essere mi avessero detto
ciò che ora ascoltavo:
sogni e passi che mi univano
alla voce del fiume,
esseri in movimento,
colpi di luce nella storia,
terzine accese come lampade.
Il pane e il sangue cantavano
con la voce notturna dell’acqua.
III – La città
E quando a Palazzo
Vecchio,
bello come un’agave di pietra,
salii gli scalini consunti,
attraversai le antiche sale,
e venne a ricevermi
un operaio,
a capo della città, del vecchio fiume,
delle case intagliate come in pietra di luna,
io non mi sorpresi:
la maestà del popolo governava.
E guardai dietro la sua bocca,
i fili risplendenti
degli arazzi,
la pittura che da queste strade tortuose
uscì a mostrare il fiore della bellezza
a tutte le strade del mondo.
La cascata infinita
che il soave poeta di Firenze
fece cadere sempre
senza che possa morire,
perché di fuoco rosso e acqua verde
sono fatte le sue sillabe.
Tutto dietro la sua testa di operaio
io scorsi. Ma non era,
dietro di lui, l’aureola
del passato suo splendore:
era la semplicità del presente.
Come un uomo,
dal telaio o l’aratro,
dalla fabbrica oscura,
salì le scale
col suo popolo
e nel Vecchio Palazzo, senza seta e senza spada,
il popolo, lo stesso
che attraversò con me il freddo
delle catene andine,
stava lì. D’improvviso,
dietro la sua testa,
vidi la neve,
i grandi alberi che in alto si unirono
e qui, di nuovo
sulla terra,
mi riceveva con un sorriso
e mi dava la mano,
la stessa
che mi mostrò la strada
laggiù sulle ferruginose
montagne ostili che io vinsi.
E qui non era la pietra
convertita in miracolo, né la luce
procreatrice, né il beneficio azzurro della pittura,
né tutte le voci del fiume
che mi diedero la cittadinanza
della vecchia città di pietra e d’argento,
ma un operaio, un uomo,
come tutti gli uomini.
Perciò credo
ogni notte nel giorno,
e quando ho sete credo nell’acqua,
perché credo nell’uomo.
Credo che stiamo salendo
l’ultimo gradino.
Da lì vedremo
a verità ripartita,
la semplicità impiantata sulla terra,
il pane e il vino per tutti.
IV – Deviando il fiume
Fu nell’estate della Romania, acciaio
verde delle pinete verso il mare,
e verso il mare incontrai un fiume che scorreva:
il Danubio giallo della Romania.
Tuttavia non scorreva
per volontà di fiume,
bensì perché l’uomo gli stava aprendo la strada.
L’uomo lo costringeva,
lo attaccava con mani violente
che scavavano la terra.
La dinamite alzava
nuvole di fumo di color violetto.
Si scuoteva la vita
del fiume, e scorreva.
Per altre regioni marciava.
Senza volere continuava a scorrere,
fertilizzando sabbie,
partorendo frutta e frumento.
Il fiume non voleva,
ma, da dietro, l’uomo
lo costringeva,
gli frustava le anche,
lo colpiva nella schiuma,
lo frenava e lo vinceva,
e verso un altro lato del mare marciava il fiume
e con il fiume marciava la vita.
Io vidi i ragazzi macchiati
di polvere e sudore, piccoletti
di fronte alla terra ostile e sterile,
orgogliosi e piccoletti,
aprendo il cammino del fiume,
e mostrandomi la centrale
futura della forza, quando
l’acqua darà la luce
in quelle regioni oscure.
Li vidi, li toccai. Io credo
che i grandi dei di una volta
somigliavano ai bambini
sorridenti che correggevano
il corso giallo del fiume
perché domani comparissero
le nuove uve nella terra.
V – I frutti
Dolci olive verdi di Frascati,
polite come puri capezzoli,
fresche come gocce d’oceano,
concentrata, terrena essenza!
Dalla vecchia terra
scavata con le unghie e cantata,
rinnovati ogni primavera,
con la stessa malta
degli esseri umani,
con la stessa materia
della nostra eternità, perituri
e nascituri, ripetuti
e nuovi, oliveti
delle secche terre d’Italia,
dal generoso ventre
che con dolore
continua a partorire delizia.
Quel giorno l’oliva,
il vino novello,
la canzone del mio amico,
il mio amore lontano,
la terra bagnata,
tutto così semplice,
così eterno
come il chicco di grano,
lì a Frascati
i muri bucherellati
dalla morte,
gli occhi della guerra alle finestre,
Però la pace mi riceveva
con un sapore d’olio e di vino,
mentre tutto era semplice come il paese
che mi offriva
il suo tesoro verde:
le piccole olive,
freschezza, sapore puro,
misura deliziosa,
capezzolo del giorno azzurro,
amore terrestre.
VI – I ponti
Nuovi ponti di Praga, siete nati
nella vecchia città, rosa e cenere,
affinché l’uomo nuovo
passi il fiume.
Mille anni consumarono gli occhi
degli dei di pietra
che dal vecchio Ponte Carlo
hanno visto andare e venire e non tornare
le vecchie vite,
da Malá Strana i piedi che verso Moravia
si diressero, gli affaticati
piedi del tempo,
i piedi del vecchio cimitero ebraico
sotto venti cappe di tempo e polvere
passarono e ballarono sopra il ponte,
mentre le acque color di fumo
scorrevano dal passato, verso la pietra.
Moldava, poco a poco
ti stavi diventando statua,
statua grigia di un fiume che moriva
con la sua vecchia corona di ferro sulla fronte,
tuttavia all’improvviso il vento
della storia scuote
i tuoi piedi e le tue ginocchia,
e canti, fiume, e balli, e cammini
con una nuova vita.
Le officine lavorano in altro modo.
Il ritratto dimenticato
del popolo nelle finestre
sorride salutando,
e ecco ora
i nuovi ponti:
la chiarezza li riempie,
la sua rettitudine invita
e dice: “Popolo, avanti,
verso tutti gli anni che vengono,
verso tutte le terre del frumento,
verso il tesoro scuro della miniera
ripartito fra tutti gli uomini”.
E scorre il fiume
sotto i nuovi ponti
cantando con la storia
parole pure
che riempiranno la terra.
Non sono piedi invasori quelli che attraversano
i nuovi ponti, né i crudeli carri
dell’odio e della guerra:
sono i piedi piccoli dei bambini, fermi
passi di operaio.
Sopra i nuovi ponti
passi, oh primavera,
con la tua cesta di pane ed il tuo vestito fresco,
mentre l’uomo, l’acqua, il vento
appaiono cantando.
VII – Picasso
A Vallauris in ciascuna casa
c’è un prigioniero.
È sempre lo stesso.
È il fumo.
A turno lo vigilano
Padri dalle sopracciglia bianche,
ragazze di colore avena.
Quando passi
Guarda se i guardiani
del fumo
hanno dormito,
e per i tetti, tra recipienti rotti,
una conversazione azzurra
tra il cieli ed il fumo.
Tuttavia nel luogo ove lavora
in libertà il fuoco,
e il fumo è una rosa di catrame
che ha tinto di nero le pareti,
lì Picasso,
tra le linee e l’inferno,
con il suo pane di argilla,
cuocendolo,
pulendolo, rompendolo
finché l’argilla prende vita,
petalo di sirena,
chitarra di oro bagnato.
Ed allora con un pennello lo liscia,
e viene l’oceano
o la vendemmia.
L’argilla consegna il suo grappolo occulto
e alla fine immobilizza il suo fianco calcareo.
Poi Ricasso torna al suo laboratorio.
I piccoli centauri che sperano
Cresca, galoppano.
Il silenzio è nato
Nelle mammelle
Della capra di ferro.
E un’altra volta Picasso nella sua grotta
Entra o esce lasciando
Pareti graffiate,
stalattiti rosse
impronte genitali.
E durante le ore che seguono
parla con un barbiere.
VIII – Ehremburg
Quanti cani irsuti
musetti dalla punta brillante,
code dietro un mobile,
e improvvisamente più cappelli,
ciuffi grigi, occhi
più vecchi che il mondo,
e una mano
sopra il foglio,
instaurando la pace,
abbattendo miti,
rovesciando fuoco e fischiando,
o parlando di semplice amore
con la tenerezza
di un povero panettiere.
È Ehremburg.
È la sua casa
a Mosca.
Ahi! quante volte,
chiuso nella sua casa,
pensai che non aveva pareti.
Lì entro quattro mura
Il fiume della vita,
il fiume umano
entra e esce lasciando
vite, fatti, combattimenti,
e l’antico Ehremburg,
il giovane Ilya,
con quel fiume di terre e vite
raccogli qua e là
frammenti, scintille,
onde, baci, cappelli,
ed elabora
come un mago.
Tutto versa nella sua fornace,
di giorno e di notte.
Da lì escono metalli,
escono spade rosse,
grandi pani di fuoco,
escono onde d’ira,
bandiere,
armi per due secoli,
ferro per milioni,
e lui molto tranquillo,
irsuto,
con i suoi ciuffi grigi,
fumando e pieno
di cenere.
Di quando in quando
esce dalla fornace
e quando credi
che ti va a fulminare,
lo vedi camminare,
sorridente,
con i più grinzosi pantaloni del mondo:
va a piantare un gelsomino
nella sua casa di campagna:
apre un buco,
pone le mani,
come se fossero di seta,
tratta le radici,
le interra,
le irriga,
e intanto con passetti corti,
con cenere, con argilla, con foglie,
con gelsomino, con storia,
con tutte le cose del mondo
sopra le spalle,
si allontana fumando.
Se desiderate sapere qualcosa sui gelsomini,
scrivetegli una lettera.
IX – Parole all’Europa
Io, americano delle terre povere,
dei metallici altipiani,
dove il colpo dell’uomo contro l’uomo
s’unisce a quello della terra sull’uomo,
Io, americano errante,
orfano dei fiumi e dei
vulcani che mi procrearono,
a voi, semplici europei
delle strade tortuose,
umili proprietari della pace e dell’olio,
saggi tranquilli come il fumo,
io vi dico: qui sono venuto
a imparare da voi,
dagli uni, dagli altri, da tutti,
perché a cosa mi servirebbe
la terra, perché si crearono
il mare e le strade,
se non per guardare in giro e imparare
da ogni essere un poco.
Non mi chiudete la porta
(come le porte nere, spruzzare di sangue
della mia materna Spagna).
Non mi mostrate la falce nemica
né lo squadrone blindato,
né le antiche forche per il nuovo ateniese,
nelle ampie vie consumate
dallo splendore dell’uva.
Non voglio vedere un soldatino morto
con gli occhi divorati.
Mostratemi da una patria all’altra
l’infinito filo della vita
che cuce l’abito della primavera.
Mostratemi una macchina pura,
azzurra di acciaio sotto il denso grasso,
pronta ad avanzare nei campi di grano.
Mostratemi il volto pieno di radici
di Leonardo, perché quel volto
è vostra geografia,
e sulla vetta dei monti,
tante volte descritti e dipinti,
le vostre bandiere unite
che ricevono
il vento elettrizzato.
Portate l’acqua dal Volga fecondo
all’acqua dell’Arno dorato.
Portate sementi bianche
della resurrezione della Polonia,
e dalle vostre vigne portate
il dolce fuoco rosso
al Nord della neve!
Io, americano, figlio
delle più vaste solitudini dell’uomo,
venni ad apprendere la vita da voi
e non la morte, e non la morte!
Io non traversai l’oceano,
né le mortali cordigliere,
né la pestilenza selvaggia
delle prigioni del Paraguay,
per venire a vedere
vicino ai mirti che conoscevo solo
attraverso i libri amari,
le vostre orbite senz’occhi e il vostro sangue secco
sulle strade.
lo al miele antico e al nuovo
splendore della vita sono venuto.
lo alla vostra pace e alle vostre porte,
alle vostre lampade accese,
alle vostre nozze sono venuto.
Alle vostre biblioteche solenni
da tanto lontano sono venuto.
Alle vostre fabbriche risplendenti
vengo per lavorare un momento
e a mangiare tra gli operai.
Nelle vostre case entro e esco.
A Venezia, nella bella Ungheria,
a Copenaghen mi vedrete,
a Leningrado, mentre converso
col giovane Pushkin, a Praga,
con Fucik, con tutti i morti
e tutti i vivi, con tutti
i metalli verdi del Nord
e i garofani di Salerno.
Io sono il testimone che viene
a visitare la vostra dimora.
Offritemi la pace e il vino.
Domattina presto vado via.
Da ogni parte mi sta aspettando
la primavera.
II
IL VENTO NELL’ASIA
I – Volando verso il sole
Dalle estensioni rugose
del Nord, Nord-ovest, volai
verso Pechino arancione e verde.
Yennan sotto il mio volo
Era un solo guscio giallo
di luna minerale e di vuoto.
I motori e il vento,
il sole aereo,
salutarono la terra sacra,
le grotte da dove
la libertà accumulò la sua polvere esplosiva.
Ora gli eroi non stavano
dentro le cicatrici della terra:
il suo seme
alto e libero cresceva
sgranato e riunito.
Ardeva la pelle arida
del deserto di Gobi, le regioni
dalle frontiere lunari,
i rami sabbiosi
del tuo ampio mondo, Cina,
finché il volo basso
decifrò le praterie,
le acque, i giardini,
e improvvisamente nelle tue rive,
Pechino antica e nuova,
mi ricevesti. Allora
rumore di terra e frumento e primavera,
passi nelle strade,
vie popolate fino all’infinito,
come se riunissi
in una coppa pura
tutto il rumore dell’acqua
verso cui mi elevarono
le vite del tuo popolo:
gli acuti fischietti,
il rumore dell’acciaio,
tremore di cielo e seta.
Io sollevai nella mia coppa
le tue numerose vite
e l’antico silenzio.
Era il dono che mi davi, una forza
di antica pietra che canta,
di vecchio fiume che feconda
la giovane primavera.
Vidi improvvisamente
il vecchio albero del mondo
coperto di fiori e frutti.
Sentii improvvisamente
il fiume della vita
passare colmo e fermo
di idiomi cristallini.
Bevvi nella tua antica coppa
la dura trasparenza,
il nuovo giorno:
sapore di stella e terra si fusero
nella mia bocca. E dividerò il tuo viso tra i visi,
antica e giovane madre
sorridente,
seminando con il tuo vestito di guerriglia,
e proteggendo il frumento
e la pace del tuo popolo
con il tuo sorriso armato
e la tua dolcezza di acciaio.
II – La sfilata
Davanti a Mao Tse-tung
il popolo sfilava.
Non erano quelli
affamati e scalzi
che discesero
dalle aride gole,
che vissero in caverne,
che mangiarono radici,
e che quando calarono
furono vento di acciaio,
vento di acciaio di Yennan e del Nord.
Oggi altri uomini sfilavano,
sorridenti e sicuri,
decisi e allegri,
calpestando fortemente la terra liberata
della patria più ampia.
E così passò la gioventù orgogliosa, vestita
di azzurro operaio, e vicino al suo sorriso,
come una cascata di neve,
quarantamila bocche tessili,
le fabbriche di seta che marciano e sorridono,
i nuovi costruttori di motori,
i vecchi artigiani dell’avorio,
passando, passando,
di fronte a Mao,
tutta la vasta Cina, grano a grano,
di ferrei cereali,
e la seta scarlatta palpitando nel cielo
come i petali finalmente riuniti
della rosa terrestre,
ed il gran tamburo passava
di fronte a Mao,
e un tuono oscuro
da lui saliva
salutandolo.
Era la voce antica
della Cina, voce di cuoio,
voce del tempo sepolto,
la vecchia voce, i secoli
lo salutavano.
E allora come un albero
di fiori repentini
i bambini,
a migliaia,
salutarono, e così
i nuovi frutti e la vecchia terra,
il tempo, il frumento,
le bandiere dell’uomo alla fine riunite,
lì stavano.
Lì stavano, e Mao sorrideva
perché dalle alture
assetate del Nord
nacque questo fiume umano,
perché dalle teste
delle ragazze
tagliate dai nordamericani
(o da Chiang, loro lacchè)
nelle piazze,
nacque questa grande vita.
Perché dall’insegnamento del Partito,
in piccoli libri mal stampati,
nacque questa lezione per il mondo.
Sorrideva, pensando
ai duri anni
passati,
la terra piena di stranieri, la fame
nelle umili baracche,
lo Yang Tzé che mostrava sul suo lombo
i rettili di acciaio
corazzato
degli imperialisti invasori,
la patria saccheggiata
e oggi, adesso,
ripulita la terra,
la vasta Cina ripulita,
e calpestava il suo.
Respirando la patria
sfilavano gli uomini
davanti a Mao
e con scarpe nuove
colpivano la terra,
sfilando,
mentre il vendo sulle bandiere rosse
giocava e in alto
Mao Tse-tung sorrideva.
III – Dando una medaglia a Madame Sun Yat Sen
Questa medaglia che Eremburg ti ha appuntato sul petto
È una spiga d’oro del raccolto del gran paese della pace, dell’Unione Sovietica.
Il tuo petto è degno di questa spiga d’oro, Sung Sin Ling.
Ti conosciamo da quei tempi in cui la Cina si svegliò,
e poi quando la Cina fu tradita e martirizzata, una volta ancora, dai suoi vecchi nemici,
e dal primo giorno quando la Cina fu liberata ti vedemmo in prima fila, all’avanguardia con i liberatori.
Così ti vedemmo, cara amica, all’arrivo in aeroporto: ci sembrasti più giovane di quanto pensassimo e più semplice,
come il tuo popolo che ha sofferto e combattuto tanto
e che, nella vittoria, sorride e saluta tutti i popoli del mondo.
Noi, gli uomini dell’America Latina, conosciamo i vostri nemici.
Il nostro continente possiede tutta la ricchezza, il petrolio, il rame, lo zucchero, il nitrato, lo stagno,
però tutto questo appartiene ai nostri nemici, agli stessi che avete espulso per sempre,
mentre la nostra gente dei campi e villaggi non possiede scarpe né cultura,
essi hanno costruito, con il prodotto del saccheggio, case di cinquanta piani a New York
e con le nostre ricchezze hanno fabbricato le armi per schiavizzare altri popoli.
Pe questo la vittoria del popolo cinese è la nostra vittoria.
Per questo la nuova Cina è amata e rispettata da tutti i popoli.
Alcuni diplomatici a San Francisco e a Washington chiedono di non “riconoscere” la Cina Popolare. Questi signori non sanno che esiste.
Potranno anche non “riconoscere” questa Terra e tuttavia questa si muove,
e si muove in avanti, non all’indietro come essi vorrebbero.
I signori di San Francisco” non “riconosceranno” la nuova Cina,
però potranno fare una inchiesta in tutta l’America
e se lo chiederanno a migliaia di minatori, di contadini, al professore e al poeta, al vecchio e al giovane,
dall’Alaska fino al Polo Sud, otterranno la risposta:
“Riconosciamo e amiamo Mao Tse-Tung. È un nostro grande fratello”.
Per questo, cara amica della pace, Sung Sin Ling,
questa spiga d’oro che dalla generosa terra di Stalin
è arrivata al tuo petto di donna grande e semplice,
e non è arrivata lì per casualità o capriccio, ma perché ti amiamo,
e amiamo la pace che tu difendi non solo per il tuo popolo, ma perché tutti i popoli
si riconoscano e possano costruire liberamente la loro vita.
IV – Tutto è tanto semplice
Di mattina nel villaggio
i bambini e la luce mi accolsero.
I contadini mi mostrarono tutte
le loro terre conquistate,
il raccolto comune,
i granai, le case
del proprietario antico.
Mi mostrarono il luogo
in cui le madri povere
gettavano le proprie figlie
o le vendevano, non molto tempo fa,
ahi!, non molto tempo fa. Adesso sembra
un brutto sogno,
la peste, la fame,
i nordamericani,
i giapponesi, i banchieri
di Londra e di Francia,
tutti venivano a civilizzare
la Cina estraendole le viscere,
vendendola
nelle Borse del Mondo,
prostituendola a Shanghai.
Desideravano fare di essa
un vasto cabaret per le truppe
da sbarco, un luogo
di seta e di fame.
Andavano gli scheletri
vicino al fiume
ammucchiandosi,
i villaggi piangevano
fumo nero
e pestilenza.
“Ahi! come cadono
nella morte
tanti morti della Cina”,
esclamava
la signora elegante
leggendo i giornali.
Vicino al fiume i morti
erano montagne di cenere, la fame
camminava nelle strade della Cina
e a New York, Chiang Kai Shek
acquistava edifici
in società con Truman e Eisenhower.
Odorava di sterco e oppio
la vecchia cittadella
della melanconia.
I carceri si riempivano
anche di morti.
Gli studenti erano decapitati
per un decreto nordamericano
nella piazza del paese,
e nel frattempo la rivista “Life”
pubblicava la foto
della Signora Chiang Kai Shek, ogni volta
più elegante.
Allontanati, cattivo sogno!
Allontanati dalla Cina!
Allontanati dal mondo!
Vieni con me al villaggio!
Entro
e guardo i granai,
il sorriso
della Cina
liberata:
i contadini
si dividesero la terra.
Da Yennan
scese la libertà
con i piedi scalzi o scarpe rotte
di contadino e soldato.
Oh! Libertà della Cina
eri la mia musa,
vai vestita di azzurro
in un cammino
polveroso.
Non hai potuto lavarti
né asciugarti il sangue, però marci e marci
e con te
la terra oscura marcia,
marcia la Bolivia dimenticata
dalla libertà, marcia il Cile,
verrà l’Iran con te,
entrano con te nel villaggio,
con la mia musa.
Ragazzetta vestita
di azzurro guerriero,
musa del vento,
delle terre libere,
a te io canto:
al cinturone di cuoio e al tuo fucile,
alla tua bocca secca,
io canto.
Musa mia,
entra con fuoco e polvere esplosiva
in tutte le strade del mondo,
entra con sudore e sangue,
e avrai il tempo
di lavarti, adesso
avanza, avanza, avanza!
Tutto lo vidi nel villaggio
della Cina liberata.
Niente mi dissero.
I bambini sparsi
non mi lasciavano transitare.
Mangiai il loro riso, la loro frutta,
bevvi il loro vino di riso pallido.
Tutto mi mostrarono
con un orgoglio
che conobbi in Romania,
che conobbi in Polonia,
che conobbi in Ungheria.
È l’orgoglio nuovo
del contadino che alla luce del mondo
di domani,
per la prima volta vede la farina,
per la prima volta guarda la frutta,
per la prima volta vede crescere il frumento,
e allora
benché sia più vecchio del mondo
ti mostra il riso e l’uva,
le uova di gallina,
e non sanno cosa dire.
Tutto è suo
per la prima volta.
Tutto il riso,
tutta la terra,
tutta la vita.
Che cosa facile è quando si è conseguita
la felicità, che cosa semplice
è tutto.
Quando tu ed io, amor mio, ci baciamo,
che semplicità è essere felici.
Però tu dimentichi
quanto camminasti
senza incontrarmi
e quante volte
tu deviasti
fino a crollare stanca.
Ebbene,
tu non sapevi
che io stavo cercandoti
e che il mio cuore
stava deviando
verso l’amarezza
o il vuoto.
Noi sapevano
che se marciavamo
avanti, avanti,
dritto, dritto,
sempre, sempre,
tu mi avresti trovato
e io ti avrei trovato.
Come a te, anche ai popoli
succede:
non sanno,
non comprendono,
possono sbagliarsi,
però procedono sempre
e si incontrano,
si incontrano allo stesso modo,
come tu mi incontrasti,
e allora
tutto sembra semplice,
però non fu semplice
camminare alla cieca.
Avevo da imparare dalla vita,
dal nemico, dall’oscurità,
con i suoi testi,
e lì stava Mao insegnando
e lì stava il Partito
con la sua severità e la sua tenerezza,
e adesso ragazzi cinesi,
dai campi,
giovane musa,
non dimentichiamo:
tutto sembra semplice
come l’acqua.
Non è la verità.
La lotta non è l’acqua,
è il sangue.
Viene da lontano.
Ha morti:
nostri fratelli caduti.
Tutto il cammino
è pieno di morti
che non dimenticheremo.
E il villaggio
non è semplice,
l’aria non è semplice,
richiede parole,
richiede canzoni,
richiede volti,
richiede giorni passati,
richiede carceri,
richiede muri
schizzati di sangue
e adesso
dolce è il villaggio,
dolce è la vittoria.
Eleviamo la coppa
per la musa,
per quelli che non dimentichiamo,
e quelli che ricostruiscono,
per quelli che caddero
e continuano a vivere
in ogni parte,
perché grande è il mondo
e in ogni parte sempre
cadde il sangue,
lo stesso:
il nostro sangue.
Adesso
entro nel villaggio
nel campo liberato
e dolce è l’aria
come nessuno
e respiro la vita,
la terra,
la vittoria.
La terra, se stendiamo
sopra la sua pelle le mani,
è la medesima,
qui o in Patagonia
o nelle isole del mare.
La terra è sempre
la medesima,
e adesso
entrando nel tuo villaggio,
odore di pane,
odore di fumo,
odore di frumento, odore di acqua e di vino,
è la mia terra,
è tutta la terra.
E allora
salutai con rispetto
il territorio antico,
la sua bellezza,
la sua agricoltura collettiva,
il suo volto di polvere e rugiada,
la libertà brillando
nel sorriso,
e pensai alle mie rive,
alla mia bandiera,
alla mia sabbia, alla mia schiuma,
a tutte le mie stelle.
E così in questa mattina
nel villaggio della Cina
entrai cantando,
perché il mio cuore
si trasformò in chitarra
e tutte le corde suonarono
ricordando la mia terra,
cantarono
ricordando la mia patria,
là, in America.
Quando una volta io arrivo
alla casa del popolo
in una terra libera,
tutto
sembrerà tanto semplice,
tanto naturale,
come il bacio che adesso
ci diamo, amor mio.
V – Le cicale
Riempiva la mattina del villaggio
l’autunno stridente
delle cicale sonore.
Mi avvicinai: le prigioniere
nella loro piccola gabbia
erano la compagnia dei bambini,
erano il violoncello innumerevole
del piccolo villaggio
e il rumore della Cina
e il movimento dell’oro.
Scorsi appena le prigioniere
nelle loro gabbie minuscole
di bambù fresco,
ma quando mi preparai a partire
i contadini
posero il castello di cicale
nelle mie mani.
Io ricordo nella mia infanzia i peones
del treno in cui mio padre lavorava,
i collerici figli
delle intemperie, appena
vestiti con stracci,
i volti maltrattati dalla pioggia o dalla sabbia,
le fronti divise
da cicatrici aspre,
e quelli mi portavano
uova impavonate di pernice,
scarabei verdi,
cantaridi del colore della luna,
e tutto questo tesoro
dalle mani giganti maltrattate
alle mie mani di bambino,
e tutto questo
mi faceva ridere e piangere
mi faceva pensare e cantare,
là ai boschi
piovosi
della mia infanzia.
E adesso
queste cicale
nel loro castello di bambù odoroso,
dalla profondità della terra cinese,
raschiando la loro stridente
nota d’oro,
passavano nelle mie mani
dalle mani battezzate dalla polvere da sparo
che conquistò la libertà, passavano
dalle ampie terre
liberate,
ma erano le mani del popolo,
le grandi mani,
che nelle mie lasciavano
il loro tesoro.
Io ricordai la mia infanzia
e quanto per la terra
andavo guardando
e cantando,
ma niente,
niente come questo,
questo tesoro vivo.
E allora con me vennero,
mi accompagnarono
durante i miei giorni in Cina.
La mattina, nella mia stanza d’albergo,
trenta cicale
dicevano il mio nome
con un suono acuto
di acciaio verde
e io gli davo foglie
che mangiavano,
togliendo dalle loro gabbie piccole maschere
di guerrieri dipinti, e alla sera,
quando nelle vaste terre
il sole cala,
un giorno in più aveva consolidato nella patria
la libertà del popolo.
Alla mia finestra
le cicale con una sola voce
metallica,
cantavano
verso i campi,
verso i bambini,
verso le altre cicale,
verso le foglie e verso i raccolti,
verso tutta la terra:
salutavano il giorno
con l’altezza incredibile del loro canto,
e così, dalla mia finestra,
di giorno e di notte,
ti salutava, Cina,
una voce della terra
che le mani del popolo
mi consegnarono,
una moltiplicata voce che continua a cantare
con me nel cammino.
VI – Cina
Cina, per molto tempo ci mostrarono la tua effigie
dipinta specialmente dagli occidentali:
era una vecchietta rugosa,
infinitamente povera,
con una ciotola vuota di riso
alla porta del tempio.
Entravano e uscivano i soldati
di tutti i paesi,
il sangue schizzava le pareti,
ti saccheggiavano come un casa senza padrone,
e tu davi al mondo un aroma strano,
miscuglio di tè e cenere,
mentre alla porta del tempio con tuo piatto
vuoto, ci guardavi col tuo sguardo antico.
A Buenos Aires si vendeva il tuo ritratto
fatto specialmente per le signore colte,
e nelle conferenze le tue sillabe magiche
sorgevano all’improvviso come luce sepolta.
Tutti sappiamo qualcosa delle dinastie
e al dire Ming o Celadon si corrugano le labbra
come se si mangiassero una fragola,
e così vorrebbero che per noi fossi
una terra senza uomini, una patria
dove il vento entrava nei templi vuoti
e saliva cantando, solo, per le montagne.
Volevano che credessimo
che dormivi,
che dormirai un sogno eterno,
che eri la “misteriosa”,
intraducibile, sconosciuta,
una madre mendicante con stracci di seta,
mentre da ciascuno dei tuoi porti
salpavano le navi cariche di tesori
e gli avventurieri si contendevano
la tua eredità: minerali
e avori, progettando,
dopo il tuo dissanguamento, come portarsi via
una bella nave carica delle tue ossa.
VII – La grande marcia
Ma succedeva qualche cosa nel mondo.
Il tuo ritratto non ci soddisfaceva.
Era bella la tua povera maestà,
ma non ci bastava.
La bandiera sovietica sventolava
baciata dalla polvere da sparo
nei cuori degli uomini.
tu, Cina, ci mancavi, e attraverso i mari
udiamo all’improvviso che la voce del vento
adesso non cantava solo per le tue ampie strade.
Si solleva Mao
e infine la Cina
e alla fine
di tante sofferenze,
vediamo alzarsi i suoi uomini
avvolti dall’aurora.
Da lontano, dall’America, alla cui riva
il mio popolo sente ogni onda del mare,
vediamo ergersi la sua tranquilla testa,
e le sue scarpe dirigersi verso il Nord.
Verso Yennan con polveroso vestito
si dirige il suo serio movimento:
e vediamo da allora che le nude terre
della Cina gli consegnavano uomini,
piccoli uomini, rugosi vecchi,
sorrisi infantili.
Vediamo la vita.
Non era solo il vecchio territorio.
Non era lo specchio di acqua
Che riepiva la spettrale archeologia.
Da ciascuna pietra un uomo,
un nuovo cuore con un fucile,
e ti vediamo popolata, Cina, dai tuoi soldati,
dai tuoi, finalmente, che mangiavano foraggio,
senza pane, senza acqua, che camminavano il lungo giorno
perché l’alba potesse nascere.
VIII – Il gigante
Non eri mistero, né giada celeste.
Eri come noi, popolo puro,
e quando piedi nudi e scarpe,
contadino o soldato, nella distanza
marciarono difendendo
la tua integrità, vedemmo il volto,
vedemmo le mani
di chi lavora il ferro, le nostre mani,
e nel lungo cammino distinguemmo
i nomi del tuo popolo: erano i nostri.
Suonavano in altro modo, però sotto
le sillabe acute
erano al fine i volti e i passi
che con Mao marciavano
attraverso il deserto e la neve
a preservare il germe
della nostra propria primavera.
Alto stava il gigante misurando passo a passo
il suo riso, il suo pane, la sua terra, la sua dimora,
e fu riconosciuto dai popoli del mondo:
“Come sei cresciuto improvvisamente, fratello”.
Ma anche il nemico lo guardò.
Dai banchi grigi di New York e la City
i borsellini che lì si alimentano di sangue
si dissero con paura: Chi è costui?
Il tranquillo gigante non replicò: Guardava
le ampie terre dure della Cina. Riuniva
con una sola mano tutta la pena
e la miseria, e con l’altra
mostrava il rosso frumento di domani,
tutto quello che la terra consegnerebbe,
e sul suo grande volto crebbe
un sorriso che oscillava al vento,
un sorriso come un cereale,
un sorriso come stelle d’oro
sopra tutto il sangue versato.
E così si levarono le tue bandiere.
E i popoli ti videro ripulire la tua vasta terra,
unità, uragano nella minaccia,
martello sopra il male, luce vincitrice
sopra il vecchio nemico, vittoriosa.
IX – Per te le spighe
Repubblica, estendesti
le tue ampie braccia per tutto il tuo corpo
e fondasti la pace sul tuo destino!
I malvagi che vengono da oltre il mare
a saccheggiare la tua esistenza, furono bene accolti,
e verso l’incanetata Formosa volano
a alimentare il nido di scorpioni.
Poi scesero in Corea. Sangue
e dolore e distruzioni, il loro abituale
compito: muri vuoti e donne morte,
ma improvvisamente un giorno
arrivò il baluardo dei tuoi volontari
a compiere la sacra fraternità dell’uomo.
Da mare a mare, da terra a neve,
tutti gli uomini di contemplano, Cina.
Che poderosa sorella giovane ci è nata!
L’uomo nelle Americhe, piegato sul suo solco,
circondato dal metallo della sua macchina ardente,
il povero dei tropici, il coraggioso
minatore della Bolivia, e anche l’operaio
del profondo Brasile, il pastore
della Patagonia infinita,
ti guardano Cina Popolare, ti salutano
e con me ti inviano questo bacio sulla fronte.
Non sei per noi quello che vollero: l’immagine
di una mendicante cieca vicina al tempio,
bensì una dolce e forte capitana del popolo,
ancora con le tue vittoriose armi in una mano,
con un crescente ramo di spighe sul petto
e sopra la tua testa
la stella di tutti i popoli!
III
RITORNÒ LA SIRENA
I – Io canto e racconto
Dall’estate baltica,
azzurro acciaio, ambra e schiuma,
fino a dove Carpazi incoronano
le tempie della Polonia
coi diademi pallidi dell’Europa,
io attraversai la terra
dei martirii e delle nascite,
la pelle squartata,
l’infinito grano che rinasce,
le grotte del carbone, e mi mostrarono
antico sangue nella neve
raschiando le praterie,
l’uomo e la sua cucina seppellita,
il bambino ed la sua piccola carrozzina,
il fiore sopra le ossa della madre.
Testimone di questi giorni
io sono e sento e canto
e non ci sono archi d’oro
per me in questo tempo.
L’arpa e la sua dolcezza si bruciarono
con l’incendio del mondo
e a raccontare e cantare resurrezioni
sono venuto.
Ricevimi
e guarda ciò che io estraggo dalla terra devastata,
un pezzo di violino, un anello morto
e l’oblio.
Accettate ciò che porto,
canto e racconto,
perché non solo il sangue sommerso,
rovina, pianto e cenere,
vengono con me ora.
Porto nel mio sacco
la pioggia grigia del Nord:
sopra nuovi seminati
cade e cade,
ed il pane immenso cresce
come mai sulla terra.
Il martello batte,
la pala si alza e si abbassa,
suonano le pietre nelle costruzioni,
cresce la vita.
Oh Polonia, oh amore,
oh primavera,
vieni con me
perché io ti mostri
raccontando e cantando
per tutte le strade,
e nel fondo,
oltre i morti,
canta e racconta la vita,
perché questo è il canto e il racconto,
quello che tu mi insegnasti,
Polonia, e quello che insegno:
la fede nella vita, più profonda
quando da più lontano è venuta,
della morte,
la fede nell’uomo quando poté trionfare
sull’uomo stesso,
la fede nella casa quando poté nascere
dalla cenere immensa,
la fede nel canto che si poté cantare
quando ormai non aveva bocca!
Polonia mi hai insegnato a esistere
di nuovo
e a cantare di nuovo,
e questo è quello che il pellegrino con la chitarra
toglie dal sacco e lo mostra cantando:
il fiore indistruttibile
e la nuova speranza,
gli antichi dolori seppelliti
e la ricostruzione dell’allegria.
II – Primavera nel nord
Io percorsi la primavera
verde e ardente
della Polonia.
Tremavano nella luce i cereali
dell’abbondanza, il latte scivolava
in un fiume bianco
verso il mare
dall’agricoltura collettiva,
i campi umidi, odor di suolo,
fiori come lampi azzurri
o punteggiature rapide di sangue.
Dall’inverno lungo le pinete
muovevano i suoi fianchi di vascello
come imbarcandosi nella primavera,
e di sotto, nell’ombra turbatrice,
le fragole socchiudevano i piccioli.
L’aria era metallica,
un’aria nuova di resurrezione,
perché non solo il bosco,
il mare, la terra,
bensì l’uomo,
lì risuscitavano.
Lì il diluvio fu di sangue,
l’arca clandestina della lotta
navigò tra i morti.
Perciò la violenta primavera
della Polonia aveva
sapore ferruginoso
per la mia bocca, era
un elettrico liquido,
il bacio della terra,
il cuore dell’uomo
nella coppa stellata della vita!
III – Le rovine nel Baltico
Danzica, crivellata dalla guerra,
rosa spezzata,
come spettro tra spettri,
tra l’odore marino
e l’alto cielo bianco,
camminai tra le tue rovine,
tra pezzi di argento arancione.
la nebbia entrò con me,
i vapori glaciali,
e errante
sbrogliai le strade
senza case e senza uomini.
Io conosco la guerra
e quel volto senza occhi e senza labbra,
quelle finestra morte
le conosco,
le vidi a Madrid, a Berlino, a Varsavia,
però questa gotica nave
con la sua cenere di mattoni rossi
vicino al mare, sulla porta
degli antichi viaggi,
questa figura mercantile di prua,
cutter verde dei mari freddi,
con le sue laceranti fenditure,
con suoi muri a monconi,
il suo orgoglio demolito,
mi entrarono nell’anima
come raffiche di neve, polvere e fumo,
qualcosa di accecante, disperato.
La casa dei sindacati
con le sue insegne abbattute,
i banchi in cui l’oro tintinnava
cadendo nella gola dell’Europa
i moli rossi da cui un fiume
di cereali portò
come una onda terrestre
l’odore dell’estate,
tutto era polvere, monti
di materia disfatta,
e il vento del Baltico ferreo
volava nel vuoto.
IV – Costruendo la pace
Ma la vita
anche lì stava.
In altre parti e in altre ore
della mia vita, la morte
mi aspettò negli angoli.
Qui la vita spera.
Ho visto in Danzica la vita
ripopolarsi.
Mi baciarono
i motori con labbra di acciaio.
L’acqua trepidava.
Ho visto maestose
passare come castelli sopra l’acqua
le gru di ferro marino,
appena ricostruite.
Ho visto il gigantesco
groviglio schiacciato
di ferro sopra il ferro
bombardato
dare alla luce poco a poco
la forma delle gru,
e svegliarsi dalla profondità della morte
la maestà azzurra del cantiere navale.
Ho visto con i miei occhi
pullulare la spuma dell’onda
nella resurrezione delle carene,
delle prue ricamate
dall’uomo appena dissotterrato.
Ho visto
come nasceva un porto,
ma non dalle acque e dalle terre
lavate e lustrate,
ma dalla catastrofe.
E io ti ho visto, titanica colomba,
bianca e azzurra, marina,
nascere e sollevarti
volando ferma e forte
dalla distruzione aggrovigliata
e dalla sanguinante solitudine
del vento e delle ceneri.
V – I boschi
Verso i boschi freddi e i laghi
del Nord verde,
le acque masuriane, (*)
entrando in tutte le parti,
pallidi stagni invasi
dal pallido cielo,
lagune come guglie,
tutte le forme placide dell’acqua
lì stettero come se una stella
si fosse distrutta
o luna verde in gocce
cadenti dall’alto.
Bella è l’aria, e il vento
pettina le irsute chiome
delle pinete d’acciaio.
Bella è l’aria, fresca
Ed azzurra sotto i pini.
Improvvisamente il vento vestì
il suo tremulo vestito
di ossigeno e aghi.
Solenne è il vento nella selva.
Fa piccoli rumori
come carte che cadono,
o suona con un pianto di bottiglia
o rompe pietre, ricerca
frammenti di legno
che trascina con mani di padre
o soffia e sale
da un albero all’altro
spaventando gli uccelli.
Bello è il vento del Nord,
fratello della neve,
nella profondità delle pinete.
E marcio senza cappello.
Sulla mia testa l’aria
mi incorona di freddo,
fresche labbra mi mordono.
Entro cantando
nella freschezza verde
come in un profondo oceano.
Canto
e calpesto l’erba
appena decorata
con piccole stelle gialle.
Felice Nord di ampie spalle,
di laghi e pinete,
ti saluto:
lasciami respirarti,
camminare tra i pini e le acque
cantando e fischiando
e riposare sul tuo umido tappeto
come un albero caduto
sotto il tuo sogno verde.
(*) zona lacustre della Polonia nord-orientale tra i fiumi Vistola e Njemen;
la zona fu teatro di scontri fra truppe russe e tedesche.
VI – Ritornò la sirena
Amore, come se un giorno
tu morissi,
e io scaverò
e io scaverò
notte e giorno
sul tuo sepolcro
e ti ricomporrò,
solleverò i tuoi seni dalla polvere,
la bocca che adorai, dalle sue ceneri,
costruirò di nuovo
le tue braccia e le tue gambe e i tuoi occhi,
la tua capigliatura di metallo contorto,
e ti darò la vita
con l’amore che ti ama,
ti farò camminare di nuovo,
palpitare un’altra volta nella mia vita,
così, amore, costruirono nuovamente
la città di Varsavia.
Mi avvicinerei cieco alle tue ceneri
ma ti cercherei,
e a poco a poco andresti elevando
gli edifici dolci del tuo corpo,
e così incontrarono essi
nella città amata,
solo vento e ceneri,
frammenti devastati,
carboni che piangevano nella pioggia,
sorrisi di donna sotto la neve.
Morta stava la bella,
non esistevano finestre,
la notte si coricava sopra la bianca morta,
il giorno illuminava la prateria vuota.
E così la costruirono,
con amore, e arrivarono
ciechi e piangenti,
ma scavarono profondo,
ripulirono la cenere.
Era tardi, la notte,
la fatica, la neve
fermavano la pala,
ed essi scavando trovarono
prima la testa,
i bianchi seni della dolce morta,
il suo vestito da sirena,
e infine il cuore sotto la terra,
interrato e bruciato ma vivo,
e oggi vive vivo, palpitando nel mezzo
della ricostruzione della sua bellezza.
Adesso capisci come
l’amore costruì le strade,
fece cantare la luna nei giardini.
Oggi quando
petalo a petalo cade la neve
sopra i tetti e i ponti
e l’inverno colpisce
le porte di Varsavia,
il fuoco, il canto
vivono di nuovo nei focolari
che edificò l’amore sopra la morte.
Ahi! di quelli che fuggirono e credettero
di scappare con la poesia:
non sanno che l’amore abita a Varsavia,
e quando la morte
lì fu sconfitta,
e quando il fiume passa,
riconoscendo esseri e destini,
come due fiori di profumo e argento,
città e poesia,
Varsavia e poesia,
sulle sue cupole chiare
conservano la luce, il fuoco e il pane del suo destino.
Varsavia miracolosa,
cuore sepolto
di nuovo vivo e libero,
città in cui si dimostra
come l’uomo è più grande
di tutta la sfortuna,
Varsavia, lasciami
toccare i tuoi muri.
Non sono fatti di pietra o di legno,
di speranza sono fatti,
e chi voglia toccare la speranza,
materia solida e dura,
terra tenace che canta,
metallo che ricostruisce,
sabbia indistruttibile,
cereale infinito,
miele per tutti i secoli,
martello eterno,
stella vincitrice,
attrezzo invincibile,
cemento della vita,
la speranza,
che qui la tocchino,
che qui sentano come in essa aumenta
la vita e di nuovo il sangue,
perché l’amore, Varsavia,
alzò la tua statura di sirena
e se tocco i tuoi muri,
la tua pelle sacra,
comprendo
che eri la vita e che nei tuoi muri
è morta, finalmente, la morte.
VII – Canta la Polonia
La guerra lì nel fondo
dei grandi boschi,
la guerra vicino all’acqua
lenta e moltiplicata
uscì ad insultarmi, malgrado
la pace
nel regno silvestre:
lì stava.
Goering aveva lasciato
i suoi cubi di cemento.
Lì stava la orribile architettura,
inumana,angolosa,
scanalature socchiuse
come occhi di rettili, forme nude
di crudeltà, li, nascosto,
nelle nuove tane delle fiere,
progettarono l’attacco
contro la luce sovietica.
Lì dall’ombra
attaccarono la stella
riunendo tutta la forza repulsiva,
unendo i vermi ed il veleno,
le fiamme distruttrici,
i progetti di morte.
Già il bosco stava coprendo
con il suo splendore oscuro
i segnali maligni,
ma lì i fortini nascosti,
le reti stracciate che li nascondevano,
erano la voce del metallo terribile,
la bocca sdentata della guerra.
Come oggi nei tranquilli saloni chiari
dei collegi militari
dell’America del Nord,
con ostinata precisione si studia
il potere del microbo
affinché nei villaggi
entri con il suo carico di vomito
e assassini i bambini con l’acqua,
così i pensieri dell’incendio
e dell’assassinio covarono
in queste grotte dei freddi boschi.
Ma la onda assassina si fermò
contro un muro di pietra:
la unanime muraglia
del socialismo, il peso
del pugno di Stalin,
e dall’Est innevato
riportarono la pace al bosco.
Gli invasori che da qui partirono
non ritornarono, ma
l’aria luminosa
da Stalingrado venne,
attraversò i boschi della Polonia,
aprì le porte
dell’invasore sanguinario
e crebbero da allora
le liane nel bosco,
l’acqua attende le foglie che cadono,
gli scoiattoli elettrici
ballano con il vestito nuovo.
Densa è l’aria come un liquido
che riempie la coppa della terra,
affondano i miei passi nel muschio
come se camminassi nell’oblio,
un frammento di legna
si riempì di aderenze
come un violino di musica,
le foglie tessono fili che attraversano
da un albero all’altro
filando il perforato
silenzio della selva.
Ai piedi del bosco le praterie
sentono nascere il frumento,
ma là il carbone corre
verso l’acciaio,
le città si popolano,
marcia l’uomo,
marciano gli uomini,
crescono le navi,
di notte il cielo mostra
una Polonia con lunga
luce di stelle
dicendo: “Uomini di tutte
le terre ed i mari,
guardate come cresce
la figlia di acciaio”.
E la luna si sbalordisce
perché nel vuoto
di ieri, carbonizzato,
oggi un soffitto restituisce
la dolce luce notturna,
il sole entra presto
nelle panetterie,
si sente nelle scuole,
vive la vita,
costruisce l’uomo,
un braccio forte lega
una cintura di colomba.
Buon giorno, Polonia!
Buona notte, Polonia!
Domani, ti amo!
Buoni giorni e notti!
Buoni anni e secoli!
Ti amo,Polonia, e da te mi congedo
prendendomi un fiore e dando sulla tua fronte
un lungo bacio che prende la forma
di tutti i miei baci: di un canto.
IV
IL PASTORE PERDUTO
RITORNA, SPAGNA
Spagna, Spagna, cuore viola,
mi sei mancata nel petto, tu mi manchi
non come manca il sole nella vita,
ma come il sale nella gola,
come il pane nei denti, come l’odio
nell’alveare nero, come il giorno
sui sobbalzi dell’aurora,
ma non è solo questo, come il tessuto
dell’elemento viscerale, profonda
palpebra che non guarda e che non rinuncia,
terreno minerale, rosa di osso
aperta nulla mia ragione come un castello.
Chi posso chiamare fuorché la tua bocca?
Ho altre labbra che mi rappresentano?
Sei abbandonata o sono muto?
Che significa la tua silenziosa sfera?
Dove vaso senza la tua voce, sabbia madre?
Che cosa sono senza la tua lanterna crocifissa?
Dove sono senza l’acqua della tua roccia?
Chi eri tu se non mi desti sangue?
Oh tormento! Recuperami, ricevimi
prima che il mio nome e le mie spighe
scompaiano nella primavera.
Perché alle tue solitudini iraconde
va il mio destino incatenato, al peso
della tua vittoria. A te voglio essere condotto.
Spagna, sei più seria di una data,
di un presagio, di una tormenta,
e non importa la torre crudele
della tua voce perduta, bensì la dura
resistenza, la pietra che sostiene.
Però perché, se sono sabbia tua,
acqua nelle tue acque, sangue nelle tue ferite,
oggi mi neghi la bocca che mi chiama,
la tua voce, la costruzione della mia esistenza?
Chiedo a quello che nel tuo essere è la mia sostanza,
alla tua lacerazione di coltelli,
che si aprono oggi, sopra la sventura,
le illuminazioni del tuo volto,
e ti sollevi, perforando il cielo,
rompendo le tenebre e i simboli,
fino a sorgere, farina e alba
luna incendiata sopra gli ossari.
Ucciderai, Uccidi, Spagna, vergine santa,
alzati impugnando la tenerezza
come una rosa cieca scatenata
sopra le pietre infernali.
Vieni a me, restituiscimi la torre
che mi rubarono,
restituiscimi la lingua
e il popolo che mi attendono, sbalordiscimi
con la unità finale della tua bellezza.
Alzati sul tuo sangue e sul tuo fuoco:
il sangue che tu desti, per prima,
e il fuoco, nido della tua luce sacra.
I – SE IO TI RICORDASSI
Spagna, non sono ricordi
tuoi, non sei memoria.
Se voglio ricordare
le zagare,
o il mercato giallo
o le acide ombre di Valencia,
serro la fronte,
apro gli occhi
e mi mordo la bocca.
No non possiedo ricordi.
Non voglio niente con la tua forma secca
né con la tua generosa chioma,
non voglio le tue spighe,
non voglio continuare a raccoglierle
nella melanconia di un viaggio.
Ti voglio intatta, intera,
restituita a me
con fatti e parole,
con tutti i tuoi sensi,
sciolta e libera,
metallica e aperta!
Granata rossa e dura,
topazio nero, Spagna,
amor mio, anca
e scheletro del mondo,
chitarra incandescente,
fuoco che non brucia, oh dolorosa
pietra amata,
se io ti ricordassi
il cuore se mi dissanguassi
e necessitassi sangue
per riconquistar le tue bellezze,
affinché il tuo silenzio
d’improvviso si inginocchi
vinto, finito,
e si oda la voce del tuo popolo
nel nuovo coro del mondo.
II – ARRIVERÀ NOSTRO FRATELLO
C’è qualcosa,
fermentazioni, lacrime,
lune, duelli, dolori.
Si avverte
che accade qualcosa,
un punto, qualcosa,
come una cometa
di colore scarlatto:
sono tutte le tue stelle,
Spagna,
i tuoi uomini, le tue donne,
Spagna.
C’è un oceano,
un vasto vento elettrico
che fabbrica lampi,
qualcosa cresce nel tuo ventre,
Spagna.
Riconosciamo
al fratello che viene,
sollevalo alla luce,
nutrilo col tuo sangue,
che corra
appena sia nato,
che muoia
adesso,
dagli
latte di pietra selvaggia,
forza di terra atomica,
dagli tutte le tue ossa,
le ossa che non dimenticano,
dagli le orbite vuote
dei nostri fucilati,
dagli la tua vita e la mia,
se la chiede,
consegnali coltelli,
fucili nascosti.
Graffia
sotto il tuo letto,
cerca
nelle semine,
tira fuori dall’aria le armi,
e lascialo lottare,
Spagna, che lotti il tuo figlio,
che lotti il tuo figlio, Spagna.
Spezza
la tua prigione, apri
tutti i tuoi occhi,
solleva
il tuo antico cuore
perché questa è la tua bandiera,
la nuova stella nel mezzo
del tuo sangue versato.
Sollevati
e grida,
sollevati
e abbatti,
sollevati e costruisci,
mietitrice,
metti al mondo tuo figlio,
impasta il tuo pane nuovamente,
la terra sta aspettando
le tue mani e la tua farina.
È la tua vittoria
quello che ci occorre,
quello che cerchiamo prima di dormire,
quello che speriamo
prima di svegliarci.
La tua vittoria dimenticata
va errante nelle strade,
lasciala entrare,
lascia entrare la tua vittoria,
apri le porte,
che tuo figlio apra la porta
con robuste rosse mani da minatore,
che si aprano le porte della Spagna,
perché questa è la vittoria
che a noi manca
e senza questa vittoria
non c’è onore sulla terra.
III – IL PASTORE PERDUTO
Si chiamava Miguel. Era un piccolo
pastore delle rive
dell’Orihuela.
Lo amai e posi sul suo petto
la mia maschia mano,
e crebbe la sua statura poderosa
finché nell’asprezza
della terra spagnola
si stagliò il suo canto
come una brusca quercia
nella quale si unirono
tutti i sepolti usignoli,
tutti gli uccelli del sonoro cielo,
lo splendore dell’uomo duplicato
nell’amore della donna amata,
il ronzio odoroso
dei biondi alveari,
l’agro odore materno
delle capre partorite,
il telegrafo puro
delle cicale rosse.
Miguel fece di tutto
– territorio e ape,
sposa, vento e soldato –
fango per la sua stirpe vincitrice
di poeta del paese,
e così uscì camminando
sopra le spine della Spagna
con una voce che adesso
i suoi carnefici
devono sentire, ascoltare,
quelli
che conservano le mani
macchiate
con il suo sangue indelebile,
odono il suo canto
e credono
che è solo terra
e acqua.
Non è così.
È sangue,
sangue,
sangue della Spagna, sangue
di tutti i paesi della Spagna,
è il suo sangue che canta
e nomina
e chiama,
nomina tutte le cose
perché lui tutte le amava,
ma quella voce non dimentica,
quel sangue non dimentica
da dove viene
e per chi canta.
Canta
perché si aprano le carceri
e cammini la libertà per le strade.
Mi chiama
per mostrarmi tutti i luoghi
dove lo trascinarono,
a lui, luce dei paesi,
lampo di idiomi,
per mostrarmi
il carcere di Ocaña,
dove goccia a goccia
lo dissanguarono,
e dove mozzarono
la sua gola,
e dove lo uccisero sette anni
accanendosi
sul suo canto
perché quando uccisero quelle labbra
si spensero le lampade della Spagna.
E così mi chiama e mi dice:
“Qui mi giustiziarono lentamente.”
Così lui che amò e portava
sotto il suo povero vestito
tutte le sorgenti spagnole
fu assassinato sotto
l’ombra delle mura
mentre suonavano tutte le campane
in onore del carnefice,
ma
le zagare
diedero odore al mondo quei giorni
e quell’aroma era
il cuore martirizzato
del pastore di Orihuela
e era Miguel il suo nome.
Quei giorni e anni
mentre agonizzò,
nella storia
si seppellì la luce,
ma lì palpitò
e tornerà domani.
Quei giorni e secoli
in cui a Miguel Hernández
i carcerieri
diedero tormento ed agonia
la terra rimpianse
i suoi passi di pastore sui monti
e il guerrigliero morto,
cadendo, vittorioso,
sentì dalla terra
levarsi un rumore, un battito,
come se si socchiudessero le stelle
di un gelsomino silenzioso:
era la poesia di Miguel.
Dalla terra parlava,
dalla terra
parlerà per sempre,
è la voce del suo popolo,
egli fu tra i soldati
come una torre ardente.
Egli era
forza
di canti ed esplosioni,
fu come un panettiere:
con la sua mano produsse
i suoi sonetti.
Tutta la sua poesia
contiene terra porosa,
cereali, sabbia,
fango e vento,
ha forma
di brocca levantina,
di fianco ripieno,
di pancia di ape,
ha odore
di trifoglio nella pioggia,
di cenere amaranto,
di fumo di sterco, di sera,
sulle colline.
La sua poesia
è mais raggruppato
in un grappolo d’oro,
è vigna di uva nera, è bottiglia
di cristallo abbagliante
piena di vino ed acqua, notte e giorno,
è spiga scarlatta,
stella annunciatrice,
falce e martello scritti con diamanti
nell’ombra della Spagna.
Miguel Hernández, tutta
l’arancione creta o lievito
della tua terra ed il tuo popolo
rivivrà con te.
Tu la conservasti
con la mano più goffa, nell’agonia,
perché eri fatto
per l’alba e la vittoria,
eri fatto di acqua e terra vergine,
di stupore insaziabile,
di piante e di nidi.
Eri
la germinazione invincibile
della materia che canta,
eri
patria dell’integrità e disputasti
contro i nemici,
l’arabo e il franchista,
una mano pesante
piana di rampicanti e metalli.
Con la tua spada al braccio, invincibile,
morivi,
ma non eri solo.
Non solo l’erba bruciata
sulle povere colline di Orihuela
sparsero la tua voce ed il tuo profumo
per il mondo.
Il tuo popolo
sembrava
muto,
non guardava
la tua morte,
non udiva
le messe di disprezzo,
ma, va,
va e domanda,
va e vedi se c’è qualcuno
che non sappia il tuo nome.
Tutti sapevano
nelle carceri,
mentre i carcerieri
cenavano con Cossío,
il tuo nome.
Era uno splendore bagnato
dalle tue lacrime
la tua voce di miele selvatico.
La tua rivoluzionaria
poesia
era, in silenzio, in cella,
da un carcere all’altro,
ripetuta,
tesoreggiata,
e adesso
spunta il germe,
sale il tuo grano alla luce,
il tuo cereale violento
accusa,
in ogni strada,
la tua voce
riprende il cammino
delle insurrezioni.
Nessuno, Miguel, ti ha dimenticato.
Qui ti portiamo tutti
in mezzo al petto.
Figlio mio, ricorda
quando
ti ricevetti e ti posi
la mia amicizia di pietra nelle mani?
Ebbene, adesso,
morto,
tutto mi restituisci.
Sei cresciuto e cresciuto,
eri,
eri eterno,
eri la Spagna,
eri il tuo popolo,
ora non possono ucciderti.
Ora hai elevato
il tuo petto di granaio,
il tuo capo
si riempie di raggi rossi,
ora non possono fermarti.
Adesso
vogliono conficcarsi
come frati tardivi
nel tuo ricordo,
vogliono annaffiare con bava
il tuo volto, guerrigliero comunista.
Non possono.
non lo permetteremo.
Adesso
rimani puro,
rimani silenzioso,
rimani sonoro,
lascia
che preghino,
lascia
che cada il filo nero
dai suoi catafalchi marci
e bocche medioevali.
Non sanno altro.
Ora arriverà
il tuo vento,
il vento del popolo,
il viso di Dolores,
il passo vittorioso
della nostra mai morta
Spagna,
e allora,
arcangelo delle capre,
pastore caduto,
gigantesco poeta del tuo popolo,
figlio mio,
vedrai
che il tuo volto grinzoso
starà sulle bandiere,
vivrà nella vittoria,
rivivrà quando arriva il popolo,
marcerà con noi affinché nessuno
possa separarti mai dal grembo della Spagna.
V
CONVERSAZIONE DI PRAGA
(A Julius Fucik) (*)
(*) Giornalista ceco (Praga 1903 – Berlino 1943). Iscritto al P.C.C. dal 1921, collaborò ai giornali comunisti e per tale attività nel 1942, durante l’occupazione nazista della Cecoslovacchia, fu arrestato dalla Gestapo.. È autore di due libri di reportages sul soggiorno nell’U.R.S.S., Nel paese dove domani già significa ieri (1932) e Nella terra amata (postumo 1950), ma il suo lavoro più conosciuto è Scritto sulla forca (postumo 1945), taccuino della sua prigionia. I suoi studi di saggistica e critica sono di stretta osservanza marxista.
I
IL MIO AMICO DELLE STRADE
Per le strade di Praga in inverno ogni giorno
passai vicino al muro della casa di pietra
in cui fu torturato Julius Fucik.
La casa non dice niente, pietra color dell’inverno,
sbarre di ferro, finestre silenziose.
Ma ogni giorno io passai di lì,
guardai, toccai i muri, cercai l’eco,
la parola, la voce, la l’impronta pura
dell’eroe.
E così spuntò la sua fronte,
una volta, e le sue mani un’altra volta,
e poi tutto l’uomo mi accompagnò,
mi accompagnò,
attraverso la Piazza Wenceslas, un buon amico,
con me per il vecchio mercato di Havelska,
per il giardino di Starhov, da dove
Praga si eleva come una rosa grigia.
II
COSÌ SAREBBE PASSATO
Così sarebbe passato, così saresti passato,
se non fossi anche, quasi invisibile,
entrato per sempre nella storia.
Ci saremmo visto ogni giorno,
avremmo cambiato certi libri che amiamo,
io ti avrei raccontato
racconti di pescatori e minatori
della mia patria marina,
e avremmo riso
in tal modo che i passanti
avrebbero trovato pericolosa
la nostra grande allegria.
III
TU LO FACESTI
Ha avuto molti uomini,
molti Fucik,
che fecero bene tutte le cose della vita.
Anche tu, Julius Fucik,
le facesti.
I piccoli e grandi doveri dolorosi
e gli indispensabili
piccoli movimenti,
adempiere, adempiere:
la rettitudine è un punto rigoroso
che si ripete fino a essere una linea,
una norma, una strada,
e questo punto lo facesti
come tutti gli uomini semplici
per dover e per allegria,
perché così dobbiamo essere.
IV
IL DOVERE DI MORIRE
Ma quando all’orologio arrivò la lunga ora
della morte, adempisti,
adempisti con la stessa tranquillità allegra,
adempisti il dovere di morire.
Niente si spezza nella tua vita e nella tua morte:
è una sola linea senza rottura
quella costruita.
La linea continua viva,
continua diritta e crescente
andando, andando sempre,
dalla tua morte ad altre vite,
andando, andando sempre, accumulando esseri,
accumulando esseri, esistenze,
come un gran fiume si riempie di altri fiumi,
come nella musica il suono
si arricchisce e si alza,
così la tua voce, la tua vita continuano
andando per tutta la terra.
Non esiste eredità bensì sangue vivo,
non esiste ricordo bensì azione sicura,
e sei l’eroe umano
non il semidio di pietra,
quello che riempì la sua dimensione di uomo
con tutto il contenuto della vita,
non della sua sola vita
ma di tutte,
di tutte le nostre vite,
e in te la libertà non sono due ali
su uno scudo, né una statua morta,
bensì la ferma mano del Partito
che sostiene la tua
e anche la tua fermezza,
che in te crebbe di molte altre vite,
le nuove vite raccolsero
e seminarono sementi.
Gli uomini continuarono,
dal momento in cui cadde il tuo volto,
la lotta, e si tinse la nostra bandiera
con il sacro sangue
del tuo cuore invincibile.
V
ERI LA VITA
Per tutte le strade di Praga
La tua figura,
ma non un dio alato,
bensì il pallido viso perseguitato
che dopo la morte ci sorride.
L’eroe che non porta
sul suo capo immobile
gli allori di pietra dimenticata,
bensì un cappello vecchio
e nel taschino l’ultimo
messaggio del Partito,
il clandestino della mezzanotte
e dell’alba organizzata,
la circolare che macchia
col suo inchiostro fresco,
e così strada dopo strada
Fucik, con le tue consegne,
Fucik, con i tuoi opuscoli,
con il tuo vecchio cappello, senza orgoglio
né umiltà, fortificando
le armi della resistenza,
e andando verso la morte
con la tranquillità del passante
che deve vederla al prossimo angolo,
per le strade di perla antica
dell’inverno di Praga,
mentre il nemico nel castello
latrava alla sua muta di cani,
da una strada a un’altra
organizzavi
la unità del tuo popolo, la vittoria
che oggi corona la pace della tua patria.
VI
STAI IN OGNI PARTE
Stirpe di Fucik, lignaggio
di allegri silenziosi,
per tutta la terra spargete
il marchio umano inestinguibile.
Corea, terra amata, dimostrasti
ai bestiali invasori
di Filadelfia che la razza
di Fucik, sulla cenere,
sull’incendio ed il martirio,
continua accesa e vince la morte.
Lontano, nel Paraguay oscuro
e velenosamente verde,
i piccoli incarcerati,
i perseguitati nella selva,
al cadere sopra le foglie
insanguinate, vicino al fiume,
chiudono per sempre la stessa
bocca sovrumana di Fucik.
Nell’Iran il petrolio
torna nelle mani del popolo
scrivendo con lettere rosse
il tuo nome, Julio di Praga.
E la ragazza del Vietnam
che con dolci mani di fiori
maneggia la mitragliatrice,
nella sua cartella lacerata
dalle spine della selva,
porta il tuo libro in caratteri
che tu non potresti leggere:
il libro che negli ultimi giorni
i giustiziati di Atene
portano scritto sui nobili volti
perché gli assassini
trovino nuovamente le tue parole
sopra il sangue polveroso.
VII
SE GLI PARLO …
Migliaia di anni fa un uomo fu crocifisso,
morì per la sua fede, pensando al di là della terra.
La sua croce pesò sulla vita umana
e impastò l’angoscia e la speranza.
Noi abbiamo milioni di crocifissi
e la nostra speranza è sulla terra.
Che alzi gli occhi chi vuole vederla.
Dammi la mano se vuoi toccarla.
Nelle nuove risaie della Cina sta la nostra speranza.
E quando i denti bianchi del riso sorridono
non è vero che la terra è felice?
Non è vero che il grano e la carne, non è vero che la scuola,
la casa pulita, il lavoro assicurato e giusto,
la pace per i figli, l’amore,
il libro in cui l’allegria e la saggezza si unirono,
non è vero che sono queste le conquiste dell’uomo,
e queste semplici verità formano la nostra speranza?
Perché volete che ai contadini aymarás (*) della sfortunata Bolivia,
dimagriti dalla fame e dal freddo delle grandi altezze,
io vada domani a promettere il cielo?
Non mi crocifiggerete perché essi mi seguirebbero affamati.
Ma se gli parlo di una cooperativa agricola che vidi in Polonia,
dove il latte, il pane ed il libro erano comuni tesori,
allora mi colpirete con un palo nelle costole
e mi crocifiggerete se non mi difenderanno i miei.
Abbiamo un crocifisso per ogni chilometro di terra,
e vicino alla prospera New York, vicino allo Stork Club,
crocifiggono un negro e un bianco ogni giorno.
Ma noi non rimaniamo tranquilli
aspettando il martirio o l’incenso,
noi lotteremo ogni giorno della nostra vita,
noi vinceremo e adesso ti chiamiamo,
e così dalla sua forca e dalla sua croce, come la chiami non mi importa,
il cuore morto di Julius Fucik sconfisse i suoi carnefici.
(*) Indios che abitavano la regione del lago Titicaca e da cui si presume discenda la dinastia Incas.
VIII
RAGGIANTE JULIUS
Raggiante Julius – del favo delle vite
cellula ferra e dolce, fatta di miele a fuoco! –
dacci oggi come il pane di ogni giorno
la tua essenza, la tua presenza,
la tua semplice rettitudine di raggio puro.
Vieni a noi oggi, domani, sempre,
perché, ingenuo eroe,
sei l’architettura
dell’uomo di domani,
Quando la morte ti colpì, la luce
brillò sopra il pianeta
con il colore di ape dei tuoi occhi,
e il germe del miele e della lotta,
della dolcezza e della durezza,
rimasero piantati
nella vita dell’uomo.
La tua decisione distrusse la paura,
e la tua tenerezza, le tenebre.
Entrasti, uomo nudo,
nella bocca del nostro inferno
e con il corpo lacerato,
intatta, senza rotture fu la tua eleganza
e la verità attiva
che malgrado la morte preservasti.
IX
CON IL MIO AMICO DI PRAGA
Felice tu patria, Cecoslovacchia, madre
dagli occhi di acciaio, petalo preferito
dell’Europa, incoronata
dalla pace del tuo popolo!
Dolci colline, acque, tetti rossi,
e tremanti come pioggia verde
eleva il luppolo i suoi fili verticali,
mentre in Gotwaldov (*) un alveare
di intelligenza e di ragionamento sostiene
la nuova rosa del lavoro umano.
O Fucik, vieni, visita
con ne,
con me il puro suolo della tua patria,
verde, bianco e dorato,
e in essa illuminandola,
la chiarezza del paese!
Onore al nuovo solco
e alla nuova giornata,
e all’acciaio invincibile di Kladno! (**)
All’uomo nuovo che entra
nelle officine e nelle piazze,
ai nuovi ponti sicuri
sopra il tremore del vecchio fiume,
attraverso Fucik, il mio amico,
il mio compagno silenzioso,
che stette con me mostrandomi tutto
nel colore dell’inverno di Praga,
con il suo vecchio cappello invisibile
ed il suo dolce sorriso muto,
attraverso la vita e la morte,
l’eredità e il dono che ci dette.
Julius Fucik, io ti saluto,
Cecoslovacchia rinnovata,
madre di ragazzi semplici,
terra di silenziosi eroi,
repubblica di nebbia e di cristallo,
grappolo, spiga, acciaio, popolo!
(*) Godwaldov –> Klín. Città della Repubblica Ceca, Moravia Meridionale; 81000 abitanti; centro industriale delle calzature e chimico; dal 1848 al 1900 si chiamò Goltwaldov in onore di Gottwald Klement (uomo politico).
(**) Città vicino a Praga; 71000 abitanti; centro minerario (carbone) e industriale (siderurgia).
VI
È AMPIO IL NUOVO MONDO
CON TE PER LE STRADE
Voglio raccontare e cantare le cose
dell’ampia terra russa.
Solo poche cose,
perché non ne stanno tante nel mio canto.
Umili fatti, piante,
persone,
uccelli,
imprese degli uomini.
Molte sempre esistettero,
altre
stanno nascendo,
perché quella è la terra
della nascita infinita.
E così comincio, andando
con te per le strade,
per i campi,
vicino al mare in inverno.
Sei mio amico, vieni,
continiamo a camminare.
I
CAMBIA LA STORIA
Era il tempo di Pushkin,
la primavera arriva,
un’onda d’aria
come la vela pura
di una barca trasparente
andava per le praterie
alzando l’erba e l’aroma
delle germinazioni.
Vicino a Leningrado gli abeti
ballavano un valzer lento
di orizzonte marino.
Verso Est
marciavano i motori,
le ruote, l’energia,
i ragazzi e le ragazze.
Trepidava la steppa,
gli agnelli sembravano
una punteggiatura innevata
nella immensa estensione della dolcezza.
Ampia è l’Unione Sovietica,
come nessuna terra.
Ha spazio
per il più piccolo fiore azzurro
e per la gigantesca centrale elettrica.
Tremano e cantano grandi fiumi
sulla sua pelle estesa
e lì vive
lo storione che conserva avvolti nell’argento
minuti grappoli
di freschezza e delizia.
L’orso nelle montagne
va con piedi delicati
come un vecchio monaco nell’aurora
di una basilica verde.
Ma è l’uomo il re
delle terre sovietiche,
il piccolo uomo
che è appena nato,
si chiama Ivan o Pietro,
e piange
e chiede latte:
è lui, l’erede.
Ampio è il regno e imbottito
con tappezzeria di erba e neve.
La notte appena copre
con il suo diadema freddo
il capo, la cima
dei monti Urali,
e il mare lambisce il contorno
del cielo o terra dolce,
glaciali territori
o paesi d’uva.
Tutto possiede:
la terra in movimento
come una vasta impresa
nella quale egli deve,
da quando nasce,
cantare e lavorare,
perché il regno fecondo
è opera degli uomini.
Un tempo fu oscura la terra,
fame e dolore riempirono
il tempo e lo spazio.
Prima nella storia,
venne Lenin,
cambiò la terra,
poi Stalin
cambiò l’uomo.
Poi la pace, la guerra,
il sangue, il frumento:
difficilmente tutto
si poté compiere
con forza ed allegria,
e oggi Ivan ereditò
da mare a mare la primavera rossa,
da dove io ti conduco per mano.
Ascolta, ascolta
questo canto di uccelli:
fischia l’argento nel tremore bagnato
della sua voce mattutina,
lo inseguo tra aghi
e ventagli di pini,
un altro canto risponde,
si popola il bosco
di voci nell’altitudine.
Di bosco in bosco cantano,
di settimana in settimana,
di aurora in aurora cambiano
trilli i neonati.
Di villaggio in villaggio si rispondono,
di centrale in centrale,
di fiume in fiume,
di metallo in metallo, di canto in canto,
Il vasto regno canta,
si risponde cantando.
Rugiada hanno le foglie
nella chiara mattina.
Sapore di stella fresca
ha il bosco.
Come per un pianeta
sta lentamente camminando
la primavera per la terra russa,
e spighe e uomini nascono
sotto i suoi piedi di argento.
II
TRANSIBERIANO
Attraverso l’autunno siberiano:
ogni betulla è un candelabro d’oro.
Improvvisamente un albero nero, un albero roso,
mostra una ferita o una fiammata.
La steppa, il volto
di aspra intensità, ampiezza verde,
pianeta cereale, terrestre oceano.
Passai di notte
Novosibirsk, fondata
dalla nuova energia.
Nell’estensione le sue luci lavoravano
in mezzo alla notte, l’uomo nuovo
aveva una nuova naturalezza.
E tu, gran fiume Jenisej, mi dicesti
con orgogliosa voce al passaggio, la tua parola:
“Adesso non corrono invano le mie acque.
Sono sangue della vita che si sveglia”.
La piccola stagione in cui la pioggia
dona un ricordo di acqua agli angoli
e in alto le antiche, dolci case
di legno, frammenti dei boschi,
hanno ospiti nuovi, una fila
di ferro: sono i nuovi trattori
che ieri arrivarono, rigidi, uniformi
soldati della terra,
armi del pane, esercito
della pace e della vita.
Frumenti, legnami, frutti
della Siberia, benvenuti
nella casa dell’uomo:
nessuno vi dava diritto a nascere,
nessuno poteva sapere che esistevate,
finché si spezzò la neve
e tra le ali bianche del disgelo
entrò l’uomo sovietico
a spargere la semenza.
Oh terre siberiane,
alla luce gialla
del più esteso autunno della terra,
allegre sono le foglie d’oro,
tutta la luce vi coprì con la sua chioma rivoltata!
Il treno transiberiano
sta divorando il pianeta.
Ogni giorno un’ora
scompare davanti a noi,
cade dietro al treno,
si fa semenza.
Giunto agli Urali
lasciamo il buon freddo dell’autunno
e davanti a Krasnoyarsk , avanti di un giorno, (*)
la primavera invisibile
vesti nuovamente il suo tiepido vestito azzurro.
Nella cabina seguente
viaggia il giovane geologo
con sua moglie ed un bambino piccolo.
la isola di Sajalin li attende
con i suoi quaranta gradi
di freddo e solitudine,
ma aspettano anche i metalli
che hanno dato appuntamento agli scopritori.
Avanti, bambino sovietico!
Come vinceremo la solitudine,
come vinceremo il freddo,
come guadagneremo la pace
se tu non vai per il transiberiano
a fecondare le isole?
Il treno sta ripartendo
fino a Vladivostock, e ancora
tra gli arcipelaghi del colore dell’acciaio,
ai ragazzi che cambieranno la vita,
che cambieranno freddo e solitudine e vento
in fiori e metalli.
Avanti ragazzi
che in questo treno transiberiano,
durante sette giorni di marcia
sognate sonni precisi
di ferro e di raccolti.
Avanti, treno siberiano
la tua volontà tranquilla
quasi trasforma il globo!
Estensione, ampia terra, percorrendoti,
scivolando nel treno giorni e giorni,
amai le tue latitudini steppose,
le tue coltivazioni, i tuoi popoli, le tue fabbriche,
i tuoi uomini riducendoti a essenza
e il tuo autunno infinito che mi copriva d’oro
mentre il treno vinceva la luce e la distanza!
Da ora ti porterò nei miei occhi,
Siberia, madre
gialla, incircondabile
primavera futura!
(*)Krasnojarsk, citta della Siberia orientale; miniere di manganese, lignite, oro.
III
TERZO CANTO DI AMORE A STALINGRADO
Stalingrado con le ali torride
dell’estate, le bianche
costruzioni si alzano:
una città qualunque.
La gente frettolosa
al suo lavoro.
Un cane attraversa
il giorno polveroso.
Una ragazza corre
con un foglio in mano.
Non succede niente,
ma il Volga
ha acque oscure.
Ad una ad una le case
si elevarono
dal petto dell’uomo,
e restituirono i timbri della posta,
le buche delle lettere,
gli alberi,
restituirono i bambini,
gli scolari,
restituì l’amore,
le madri
hanno partorito,
restituirono le ciliegie
ai rami,
il vento
al cielo,
e allora?
Si, è la stessa,
non c’è dubbio.
Qui stette la linea,
la strada,
l’angolo,
il metro e il centimetro,
dove la nostra vita e la ragione
di tutte le nostre vite
fu guadagnata
col sangue.
Qui si tagliò il nodo
che strinse la gola
della storia.
Qui fu. Se sembra impossibile
che possiamo
calpestare la strada e vedere
la ragazza e il cane,
scrivere una lettera,
mandare un telegramma,
ma talvolta
per questo,
per questo giorno uguale
a ciascun giorno,
per questo sole semplice
sulla pace degli uomini
stette la vittoria,
qui, in questa cenere
della terra sacra.
Pane di oggi, libro di oggi, pino recente
piantato questa mattina,
luminoso viale
appena uscita dalla carta
da cui l’ingegnere
la progettò sotto il vento della guerra,
bambina che passi, cane
che attraversi il giorno polveroso,
oh miracoli,
miracoli del sangue,
miracoli dell’acciaio e del Partito,
miracoli del nostro nuovo mondo.
Ramo di acacia con spine e fiori,
dove, dove
avrai maggior profumo
che in questo luogo in cui tutto il profumo fu cancellato,
in cui tutto cadde
tranne l’uomo,
l’uomo di questi giorni,
il soldato sovietico?
Oh ramo profumato,
odori
qui
più che una riunita primavera!
Qui odori di uomo e di speranza,
qui, ramo di acacia,
non poté bruciarti il fuoco
né seppellirti il vento della morte.
Qui resuscitasti ogni giorno
senza esser mai morto,
e oggi nel tuo aroma l’infinito umano
di ieri e di domani,
di dopodomani,
ci vuol dare la sua eternità florida.
Sei come la fabbrica di trattori:
oggi fioriscono ancora
grandi fiori metallici
che entreranno nella terra
perché la semina
sia moltiplicata.
Anche la fabbrica
fu cenere,
ferro contorto, schiuma
sanguinosa della guerra,
ma il suo cuore non si fermò,
stava apprendendo a morire e a rinascere.
Stalingrado insegnò al mondo
la suprema lezione della vita:
nascere, nascere, nascere,
e nasceva
morendo,
sparava
nascendo,
andò bocconi e si alzava
con un fulmine nella mano.
Tutta la notte andò dissanguandosi
e già nell’aurora
poteva prestare sangue
a tutte le città della terra.
Impallidiva con la neve nera
e tutta la notte cadeva
e quando tu guardavi
per vederla cadere, quando piangevamo
la fine della sua resistenza,
essa ci sorrideva,
Stalingrado
ci sorrideva.
E ora
la morte se ne è andata:
solo alcune pareti,
alcune contorsioni di ferro
bombardato e ritorto,
solo alcune tracce
come una cicatrice di orgoglio,
oggi tutto è chiarezza, luna e spazio,
decisione e bianchezza,
e in alto
un ramo di acacia,
foglie, fiori, spine difensore,
la estesa primavera
di Stalingrado,
l’invincibile aroma
di Stalingrado!
IV
L’ANGELO SOVIETICO
Erano centocinquanta anni
che giaceva sepolto.
A Petrograd di seta e sangue
cadde con una pallottola sporca
in qualche parte del petto.
Passò il tempo.
Per più di cento inverni cadde la neve
sopra tetti e strade,
ma aperta e sanguinante
stava quella
piccola ferita rossa
nel petto di pietra, seta e oro
di Petrograd. Un filo
di sangue accusava. Andava
e veniva,
saliva per le cupole,
correva per la seta
della casacche ricamate,
improvvisamente appariva
come pietra preziosa
sopra il decolleté
di una bellezza,
e ahi, era solo un coagulo
i sangue che accusava.
Così era,
così era in sangue di Pushkin
assassinato.
andava da tutte le parti
come un filo
infinito.
Nel silenzio
di Petrograd, nella pietra e nell’acqua
della città addormentata,
nella statua di Pietro ed il suo cavallo,
il filo,
il filo di sangue
camminava,
camminava cercando.
Finché un giorno
albeggiò l’aurora sparando.
Sulle scale
del Palazzo d’Inverno
si presentò un tappeto
di strana struttura:
era uomo e collera,
era speranza e fuoco,
erano teste giovani e grigie,
la fronte delle genti.
E poi Lenin
con la sua firma
base della speranza
cambiò la storia.
Allora
quel filo di sangue che accusava
tornò indietro
e chiaro, aereo e rosso,
l’angelo pensieroso
visse di nuovo.
Pushkin
si guardò la camicia:
già non sanguinava il foro sporco
che lasciava la pallottola assassina.
Il popolo
aveva espulso
gli spadaccini
dalle casacche dorate,
i carnefici
decorati con gocce di sangue
e adesso
con la ferita chiusa
ricevette in testa
il vento di alloro
e si mie a camminare per le strade,
accompagnò il suo popolo.
E, vivo di nuovo,
sfolgorante nella sua statua,
ondulando nel cielo
come un grande bandiera,
mescolandosi agli uomini
all’uscita dello stabilimento,
nella campagna
con i capelli bagnati
o riposando un poco
giunto ai fasci di frumento,
vidi il giovane Pushkin.
Il mio amico
non parlava,
dovevo leggerlo.
Io camminai la vasta geografia
dell’URSS
guardandolo e leggendolo,
e lui con la sua antica voce mi decifrava
la vita e le terre.
Un tranquillo orgoglio,
come un sonno,
invadeva il suo volto
quando al mio fianco
stava volando
trasparente nell’aria trasparente,
sopra la libertà spaziosa
delle città e delle praterie.
V
SULLA SUA MORTE
Compagno Stalin, ero vicino al mare a Isla Negra,
riposando dalla lotta e dai viaggi,
quando la notizia della tua morte arrivò come un colpo di oceano.
Fu per primo il silenzio, lo stupore delle cose, e dopo arrivò dal mare una grande onda.
Di alghe, metalli e uomini, pietre, schiuma e lacrime era fatta questa onda.
Di storia, spazio e tempo riunì la sua materia
e si elevò piangendo sopra il mondo
finché di fronte a me venne a colpire la costa
e abbatté alle mie porte il suo messaggio di lutto
con un grido gigante
come se bruscamente si spaccasse la terra.
Era il 1914.
Nelle fabbriche si accumulavano immondizie e dolori.
I ricchi del nuovo secolo
si ripartivano a morsi il petrolio e le isole, il rame e i canali.
Nessuna bandiera levò i suoi colori
senza gli schizzi di sangue.
Da Hong Kong a Chicago la polizia
cercava documenti e collaudava
le mitragliatrici sulla carne del popolo.
Le marce militari dall’alba
mandavano soldatini a morire.
Frenetico era il ballo dei gringos
nelle boites di Parigi piene di fumo.
Si dissanguava l’uomo.
Una pioggia di sangue
calò sul pianeta,
macchiava le stelle.
La morte inaugurò allora armature di acciaio.
La fame
nelle strade dell’Europa
fu come un vento gelato sparpagliando foglie secche e spezzando ossa.
L’autunno gonfiava gli stracci.
La guerra si era rizzata nelle strade.
Odore di inverno e sangue
emanava dall’Europa
come da un mattatoio abbandonato.
Nel frattempo i padroni
del carbone,
del ferro,
dell’acciaio,
del fumo,
delle banche,
del gas,
dell’oro,
della farina,
del salnitro,
del giornale “El Mercurio”,
i padroni del bordelli
i senatori nordamericani,
i filibustieri
carichi di oro e sangue
di tutti i paesi,
erano anche i padroni
della Storia.
Lì stavano seduti
in frac, occupatissimi
a dispensarsi decorazioni,
a regalarsi assegni all’ingresso,
a rubarseli all’uscita,
a regalarsi azioni della carneficina
e ripartirsi a morsi
pezzi di paese e di geografia.
Allora con modesto
vestito e berretto operaio,
entrò il vento,
entrò il vento del popolo.
Era Lenin.
Cambiò la terra, l’uomo, la vita.
L’aria libera rivoluzionaria
scompigliò le carte
disonorate. Nacque una patria
che non ha smesso di crescere.
È grande come il mondo, ma entra
fin nel cuore del più
piccolo
lavoratore di fabbrica o di ufficio,
di agricoltura o imbarcazione.
Era l’Unione Sovietica.
Vicino a Lenin
Stalin avanzava
e così, con blusa bianca,
con berretto grigio di operaio,
Stalin,
col suo passo tranquillo,
entrò nella Storia accompagnato
da Lenin e dal vento.
Stalin da allora
fu costruttore. Tutto
occorreva. Lenin
ricevette dagli zar
ragnatele e stracci.
Lenin lasciò una eredità
di patria libera e orgogliosa.
Stalin la popolò
con scuole e farina,
tipografie e mele.
Stalin dal Volga
fino alla neve
del Nord inaccessibile
pose la sua mano e nella sua mano un uomo
cominciò a costruire.
Le città nacquero.
I deserti cantarono
per la prima volta con la voce dell’acqua.
I minerali
accorsero,
spuntarono
dai loro sonni oscuri,
si sollevarono,
si fecero rotaie, ruote,
locomotive, fili
che portarono le sillabe elettriche
per tutta l’estensione e la distanza.
Stalin
costruiva.
Nacquero
dalle sue mani
cereali,
trattori,
insegnamenti,
strade,
e lui lì,
semplice come te e come me,
se tu ed io otterremo
di essere semplici come lui.
Ma lo impareremo.
La sua semplicità e la sua saggezza,
la sua struttura
di buon pane e di acciaio inflessibile
ci aiuta a essere uomini ogni giorno,
ogni giorno ci aiuta ad essere uomini.
Essere uomini! È questa
la legge staliniana.
Essere comunista è difficile.
Devi imparare a esserlo.
Essere uomini comunisti
è ancora più difficile,
e devi imparare da Stalin
la sua intensità serena,
la sua chiarezza concreta,
il suo disprezzo
all’orpello vuoto,
alla cieca astrazione editoriale.
Egli visse direttamente
sviscerando il nodo
e mostrando la retta
chiarezza della linea,
entrando nei problemi
senza le frasi che nascondono
il vuoto,
diretto al centro debole
che nella nostra lotta rettificheremo
potando il fogliame
e mostrando il progetto dei frutti.
Stalin è il mezzogiorno,
la maturità dell’uomo e dei popoli.
Nella guerra lo videro
le città bruciate
estrarre dalle macerie
la speranza,
rifonderla di nuovo,
farla acciaio,
e attaccare con i suoi fulmini
distruggendo
la fortificazione delle tenebre.
Ma anche aiutò i meli
della Siberia
a dare i loro frutti sotto la tormenta.
Insegnò a tutti
a crescere, a crescere,
a piante e metalli,
a creature e fiumi
gli insegnò a crescere,
a dar frutti e fuoco.
Gli insegnò la Pace
e così fermò
col suo petto disteso
i lupi della guerra.
Staliniani. Portiamo questo nome con orgoglio.
Staliniani. È questa la gerarchia del nostro tempo!
Lavoratori, pescatori, musicisti staliniani!
Forgiatori di acciaio, padri del rame, staliniani!
Medici, minatori del nitrato, poeti staliniani!
Letterati, studenti,contadini staliniani!
Operai, impiegati, donne staliniane,
salve in questo giorno! Non è scomparsa la luce,
non è scomparso il fuoco,
finché si accresce
la luce, il pane, il fuoco e la speranza
dell’invincibile tempo staliniano!
Nei suoi ultimi anni la colomba,
la Pace, la errante rosa perseguitata,
si fermò sulle sue spalle e Stalin, il gigante,
la elevò all’altezza della sua fronte.
Così videro la pace popoli distanti.
Da steppe e mari, praterie, riunioni,
gli occhi degli uomini diressero
i loro sguardi a questo faro con colombe,
e né il selvaggio rancore né il veleno arrogante
degli incrudeliti, né la smorfia
di Churchill o Eisenhower o Trujillo,
né il latrato radiale dei venduti,
né il gutturale grugnito dello sciacallo sconfitto,
diminuirono la sua epica statura
né scalfissero la sua semplice forza.
Di fronte al mar di Isla Negra, nel mattino,
issai a mezz’asta la bandiera del Cile.
Era solitaria la costa e una nebbia d’argento
si mescolava alla schiuma solenne dell’oceano.
A metà del suo palo, nel campo azzurro,
la stella solitaria della mia patria
sembrava una lacrima tra il cielo e la terra.
Passò un uomo del popolo, salutò comprendendo,
e si levò il cappello.
Venne un ragazzo e mi strinse la mano.
Più tardi il pescatore di ricci, il vecchio palombaro
e poeta,
Gonzalito, si avvicino per accompagnarmi sotto la bandiera.
“Era più saggio che tutti gli uomini uniti”, mi disse
guardando il mare con i suoi vecchi occhi, con i vecchi
occhi del popolo.
E poi per lunghi momenti non ci dicemmo niente.
Una onda
scosse le pietre della riva.
“Ma Malenkov ora continuerà la sua opera”, proseguì
levandosi il povero pescatore la giacca logora.
Io lo guardai sorpreso pensando: Come, come lo sa?
Da dove, in questa costa solitaria?
E compresi che il mare glielo aveva insegnato.
E lì vegliammo riuniti, un poeta,
un pescatore e il mare
il Capitano lontano che all’entrare nella morte
dette a tutti i popoli, come eredità, la sua vita.
VII
LA PATRIA DEL GRAPPOLO
La tunica verde
Io per le strade,
per i monti andai.
Le vigne mi coprirono con la loro tunica verde,
assaggiai il vino e l’acqua.
Nelle mie mani
volò la farina, scivolò l’olio,
ma
è il popolo d’Italia
il prodotto più fine della terra.
Io andai nelle fabbriche,
parlai con gli uomini,
conosco il sorriso
bianco dei volti anneriti,
ed è come farina dura questo sorriso:
l’aspra terra è il suo mulino.
Io andai
tra i pescatori nelle isole,
conosco il canto
di un uomo solo,
solo nelle solitudini sassose,
ho tirato le reti con i pesci,
ho visto sulle scarpate calcinate
del sud, raschiare le viscere
della terra più povera.
Ho visto il luogo
in cui il mio amico il guerrigliero Benedetti
immobile con l’esplosivo in mano
lasciò lì per sempre
il volto ma non il sorriso.
Dappertutto
ho toccato
la materia umana
e questo contatto
fu per me come terra nutrice.
Io avevo camminato molto
parlando con abiti,
salutando cappelli,
dando la mano a guanti.
Io camminai molto
tra uomini senza uomo,
donne senza donna,
case senza porta.
Italia, la misura
dell’uomo semplice innalzi
come il granaio il grano,
accumulando chicchi,
copioso tesoro puro,
germinazione profonda
della delicatezza e la speranza.
La mattina
la più antica
delle donne, grigia color olivo,
mi portava
fiori di roccia, rose strappate
al difficile profilo dei pendii.
Rose e olio verde, erano i doni
che io raccolsi, ma
soprattutto
saggezza e canto
appresi dalle tue isole.
Dovunque andrò porterò nelle mie mani
come se fosse il tocco
di un legno puro,
musicale e fragrante
conservato dalle mie dita,
il passare degli esseri,
la voce e la sostanza,
la lotta e il sorriso,
le rose e l’olio,
la terra, l’acqua, il vino
della tua terra e del tuo popolo.
Io non vissi con le statue a pezzi
né con i templi la cui dentatura
cadde con le antiche gerarchie.
Nemmeno vissi
solo di azzurro e fragranza,
io ricevetti le profonde scosse
dell’oceano
umano:
nella maggior miseria
delle cadenti periferie
misi il mio cuore
come una rete notturna,
e conosco le lacrime e la fame
dei bambini,
ma
conosco anche il passo
dell’organizzazione e la vittoria.
Io non lasciai il mio petto
come una lira immobile
sciogliersi nella dolcezza,
ma andai nelle fabbriche
e so che il volto
dell’Italia cambierà. Ho toccato nel fondo
il germinare incessante
del mattino, e aspetto.
Mi sono bagnato nelle acque
di un’eterna sorgente.
Chioma di Capri
Capri, regina di roccia,
nel tuo vestito
color amaranto e giglio
vissi sviluppando
la felicità e il dolore, la vigna piena
di splendenti grappoli
che conquistai sulla terra,
il tremulo tesoro
di fragranza e di chioma,
lampada zenitale, rosa allargata,
favo del mio pianeta.
Sbarcai d’inverno.
Il suo abito di zaffiro
l’isola conservava ai suoi piedi,
e nuda sorgeva nel suo vapore
di cattedrale marina.
Era di pietra la sua bellezza. In ogni
frammento della sua pelle rinverdiva
la primavera pura
che nascondeva nelle fenditure il suo tesoro.
Un lampo rosso e giallo
sotto la luce tenue
giaceva sonnolento
aspettando l’ora
di scatenare il suo potere.
Sulla sponda di uccelli immobili,
in mezzo al cielo,
un roco grido, il vento
e l’indicibile spuma.
D’argento e di pietra il tuo vestito, appena
il fiore azzurro esplode
ricamando il manto irsuto
col suo sangue celeste.
Oh solitudine di Capri, vino
dell’uva d’argento,
coppa d’inverno, piena
di esercizio invisibile,
innalzai la tua fermezza,
la tua delicata luce, le tue strutture,
e il tuo alcool di stella
bevvi come se stesse
nascendo in me la vita.
Isola, dalle tue pareti
spiccai il piccolo fiore notturno
e lo conservo nel mio petto.
E dal mare girandoti intorno
feci un anello d’acqua
che lì rimase nelle onde,
chiudendo le torri orgogliose
di pietra fiorita,
le cime aspre
che il mio amore sostennero
e conserveranno con mani implacabili
l’impronta dei miei baci.
La polizia
Noi siamo
della polizia.
– E lei? Chi è?
Da dove viene, dove
vuole andare?
Suo padre? Suo cognato?
Con chi ha dormito le ultime sette notti?
– Io ho dormito col mio amore, io sono forse,
forse, forse,
sono della Poesia.
E così una gondola
più nera delle altre
dietro di me li portò a Venezia,
a Bologna di notte,
sul treno: sono un’ombra errante
seguita dalle ombre.
Io vidi a Venezia, dritto il campanile
che innalzava tra i colombi di San Marco
il suo tricorno poliziesco.
E Paolina, nuda, nel museo,
quando baciai la sua bella bocca fredda
mi chiese: Ha le carte in regola?
Nella casa di Dante
sotto gli antichi tetti fiorentini
ci sono interrogatori, e Davide
con i suoi occhi di marmo, senza pupille
si dimenticò di suo padre, Buonarroti,
perché l’obbligano ogni giorno a raccontare
quel che con occhi ciechi ha visto.
Tuttavia quel giorno
in cui mi portavano alla frontiera svizzera
la polizia trovò all’improvviso
che le veniva incontro
la militante poesia.
Non dimenticherò la folla romana
che alla stazione, di notte,
mi strappò dalle mani
della persecutrice polizia.
Come potrei dimenticare il gesto guerrigliero
di Guttuso e il viso di Giuliano,
l’onda d’ira, il colpo sul naso
dei segugi, come dimenticare Mario,
dal quale in esilio
imparai ad amare la libertà d’Italia,
e poi iraconda la sua testa bianca
vidi confusa
nel mare agitato
dei miei amici e dei miei nemici?
Non dimenticherò il piccolo
ombrello di Elsa Morante
che si abbatte su un petto poliziesco
come il pesante petalo
di una forza fiorita.
E così in Italia
per volontà del popolo,
peso di poesia,
fermezza di solidarietà,
azione della tenerezza,
si fermò il mio destino.
E così avvenne
che questo libro cominciò a nascere
circondato da mare e piante di limoni,
Eccitando in silenzio,
dietro il muro della polizia,
come lottava e lotta,
come cantava e canta
il valoroso popolo
che vinse una battaglia perché io potessi
riposare nell’isola che mi aspettava
con un ramo fiorito di gelsomino in bocca
e nelle sue piccole mani la fonte del mio canto.
Gli dèi straccioni
Da secoli vive la miseria
nel sud dell’Italia. Guardate il suo trono:
pendono come tappezzerie
le tremule ragnatele nere
e topi grigi rodono
i legni antichi.
Bucherellato trono che attraverso
le finestre rotte
della notte di Napoli respira
con rantolo terribile,
e tra i buchi
i neri riccioli cadono sulle tempie
dei bimbi belli
come piccoli dèi straccioni.
Oh Italia, nella tua dimora
di marmo e splendore, chi abita?
Così tratti, antica lupa rossa,
la tua progenie d’oro?
Triste è la voce del sud nelle strade.
Acida ombra il cielo
lascia cadere sulle case in rovina,
dalle porte esce
il ramo scarruffato
della fame e della povertà
e tuttavia canta
la tua testa sonora.
Triste è la voce del sud nelle strade.
Le genti mettono avanti
più di una bocca affamata
che comunque canta.
Il rosso vino bevo
alzando nel bicchiere
non solo il sole maturo,
ma la luce antica dell’ira.
Marciano verso la terra
i contadini d’Italia.
Si stancarono
di raspare la pietra
e penetrarono nel dominio,
nel feudale territorio.
Uomini, donne, bambini
in fretta si raggrupparono sotto un albero
e subito
a pulire la terra,
a scavarla,
a romperla,
e nel solco
cade il grano,
il pugno di grano che conservarono
come se fosse stato oro
le mani dei poveri,
e allora
la prima cucina che manda fumo,
il fuoco,
la biancheria che si lava,
la vita.
Arrivarono
i soldati,
il governo cristiano.
«Non potete seminare,
non potete accendere il fuoco.
La terra
dei signori
deve restare sterile.
Strappate il grano,
disfate il solco,
spegnete il fuoco».
I vecchi volti,
le mani rugose,
tanto simili a terra, solchi, semi, fuoco,
rimasero immobili
e quando alzarono i fucili
i soldati cristiani
essi cantavano, e caddero
cantando.
Il sangue bagnò il grano
ma lì cresce
un cereale indomabile,
un cereale che canta anche nella morte.
Questo avvenne quando vissi in Italia.
Ma i contadini
così conquistarono la terra.
È arrivata la flotta
Quando arriva la flotta
nordamericana
svanisce la bandiera
pastorale
d’Italia.
Finisce l’azzurro, e le chitarre
dove sono? Quella
ondata di miele e luce
che avvolge
esseri, conversazioni, monumenti,
tutto si nasconde, solo
le presenze d’acciaio nel golfo,
lenti rettili,
lingue
maledette della guerra,
e in alto
la bandiera
dell’invasore
con le strisce carcerarie
e le stelle rubate.
I postriboli
aumentano,
e lì incespicando
i marinai civilizzatori
passano,
crollano a terra,
entrano a suon di pugni
nei poveri focolari della costa,
Proprio come
prima era successo all’Avana,
a Panama, a Valparaíso,
in Nicaragua, in Messico.
Quando parte
la flotta
li segue un cargo via terra.
Su treni, camion,
si dirige un postribolo
verso il nuovo porto in cui le navi grigie
vanno a difendere la cultura.
Ah, quante difficoltà!
Mancano alberghi dove
sistemare le ragazze
in maniera strategica nel porto!
Ah, ma per questo
tutto il governo si è mobilitato.
Corre il signor De Gasperi vestito
con la sua giacchetta più tetra,
e il ministro della polizia
spazza le stanze
perché tutto
si svolga
con efficacia estrema.
Poi
i signori ministri italiani
si riuniscono,
si congratulano
e il Presidente del Consiglio, secco
e funereo come una cassa da morto,
dichiara con voce melliflua:
«Superando le difficoltà
abbiamo assolto i nostri obblighi
nei confronti della flotta nordamericana.
Inoltre stasera, con orgoglio
lo dichiaro,
ho proibito una mostra di pittura,
ho espulso un poeta pericoloso
e ho inviato alla frontiera
il corpo di ballo di Leningrado.
Così
facciamo vedere come qui in Italia
difendiamo
la cultura cristiana».
Frattanto nei porti
la bandiera dei pastori,
lo splendore dell’Italia,
si nasconde, e l’ombra
delle corazzate
dorme nell’acqua, come
nei putridi fossi della selva
aspettano i rettili.
Ma
azzurro è il cielo d’Italia,
generosa la sua terra povera,
ampio il petto del popolo,
forte il suo aspetto
e quel che racconto è vero,
ma non sarà in eterno.
Ti costruii cantando
Io ti creai, io t’inventai in Italia.
Ero solo.
Il mare tra i crepacci
lanciava violento
la sua spuma seminale.
Così si preparava
l’aspra primavera.
I semi addormentati schiudevano
i capezzoli inumiditi,
segreta sete e sangue
ferivano la mia testa.
Io di mare e di terra
ti costruii cantando.
Ebbi bisogno della tua bocca, dell’arco puro
del tuo piccolo piede, della tua chioma
di cereale tostato.
Io ti chiamai e venisti dalla notte,
e alla luce dischiusa dell’aurora
vidi che esistevi
e che da me come dal mare la spuma
tu sei nata, piccola dea mia.
Fosti dapprima un seme in letargo
che aspettava
sotto la terra oscura
la crescita della primavera,
ed io in quel tempo addormentato
sentii che mi toccavi
sottoterra,
perché stavi per nascere, e io ti avevo
seminato
nella mia esistenza. Poi il tempo
e l’oblio vennero
ed io dimenticai che tu stavi con me,
crescendo solitaria
dentro di me, e d’un tratto
mi accorsi che la tua bocca
era sorta dalla terra
come un fiore gigante.
Eri tu che esistevi.
Io ti avevo creato.
Il mio cuore allora
tremò riconoscendoti
e volle respingerti.
Ma non potemmo.
La terra era piena
di grappoli sacri.
Mare e terra nelle tue mani
esplodevano
con i doni maturi.
Così la tua dolcezza si è sparsa
nel mio respiro e nei miei sensi
perché da me sei stata creata
per aiutarmi
a vivere l’allegria.
E così, la terra,
il fiore e il frutto, fosti,
così dal mare venivi
sommersa aspettando
e ti sei stesa vicino a me nel sonno
dal quale non ci risvegliamo.
VIII
LONTANO, NEI DESERTI
I
TERRA E CIELO
Alture della Mongolia,
desertiche alture,
improvvisamente vidi la mia patria,
il Grande Nord, Cile,
la pelle secca, graffiata
della terra ai limiti del cielo.
Vidi i monti di sabbia,
l’estensione taciturna:
mi concentrai ascoltando
il vento atroce di Gobi,
le tormente
nel “tetto del mondo”
tutto tanto rassomigliante
alle regioni
di rame e sale e cielo
del mio paese andino.
Poi il vento
porta odore di cammello,
una briciola bruciata
si trasformò in incenso,
la luce fermò
un dito
sopra la seta
di una bandiera rossa,
e vidi che ero lontano
dalla mia patria.
I mongoli ormai non erano
gli erranti
cavalieri
del vento e della sabbia:
erano i miei camerata.
Mi mostrarono
i loro laboratori.
Dolce lì in alto era
la parola
metallurgia.
Lì dove i maghi
tessero
saggezza e ragnatele,
in Durga, negra Durga, (*)
adesso
riluceva
il nuovo nome,
Ulan Bator, (**)
il nome
di una capitale del popolo.
E era tutto
tanto semplice.
I giovani,
gli universitari del deserto,
chini
sopra i microscopi.
Nelle sabbie fredde
dell’altura
rilucevano
i nuovi istituti,
si perforavano le miniere,
i libri e la musica
cantavano nel coro
del vento
e l’uomo
rinasceva.
(*) Durga – città della Mongolia
(**) Ulan Bator – capitale della Mongolia
II
LÌ STAVA IL MIO FRATELLO
Lì stetti.
Lì ho visto
non solo sabbia e aria,
non solo
cammelli e metalli,
ma anche l’uomo,
il lontano
fratello mio,
che nasceva adesso nel mezzo
della solitudine planetaria,
differenziandosi
dalla natura,
che conosceva
il mistero dell’elettricità e della vita,
che dava la mano all’Est
e all’Ovest,
che dava la mano al cielo
ed al la terra
che distribuiva,
che esisteva,
che assicurava
il pane e la tenerezza
tra i suoi figli.
Oh territori duri,
contrafforti lunari,
in voi
sale
la semenza
del tempo socialista
e sale
dalla pietra
il fiore e la bellezza,
la fabbrica che guarda al cielo
con palpebre di fumo
e con i minerali dominati
elabora attrezzi e allegria.
III
MA DETTE FRUTTO
Ma quando
tra gli aridi
sistemi delle sommità
appare
l’uomo,
trasformato,
quando
dalla yurta
sale un uomo
che lotterà con la natura,
l’uomo che è non solo
di una tribù,
ma anche della accesa massa umana,
non l’errante
profugo delle alte solitudini,
cavaliere della sabbia,
ma anche mio compagno,
associato al destino del suo popolo,
solidale con tutto il genere umano,
figlio e continuatore della speranza,
allora,
si compì il compito
tra le cicatrici dei monti:
lì anche l’uomo è nostro fratello.
Lì la terra dura dette il suo frutto.
IX
IL CAPITELLO SPEZZATO
I
IN QUESTI ANNI
Adesso
in questi anni
dopo il mezzo secolo,
un silenzio pauroso
dall’Occidente
trema, spaventato.
Un’altra volta, un’altra volta
forse la guerra.
La mappa fredda
attraversata dai cipressi,
da ombre verticali,
la notte attraversata
da pugnali o lampi.
È così la minaccia
sopra il tetto e il pane.
Silenzio
di albero con occhi scuri,
l’ombra
copre la Grecia.
Un’altra volta acqua amara
sopra l’età raggiante
delle statue cieche.
Che succede?
Dove siamo?
Un tempo un re e una regina
furono prefabbricati,
“made in England”.
Dopo è la storia
di questo tempo terribile,
i crudeli ufficiali
resuscitati
dall’opera sanguinosa,
i nordamericani che amministrano
la rosa
di Prassitele
devastando
con questo o con quello.
Chi lo avrebbe pensato,
chi
si sarebbe
azzardato
a pensare che le pietre
più pure,
tagliate con il filo dell’aurora,
stavano per essere macchiate,
che la Grecia andava a cadere
in una fossa scura
di Chicago.
Chi lo dirà
invece agli astri greci,
le righe
della tragica musa
del tempo più antico,
che così stava succedendo.
Le api
ronzano
elaborando
miele con sangue,
luce di martirio,
alveoli
di architettura oltraggiata.
II
BELOJANNIS L’EROE
Così, tra le colonne,
Belojannis:
dorica è l’aureola
della luce nelle sue tempie.
Non sono le automobili
a illuminare il crimine.
È un pianeta,
è una stella rossa,
è un igneo scintillio
dell’antica e della nuova
chiarezza della terra …
Cade,
gli hanno sparato
dal Pentagono
pallottole che attraversarono
il mare per conficcarsi
nel suo petto illustrissimo,
pallottole che raccolsero
spine inumane
per entrare nella grotta
verde e bianca della Grecia,
lacerando i muri,
schizzando
di sangue
le foglie dell’acanto.
III
SGUARDO ALLA GRECIA
Oh lacrime, non è tempo
di accorrere ai miei occhi,
non è ora
di accorrere agli occhi degli uomini,
palpebre, sollevantesi
dall’oscurità del sonno, chiare
o oscure pupille,
occhi senza lacrime, guardate la Grecia
crocifissa sulla sua trave.
Guardatela tutta
la notte, l’anno, il giorno,
versandosi il sangue del suo popolo,
colpendosi le tempie
col suo terribile capitello di spine.
Guarda, occhi del mondo,
quello che la Grecia, la pura,
sopporta, la frustata
del mercante di schiavi,
e così di notte e anno e mese e giorno
vedete come si alza la testa
del suo popolo orgoglioso.
Da ciascuna goccia
caduta dal martirio,
cresce di nuovo l’uomo,
il pensiero tesse le sue bandiere,
l’azione conferma pietra a pietra
e mano a mano
l’altezza del castello.
Oh Grecia chiara,
se ti rovesciò sopra l’oscurità l suo sacco
di stelle nere, sappi
che in te stessa
sta la chiarezza, che tu accogli
la notte intera nel tuo grembo
finché dalle tue mani
si leva l’aurora,
velo bianco inzuppato di rugiada.
Alla sua luce ti vedremo,
antica e chiara madre degli uomini,
sorridere, vittoriosa,
mostrandoci di nuovo la tua bianchezza
di statua, tra i monti.
X
IL SANGUE DIVISO
I
A BERLINO, LA MATTINA
Mi svegliai. Era Berlino. Dalla finestra
vidi il cuore sdentato,
la pazza sepoltura,
la cenere,
le rovine più profonde,
con rosoni e fregi
feriti gravi,
balconi strappati da una nera mandibola,
muri che adesso decadranno, che non incontreranno
le loro finestre, le loro porte,
i loro uomini, le loro mogli,
e una montagna dentro
le macerie ammucchiate,
sofferenza e superbia confusi
nella farina finale, nel mulino
della morte.
Oh cittadella, oh sangue
inutilmente scomparso,
forse è questa, è questa
la tua prima vittoria,
ancora tra macerie nere
la pace che hai conosciuto,
pulendo le ceneri e elevando
la tua cittadella verso tutti gli uomini,
estraendo dalle tue rovine,
non i morti,
ma anche l’uomo comune,
l’uomo nuovo,
che edificherà le strutture
dell’amore, della pace e della vita.
II
GIOVANI TEDESCHI
Come un ramo rosso
in un albero bruciato
appare e in esso
il fiore del tempo brilla.
Così, Germania, nel tuo volto
bruciato dalla guerra,
la tua nuovo gioventù illumina
le bruciature e le cicatrici
dell’inferno passato.
Io ricevei giunto all’Elba,
vicino alla trasparenza
del suo antico corso,
quando dalla Boemia
il treno arrivò in Germania,
la florida gioventù di adesso
con i suoi solidi sorrisi
e le mani
piene di fiori che mi davano
ragazzi e ragazze
pieni di lillà.
Ma non erano solo i fiori
quello che davano la luce sopra l’acqua,
era il nuovo germoglio umano,
il sorriso strappato alle ciliegie,
il diretto sguardo,
le forti mani che stringevano le tue,
e gli occhi direttamente azzurri.
Lì tremò la terra
con tutta la crudeltà ed il castigo,
e adesso,
giovani
dell’acqua e della terra rinati,
con fiori nella bocca,
alzando l’amore sopra la terra,
con la parola Stalin
in milioni di labbra,
fiorivano.
Oh, prodigio,
è qui di nuovo la vita,
alba di luce, alveare,
granaio interminabile,
la pace e la vita,
ramo e ramo,
acqua e acqua,
grappolo e grappolo,
dalle cicatrici sconfitte
verso la nuova
maturità dell’aurora.
E io dimenticai le rovine,
l’alfabeto di pietra bruciata,
la lezione del fuoco,
dimenticai la guerra,
dimenticai l’odio,
perché vidi la vita.
Oh giovani,
giovani tedeschi,
nuovi preservatori della nuova primavera,
forti e franchi giovani della nuova Germania,
guardate verso l’Est,
guardate verso la vasta Unione
delle Repubbliche amate.
Vedete come anche dalle rovine
albeggia in Polonia
un forte sorriso.
Cina la gigantesca ha scosso
le sue catene piene di sangue
e adesso è nostra immensa sorella.
Davanti a voi
sta il tesoro del mondo,
non solo l’antico tesoro del saccheggio,
anche il nuovo tesoro,
e anche spazio pieno
di esseri fraterni,
la pace, vento delle spighe, l’incontro
con l’uomo remoto
che non viene a rubarcele.
Sta passando e crescendo
per tutte le terre un filo
di acciaio di cui ci prendiamo cura,
il mare sta cantando vicino all’uomo
il suo eterno inno di schiuma,
e come un telegramma di ogni giorno l’aria
ci porta notizie.
Quante fabbriche nuove sono nate,
quante scuole hanno cancellato l’ombra,
quanti ragazzi sanno da oggi
il linguaggio segreto
dei metalli e delle stelle,
come estrarremo pane dal pianeta
per tutti
e daremo freschezza alla terra,
vecchia madre di tutti gli uomini.
Inventeremo acqua nuova,
riso celeste,
motori di vetro.
Estenderemo
più in là delle isole lo spazio.
Nei deserti di fuoco e sabbia
vedremo come danza
la primavera nelle nostre braccia, perchè
niente sarà dimenticato,
né la terra,
né l’uomo.
L’uomo non sarà dimenticato
e questo è il tesoro.
Giovani che dal fondo
della guerra
portaste un sorriso
che non sarà soffocato,
questo è il tesoro:
non dimenticare l’uomo.
Perché così è più grande la terra
che tutti gli astri riuniti.
Così cresceremo ogni giorno e ogni
giorno siamo più ricchi di uomini,
abbiamo più fratelli,
all’aria, nelle miniere,
nelle alte pianure
della Mongolia metallica.
L’uomo,
all’Est, Al Nord, al Sud,
all’Ovest, verso l’alto,
dove si muove il vento,
l’uomo.
Guarda, ragazzo, come ti salutano,
guarda come è cresciuta la tua famiglia,
grande è la terra e tua,
grande è la terra e mia,
è di tutti,
saluta,
saluta il mondo,
il nuovo mondo che è nato
e che con te crescerà
perché tu sei seme.
Crescerai, cresceremo.
E niente può abbattere l’albero
né tagliare le sue radici
perché nel tuo cuore stanno crescendo
e l’albero riempirà tutta la terra
di fiori e canti e frutti.
III
LA CITTÀ FERITA
Berlino tagliata
continuava sanguinando
segreto sangue, oscura
la notte andava e veniva.
Lo splendore del tempo
come un lampo a Berlino Est
illuminava il passo
dei giovani liberi
che costruivano la città di nuovo.
Nell’ombra passai da lato a lato
e la tristezza di una età antica
mi riempì il cuore come una pala
carica di immondizia.
In Berlino custodiva l’Occidente
la sua “Libertà” inumana,
e lì anche stava
la statua con la sua falsa
lanterna, la sua maschera lebbrosa
dipinta di alcolico carminio,
e nella mano il randello
appena sbarcato da Chicago,
Berlino Occidentale, con il tuo mercato
di giovani prostitute
e di soldati invasori ebbri,
Berlino Occidentale, per vendere la tua povera
mercanzia
hai riempito i muri
con manifesti con gambe oscene,
con vampire seminude,
e perfino le sigarette un sapore
di vizio nero hanno.
I pederasti ballano stringendosi
ai tecnici dello State Department.
Le lesbiche trovarono
il loro protetto paradiso
e il loro santo: San Ridgway.
Berlino Occidentale, sei la pustola
del volto antico dell’Europa,
le vecchie volpi naziste
scivolano nel muco
delle tue illuminate strade sudice,
e Coca-Cola e antisemitismo
corrono in abbondanza
sopra i tuoi escrementi e le tue rovine.
È la città maledetta, figlia della tartaruga Truman
e del riesumato coccodrillo hitleriano,
e le affilano i denti,
e le danno baionette
mentre il boogy-boogy
scatena il filo delirante
del mercato sessuale per soldati.
“Giovanetta tedesca
di diciannove aprili
cerca un vecchio signore, o commerciante
istruito, per vendergli subito
la sua giovinezza”, dice il giornale.
E all’ombra terribile
della notte che passa
sbarcano i carri armati.
I gas che assassinarono
una metà dell’Europa
tornano a essere fabbricati
con monopolio nordamericano.
Vecchi carnefici nazisti
appaiono nuovamente e latrano
nei caffè, fiutando il sangue,
l’arte astratta e il conflitto dell’”anima”
sono temi dell’arte, spruzzata
con sangue e sesso,
come ai bei tempi di Adolfo
chiudono giornali e colpiscono il ventre
di qualche ragazzetta comunista
che gli sputa in faccia.
Così è la vita,
e in questa Berlino caddero uomini
e tutti i grappoli della morte.
Per questa città scura,
postulare, velenosa,
la Libertà dette le sue più grandi vene,
dissanguandosi dal Volga
fino alle acque nere dello Sprea.
Per questo ballo nordamericano
e questo randellaccio di Washington,
lottarono, ahi, lottarono
tutti gli uomini
da un mare all’altro,
perfino tutte le terre e le isole.
Per questo volo di passo in passo
a Berlino Orientale, anche la notte
copre i soffitti rotti,
ma io vedo il sonno,
perché il lavoro dorme
per accumulare nella notte la sua forza.
Vedo gli ultimi giovani che cantano
tornando dalle fabbriche..
Vedo
la luce attraverso la notte,
il colore dei fiori
che riempivano i treni quando arrivai in Germania.
Respiro perchè l’uomo
qui è mio fratello.
Qui non allenano il lupo,
non affilano i denti
per iniziare la partita di caccia.
Qui odora
di scuola pulita ed annaffiata,
odora di mattoni appena trasportati,
odora di acqua fresca,
odora di panetteria,
odora di verità e di vento.
XI
NOSTALGIE E RITORNI
I ritorni
Nel sud dell’Italia, nell’isola,
appena tornato
dall’abbagliante Ungheria, dalla scabra
Mongolia,
il sole sull’inverno,
il sole sul mare dell’inverno.
Un’altra volta,
un’altra volta cominciamo,
amore, di nuovo facciamo
un cerchio nella stella.
Sia la luce,
sia la trasparenza.
Facciamo
un cerchio nel pane.
Sia fra tutti gli uomini
la distribuzione di tutti i beni.
Si faccia giustizia,
faremo.
Vita,
mi desti
tutto.
Allontanasti da me la solitudine,
la solitaria lampada
e il muro.
Mi desti
amore a piene mani,
battaglie,
allegrie,
tutto.
E lei me l’affidasti
mio malgrado.
Chiusi gli occhi.
Non volevo vederla.
Venisti,
nonostante ciò,
completa,
completa con tutti i tuoi doni
e con la ferita che io stesso misi
dentro di te come un fiore sanguinante
che mi fece barcollare senza abbattermi.
La passeggera di Capri
Da dove, pianta o raggio,
da dove, raggio nero o pianta dura,
venivi e venisti
fino all’angolo marino?
Ombra del continente più lontano
c’è nei tuoi occhi, luna aperta
nella tua bocca selvaggia,
e il tuo viso è la palpebra di un frutto addormentato.
Il capezzolo satinato di una stella è la tua forma,
sangue e fuoco di antiche lance c’è sulle tue labbra.
Dove raccogliesti
pelali trasparenti
di sorgente, da dove
portasti il seme
che riconosco? E poi
il mare di Capri in te, mare straniero,
dietro di te le rocce, l’olio,
il retto chiarore ben costruito,
ma tu, io conosco,
io conosco quella rosa,
io conosco il sangue di quella rosa,
io so che la conosco,
lo so da dove viene,
e fiuto l’aria libera di fiumi e cavalli
che la tua presenza porta alla mia memoria.
La tua chioma è una lettera rossa
piena di bruschi baci e di notizie,
la tua affermazione, la tua investitura chiara
mi parlano a mezzogiorno,
a mezzanotte bussano alla mia porta
come se indovinassero
dove vogliono tornare i miei passi.
Forse, sconosciuta,
il sale di Maracaibo
risuona nella tua voce riempiendola di sogno,
o il freddo vento di Valparaíso
scosse la tua ragione quando crescevi.
La verità è che oggi, guardandoti passare
tra gli uccelli dal petto rosato
dei faraglioni di Capri,
la fiamma dei tuoi occhi, qualcosa
che vidi volare dal tuo petto, l’aria
che circonda la tua pelle, la luce notturna
che dal tuo cuore senza dubbio esce,
qualcosa arrivò alla mia bocca
con un sapore di fiore che conoscevo,
qualcosa tinse le mie labbra col liquore oscuro
delle piante silvestri della mia infanzia,
e io pensai: Questa dama,
sebbene il classico azzurro sparga tutti
i grappoli del cielo sulla sua gola,
sebbene dietro di lei i templi
cingano col loro biancore coronato
tanta bellezza,
lei non è, lei è un’altra,
qualcosa crepita in lei che mi chiama:
tutta la terra che mi diede la vita
è in questo sguardo, e queste mani
sottili
raccolsero l’acqua alla sorgente
e questi minuscoli piedi misurarono
le vulcaniche isole della mia patria.
Oh tu, sconosciuta, dolce e dura,
quando già il tuo passo
scese fino a perdersi,
e solo le colonne
del tempio diruto e lo zaffiro verde
del mare che canta nel mio esilio
rimasero soli, soli
con me e con la tua ombra,
il mio cuore diede un gran palpito,
come se una grande pietra sospesa
nell’invisibile altezza
cadesse all’improvviso
sull’acqua e schizzassero le spume.
E risvegliai della tua presenza allora
coi viso bagnato
dalle tue stille,
acqua e aroma e sogno,
distanza e terra e onda!
Quando del Cile
O Cile, lungo petalo
di mare e vino e neve,
ahi quando
ahi quando e quando
ahi quando
m’incontrerò con te,
arrotolerai il tuo nastro
di spuma bianca e nera alla mia vita,
scatenerò la mia poesia
sul tuo territorio.
Ci sono uomini
metà pesci e metà vento,
ci sono altri uomini fatti d’acqua.
Io sono fatto di terra.
Vado per il mondo
ogni volta più allegro:
ogni città mi da una nuova vita.
Il mondo sta nascendo.
Ma se piove a Lota
su di me cade la pioggia,
se a Lonquimay la neve
scivola dalle foglie
arriva la neve dove mi trovo.
Cresce in me il grano scuro di Cautín.
Io ho un araucaria a Villarrica,
ho arena nel Norte Grande,
ho una rosa bionda nella provincia,
e il vento che abbatte
l’ultima onda di Valparaíso
mi colpisce il petto
con un rumore franto
come se lì avesse
il mio cuore una finestra rotta.
Il mese di ottobre è arrivato da
tanto poco tempo dal passato ottobre
che, quando è arrivato, sembrò
mi stesse guardando il tempo immobile.
Qui è autunno. Attraverso
la steppa siberiana.
Giorno dopo giorno tutto è giallo,
l’albero e l’officina,
la terra e ciò che in essa l’uomo nuovo crea:
c’è oro e fiamma rossa,
domani immensità, neve, purezza.
Al mio paese la primavera
viene da nord a sud con la sua fragranza.
E’ come una ragazza
che per le pietre nere di Coquimbo,
per la sponda solenne della spuma,
vola con piedi nudi
fino agli arcipelaghi feriti.
Non solo territorio, primavera,
riempiendomi, mi offri.
Non sono un uomo solo.
Nacqui nel sud. Dalla frontiera
portai le solitudini e il galoppo
dell’ultimo caudillo.
Ma il Partito mi fece scendere da cavallo
e mi fece uomo, e percorsi
i deserti di sabbia e le cordigliere
amando e scoprendo.
Popolo mio, è vero che in primavera
risuona il mio nome alle tue orecchie
e tu mi riconosci
come se fossi un fiume
che passa per la tua porta?
Sono un fiume. Se ascolti
pianamente sotto le saline
di Antofagasta, oppure
al sud di Osorno
o verso la cordigliera, a Melipilla,
o a Temuco, nella notte
di astri bagnati e lauro sonoro,
poggi l’orecchio a terra,
sentirai che corro
sommerso, cantando.
Ottobre, oh primavera,
riportami al mio popolo.
Che farò senza vedere mille uomini,
mille ragazze,
che farò senza portare sulle spalle
una parte della speranza?
Che farò senza camminare con la bandiera
che di mano in mano nella trafila
della nostra lunga lotta
giunse alle mie mani?
Ahi Patria, Patria,
ahi Patria, quando
ahi quando e quando
quando
m’incontrerò con te?
Lontano da te
Metà terra ma e uomo tuo
ho continuato ad essere,
e un’altra volta oggi la primavera passa.
Ma io con i tuoi fiori mi sono riempito,
vado con la tua vittoria sulla fronte
e in te continuano a vivere le mie radici.
Ahi quando
troverò la tua dura primavera,
e tra tutti i tuoi figli
andrò per i tuoi campi e le tue strade
con le mie scarpe vecchie.
Ahi quando
andrò con Elías Lafferte
per tutta la pampa dorata.
Ahi quando premerò la tua bocca,
cilena che mi aspetti,
con le mie labbra erranti?
Ahi quando
porrò entrare nella sala del Partilo
e sedermi con Pedro Fogonero,
che non conosco e tuttavia
è più fratello mio di mio fratello.
Ahi quando
mi scuoterà dal sogno un tuono verde
del tuo manto marino.
Ahi quando, Patria, alle elezioni
andrò di casa in casa raccogliendo
la libertà timorosa
perché gridi in mezzo alla strada.
Ahi quando, Patria,
ti sposerai con me
con occhi verdemare e vestito di neve
e avremo milioni di figli nuovi
che daranno la terra agli affamati.
Ahi Patria, senza cenci,
ahi primavera mia,
ahi quando
ahi quando e quando
mi risveglierò fra le tue braccia
fradicio di mare e di rugiada.
Ahi quando sarò vicino
a te, ti cingerò la vita,
nessuno potrà toccarti,
io potrò difenderti
cantando,
quando
starò con te, quando
starai con me, quando
ahi quando.
La cintura di Orinoco
Carlo Augusto mi ha mandato
una cinta di cuoio di Orinoco.
Ora attorno alla vita
porto un fiume,
uccelli nuziali che nel loro volo innalzano
i petali del folto del bosco,
l’ampio tuono che persi nell’infanzia
oggi lo porto legato,
cucito con lampi e pioggia,
e tiene su i miei vecchi pantaloni.
Cuoio di litorale, cuoio di fiume,
ti amo e tocco,
sei fiore e legno, saurio e fango,
sei argilla estesa.
Passo la mano sulle tue grinze
come sulla mia patria. Hai labbra
di un bacio che mi cerca.
Ma non solo amore, oh terra, hai,
so che mi conservi anche
il morso, il filo del coltello, lo sterminio
che domandano di me tutti i giorni,
perché la tua costa, America, non ha solo piume
di un ventaglio incendiario,
non ha solo zucchero luminoso,
frutti che palpitano,
ma il velenoso sussurro
della coltellata segreta.
Qui soltanto
ho misurato il fiume:
non sta male attorno alla mia vita.
L’Orinoco
è come un nome che mi manca.
Io mi chiamo Orinoco,
io devo andare con l’acqua alla cintura,
e da ora,
questa striscia di cuoio
crescerà con la luna,
aprirà i suoi estuari all’alba,
percorrerà le strade
con me ed entrerà nelle assemblee
ricordandomi
di dove sono: delle terre aspre
di Sinaloa e di Magallanes,
delle vette di ferro andino,
delle isole degli uragani,
ma più di tutti i posti,
del fiume caimano verde,
dell’Orinoco, avvolto
dai suoi respiri,
che tra le sue due rive sempre appena ricamate
va estendendo il suo canto per la terra.
Carlo Augusto, grazie,
giovane fratello, perché nel mio esilio
l’acqua patria mi hai mandato. Un giorno
vedrai apparire sulla corrente
del fiume
che impetuosa corre e ci riunisce,
un volto, il nostro popolo,
alto e felice che canta con le acque.
E quando questo volto ci guarderà
penseremo «abbiamo fatto la nostra parte»
e canteremo con i nostri fiumi,
con i nostri popoli canteremo.
Un giorno
A te, amore, questo giorno
a te lo consacro.
Nacque azzurro, con un’ala
bianca in mezzo al cielo.
Arrivò la luce
all’immobilità dei cipressi..
Gli esseri minuscoli
andarono sul bordo di una foglia
o verso la macchia di sole su una pietra.
E il giorno rimane azzurro
finché entrerà nella notte come un fiume
e farà tremare l’ombra con le sue acque azzime.
A te, amore, questo giorno.
Appena, da lontano, dal sogno,
lo presentii e appena
mi toccò il suo tessuto
di rete incalcolabile
io pensai: è per lei.
Fu un palpito d’argento,
fu un pesce azzurro che vola sul mare,
fu un contatto di sabbie lucenti,
fu il volo di una freccia
che tra il cielo e la terra
attraversò il mio sangue
e come un raggio raccolsi od mio corpo
il dilagante chiarore del giorno.
È per te, amor mio.
Io dissi: è per lei.
Questo vestito è suo.
Il lampo azzurro che si fermò
sull’acqua e la terra
a te lo consacro.
A te, amore, questo giorno.
Come una coppa elettrica
o una corolla di acqua tremula,
innalzalo nelle tue mani,
bevilo con gli occhi e la bocca,
spargilo nelle tue vene perché arda
la stessa luce nel tuo sangue e nel mio.
E ti do questo giorno
con quel che porta con sé:
la trasparente uva di zaffiro
e la raffica rotta
che avvicina alla tua finestra
i dolori del mondo.
Io ti do tutto il giorno.
Di chiarore e di dolore faremo
il pane della nostra vita,
senza rifiutare quel che ci porterà il vento
o raccogliere solo la luce del cielo,
ma le cifre aspre
dell’ombra sulla terra.
Tutto ti appartiene.
Tutto questo giorno col suo azzurro grappolo
e la segreta lacrima di sangue
che troverai sulla terra.
E non ti accecherà l’oscurità
o la luce smagliante:
di questa pasta umana
sono fatte le vite
e questo pane dell’uomo mangeremo.
E il nostro amore fatto di luce oscura
e di ombra splendente
sarà come questo giorno vincitore
che entrerà come un fiume
di chiarore a metà della notte.
Prendi questo giorno, amata.
Tutto questo giorno è tuo.
Lo dono ai tuoi occhi, amor mio,
lo dono al tuo petto,
te lo lascio nelle mani e tra i capelli,
come un ramo celeste.
Te lo dono per farti un vestito
d’argento azzurro e d’acqua.
Quando arriverà
la notte che questo giorno inonderà
con la sua rete palpitante,
stenditi vicino a me,
toccami e coprimi
con tutti i tessuti stellati
della luce e dell’ombra
e chiudi i tuoi occhi allora
perché io possa addormentarmi.
XII
IL FIORE DI SETA
I
IL GIGLIO LONTANO
Corea, la tua dimora
era un giardino attivo
di nuovi fiori che si costruivano.
Era la tua pace di seta
un manto verde,
un giglio che innalzava
il suo veloce lampo giallo.
Dell’Asia raccoglievi
la luce dissotterrata.
Continuavi tessendo
con fili anteriori
la nuova trama del vestito nuovo.
Il tuo vestito di bambola insanguinata
si stava cambiando in pantaloni da fabbrica
e i fili di seta
raccoglievano ricchezza dalle cascate,
portavano le parole nel vento.
Volevi con le tue mani
ritagliare la tua propria stella ed elevarla
nella edificazione del firmamento.
II
GLI INVASORI
Vennero.
Quelli che devastarono
prima il Nicaragua.
Quelli che rubarono il Texas.
Quelli che umiliarono Valparaíso.
Quelli che con artigli sporchi
tagliarono la gola
di Puerto Rico.
Arrivarono in Corea.
Arrivarono.
Con napalm e con dollari,
con distruzione, con sangue,
con ceneri e lacrime.
Con la morte.
Arrivarono.
La madre ed il bambino
bruciarono vivi nel villaggio.
Sulla scuola fiorita
diressero
il loro petrolio ardente.
A distruggere le vite e la vita.
A cercare all’aperto
fino all’ultimo
pastore nelle montagne
e ucciderlo.
A mozzare il petto
della raggiante guerrigliera.
A uccidere prigionieri nei loro letti.
Arrivarono.
Con le loro strisce e le loro stelle.
Ed i loro aerei assassini.
Arrivarono.
E subito fu solo morte.
Fumo, ceneri, sangue, morte.
III
LA SPERANZA
Per tutto il tempo l’uomo
dà la sua prova.
Sembra che si estinguano
improvvisamente le semenze e le lampade
e non è vero.
Allora
appare
un uomo, una nazione, una bandiera,
una bandiera che non conoscevamo,
e sopra il palo
e il colore che ondeggia,
più alta del sangue,
torna a vivere la luce tra gli uomini
e la semenza torna a essere seminata.
Onore a te, Corea,
madre della nostra epoca,
madre nostra dalle labbra devastate,
madre nostra spezzata nel martirio,
madre bruciata in tutti i suoi villaggi,
madre cenere, madre macerie, madre patria!
IV
IL TUO SANGUE
Si, sappiamo,
si, lo sappiamo tutto.
I tuoi figli morti e le tue figlie morte
li abbiamo contati
uno ad uno ogni lunga notte.
Non c’è numero non c’è nome
per tanti dolori,
ma neppure c’è numero
per quello che ci deste,
per i dissanguati
eroi che in questa ora
posero nelle tue mani,
Corea,
il tesoro orgoglioso,
la libertà, non soltanto
la tua libertà, Corea,
bensì la libertà intera,
quella di tutti,
la libertà dell’uomo.
V
LA PACE CHE TI DOBBIAMO
Al tuo sangue, Corea,
difensore
dei fiori,
deve la pace il mondo.
Con il tuo sangue, Corea,
con la tua tragica mano lacerata,
ci difendesti tutti!
Con il tuo sangue,Corea,
nella mia epoca, in tutti gli anni duri,
la libertà poté dire il suo nome
e continuare la sua eredità.
Le lampade
rimarranno accese
e le semenze cercheranno la terra.
XIII
PASSANDO PER LA NEBBIA
I
LONDRA
A notte fonda, Londra,
a fatica intravista,
occhi innumerevoli,
dura segreta ombra,
botteghe piene di sedie,
sedie e sedie, sedie.
Il cielo scuro
seduto sopra Londra,
sopra la sua nebbia nera,
scarpe e scarpe,
fiume e fiume,
strade demolite dai denti
della miseria colore del ferro,
e sotto la spazzatura
il poeta Elliot
con il suo vecchio frac
leggeva ai vermi.
Mi chiesero quando
nacqui, perché venni
a disturbare l’Impero.
Tutto era polizia
con libri e manganelli.
Mi chiesero
di mio nonno e dei miei zii,
dei miei personalissimi affari.
Erano freddi
i giovani coltelli
sopra i quali
si siede
siede
siede
la matrona Inghilterra,
sempre seduta
sopra milioni di lacerazioni,
sopra povere nazioni cenciose,
seduta
sopra il suo oceano
di riservato uso personale,
oceano
di sudore, sangue e lacrime
di altri popoli.
Lì seduta
con i suoi vecchi merletti
prendendo tè e udendo
gli stessi pettegolezzi sciocchi
di principesse,
incoronazioni
e duchi coniugali.
Tutto succede nelle fiabe.
Nel frattempo
fa la ronda la morte con cappello
vittoriano
e scheletro logoro
per gli anneriti vermicai
degli scuri sobborghi.
Nel frattempo
la polizia ti interroga:
è la parola pace che li inchioda
come una baionetta.
Questa parola pace
essi vorrebbero
sotterrarla,
ma
non possono per ora.
Le lanciano sopra ombra,
nebbia
di polizia,
la legano e la rinchiudono,
la colpiscono,
la spruzzano di sangue e martirio,
la interrogano,
la gettano nel mare profondo
con una pietra in ciascuna
sillaba,
la bruciano con un ferro,
con una sciabola
la tagliano,
le gettano aceto, fiele, menzogna,
la impacchettano,
la coprono di cenere,
la gettano.
Ma allora
vola di nuovo
la colomba:
è la parola pace con piume nuove,
è il gelsomino del mondo
che avanza con i suoi petali,
è la stella del sogno e del lavoro,
l’uccello bianco
del velo immacolato,
la rosa che naviga,
il pane di tutte le vite,
la stella di tutti gli uomini.
II
IL GRANDE AMORE
Tuttavia,
Inghilterra,
c’è qualcosa di mogano
nella tua vita,
vecchio legno usato
dalla mano dell’uomo,
sedia di chiesa, coro
di cattedrale nella nebbia..
Qualcosa
a te ci unisce,
è qualcosa
contenuto
dietro le tue finestre,
un vento brusco, un uccello
di litorale selvaggio,
una malinconia mattutina,
qualcosa di impossibilmente solitario.
Amai la vita
dei tuoi uomini, falsi
conquistatori conquistati,
sparsi ai quattro venti del pianeta
per riempire la tua cassa. Tuttavia
se l’oro li mosse con la sua onda nera,
non furono solo quello
ma esseri
timidi esseri nelle tenebre, soli,
mentre lo stendardo coi leoni
soffocava la lotta dei popoli.
Poveri bambini inglesi, padroni poveri
di un mondo sgranato,
io so che per voi
è naturale
l’usignolo terrestre.
Shelley canta nella pioggia
e decora la pioggia
la sua cetra scarlatta.
Nasce nel tuo litorale l’aggressivo
pugnale di prua verso tutti i mari,
ma nella tua sabbia il perseguitato
incontrò il pane e costruì la sua casa.
Lenin sotto la nebbia
entrava nel Museo
alla ricerca di uno scritto,
di una data, di un nome,
mentre tutta la terra
sembrava oppressa,
solitudine sola, steppa impenetrabile,
lì, con i suoi occhiali
e il suo libro,
Lenin,
cambiava in luce la nebbia
Ebbene, ciò eri,
Inghilterra,
torre di asilo,
cattedrale di rifugio,
e quelli che ora
chiudono con la polizia
le righe scritte, le parole,
il tesoro
della saggezza che proteggi,
quelli che negano la tua sabbia
al pellegrino della pace errante,
non sono degni
della tua antica verità, del tuo legname,
ma ti accoltellano,
uccidono in te quello che ti proteggeva,
non il cuore, ma il decoro.
Patria di uccelli marini,
a me hai insegnato
quanto so degli uccelli.
Mi mostraste la squama
brunita dei pesci,
il tesoro plenario
della natura,
catalogasti fiumi, fiori,
molluschi e vulcani.
Alle accanite
regioni della mia patria
arrivo il giovane Darwin,
con la sua lampada
e la sua luce illuminò la terra
e il mare profondo
tutto quello che abbiamo:
piante, metalli, vite
che tessono la struttura
della nostra oscura stella.
Più tardi Hudson
nelle praterie
si occupò degli uccelli che erano
stati dimenticati dai libri
e con essi
riempì la geografia
che ci sta partorendo poco a poco.
Inghilterra,
sei dolce
scopritrice
di piume e radici,
hai potuto
essere la conoscenza innamorata,
e ora
perché permetti
che nella tua grondaia
vivano i distruttori di uccelli,
i rapaci, i becchini?
Fosti
penetratrice
del più segreto
labirinto
della vita e delle vite,
e ora,
quando ascoltiamo
la tua voce
udiamo la cenere,
la distruzione della polvere, l’agonia.
Io so che canti
e sei
semplice come la tua smarrita gente
dei sobborghi e miniere,
grave e scoppiettante
come il carbone che scavano.
Ti chiedo,
Inghilterra,
di tornare
a essere
inglese,
mi senti?
Si, che sia
inglese,
che non ti rendano simile a Chicago,
che non ti rendano simile alla polizia, che respiri,
che sia e che sia
quello che sei stata
nel tuo campo e nei tuoi paesi,
orto fruttifero di uccelli e genti,
umanità semplice,
rifugio di uomini perseguitati,
scopritrice di uccelli.
Inghilterra,
ti chiedo
di essere una regina delle isole,
non una vassalla isolana,
di obbedire
al tuo coro di uccelli marini,
alla tua semplice stirpe
mineraria e marinara.
Io vengo a dirti in segreto
che vogliamo amarti.
È difficile,
tu sai
quante cose accaddero
nei distanti territori,
sangue, esplosioni,
eccetera e eccetera.
Ebbene, ora,
nell’ora dell’amore
ti vogliamo amare.
Preparati come un tempo
per l’amore che torna,
per l’amore che cresce
nell’onda più alta
dell’oceano umano.
Preparati
alla pace,
e allora,
torna a essere quello che amiamo,
uomini come noi,
terra come la nostra,
questo è quello che vogliamo.
Tutti
viviamo
sulla terra
sotto gli stessi boschi,
sopra la medesima sabbia.
Non possiamo
contrastare l’autunno,
o lottare
contro la primavera,
dobbiamo
vivere
sopra le stesse onde.
Sono nostre, degli uomini,
dei bambini.
Tutte
le onde,
non hanno marchio alcuno,
né la terra
ha marchio,
per questo
uomini di tante razze e regioni
in questa epoca
della fertilità, dei destini
e delle invenzioni,
possiamo scoprire
il grande amore
e impiantarlo
sui mari e sulla terra.
XIV
LA LUCE BRUCIATA
I
LA FIAMMA SCURA
Sta la rosa di oggi nell’annuncio
di ieri sopra il ramo.
È solo chiarore, luce costruita,
gorgoglio di bellezza,
piccolo raggio rosso
sollevatosi dalla terra.
I pini nel vento
spandono il loro suono ed i loro aghi,
il sale del mare raccoglie
il peso azzurro, opprimente del cielo.
Di pace è questo giorno
libero e aperto e chiaro
come il nuovo edificio di una scuola.
Di pace è fatto il vento
che attraversa le altezze dei pini.
Di pace, amore mio, è questa
luce delle tua capigliatura
che cade nelle mie mani
quando reclini la testa e chiudi,
per un solo minuto,
le porte della terra,
del mare e dei pini.
Non è petalo, non è rosa,
non è fiammata scura:
è sangue, ora,
in questo giorno oltre il vento.
II
LA TERRA TEMPESTOSA
Amore, amore, ora
perfora con i tuoi occhi
lo spessore.
È in Vietnam, un aspro
odore di luce bruciata,
in vento di essenze e sepoltura.
Avanza
con i tuoi occhi,
apri tra liane e canneti
il cammino del raggio dei tuoi occhi.
Vedo
gli eroi
lacerati,
da sole a sole, senza notte, senza rugiada,
piccoli capitani
del sudore e della polvere
che difendono la pelle aggrovigliata,
la terra tempestosa,
i fiori della patria.
Giovani del Vietnam oscurati
dalla selva, dal silenzio
e dalla menzogna:
io non merito il mare,
io non merito
questo giorno di pace e di gelsomini.
Per voi è, per voi,
il tesoro terrestre,
per tutti
quelli che dall’invasore e dal suo fuoco
centimetro per centimetro,
con il loro sangue ed le proprie ossa,
riconquistarono la patria.
Per essi
la pace del giorno e della mattina
che riunite
in un nascondiglio di selva o di cemento
avremo riconquistato
per tutti gli uomini.
XV
LA LAMPADA MARIMA
I
IL PORTO COLOR DEL CIELO
Quando sbarchi
a Lisbona,
cielo celeste e rosa rosa,
stucco bianco e oro,
petali di mattone,
le case,
le porte,
i tetti,
le finestre
spruzzate dell’oro dei limoni,
dell’azzurro oltremare delle navi.
Quando sbarchi
non conosci,
non sai che dietro le finestre
ascoltano,
fanno la ronda
carcerieri di lutto,
retorici, corretti,
inviando prigionieri alle isole,
condannando al silenzio,
pullulando
come squadre di ombre
sotto finestre verdi,
tra monti azzurri,
la polizia
sotto le autunnali cornucopie
ricercando portoghesi,
grattando il suolo,
destinando gli uomini all’ombra.
II
LA CETRA DIMENTICATA
Oh Portogallo bello,
cesta di frutti e fiori,
emergi
dalla riva argentata dell’oceano,
nella schiuma dell’Europa,
con la cetra d’oro
che ti dette Camoens,
cantando con dolcezza,
spargendo nella foce dell’Atlantico
il tuo tempestoso odore di osterie,
di zagare marine,
la tua luminosa luna intersecata
da nubi e tempeste.
III
I CARCERI
Ma,
portoghese della strada,
detto tra noi,
nessuno ci ascolta,
sapete
dove
è Álvaro Cunhal?
Riconosci l’assenza
del valente
militante?
Ragazza portoghese,
passi come ballando
per le strade
rosate di Lisbona,
ma,
sai dove cadde Bento Gonçalves,
il portoghese più puro,
l’onore del tuo mare e della tua sabbia?
Sai
che esiste
una isola,
l’Isola de la Sal,
e Tarrafal in quella
sparsa ombra?
Si, lo sai, ragazza,
ragazzo, si, lo sai.
In silenzio
la parola
cammina con lentezza ma percorre,
non solo il Portogallo, ma tutta la terra.
Si sappiamo,
in remoti paesi,
che da trenta anni
una lapide
spessa come una tomba o tunica
di clericale pipistrello,
soffoca, Portogallo, il tuo triste trillo,
spruzza la tua dolcezza
con gocce di martirio
e ti mantiene sotto cupole d’ombra.
IV
IL MARE E I GELSOMINI
Dalla tua piccola mano in un’altra ora
salirono creature
sgranate
nello stupore della geografia.
Così ritornò Camoens
a lasciarti un ramo di gelsomino
che continuò a fiorire.
L’intelligenza bruciò come una vigna
di trasparenti uve
nella tua razza.
Guerra Junquiero tra le onde
lasciò cadere il suo tuono
di libertà selvaggia
che trasportò l’oceano nel suo canto,
e altri moltiplicarono
il tuo splendore di rosai e grappoli
come se dal tuo territorio stretto
uscissero grandi mani
spargendo sementi
per tutta la terra.
Tuttavia,
il tempo ti ha seppellito.
La polvere clericale
accumulata a Coimbra
cadde sul tuo volto
di arancia oceanica
e coprì lo splendore della tua vita.
V
LA LAMPADA MARINA
Portogallo,
ritorna al mare, alle tue navi,
Portogallo, ritorna all’uomo, al marinaio,
ritorna alla tua terra, alla tua fragranza,
alla tua ragione libera nel vento,
di nuovo
alla luce mattutina
del garofano e della schiuma.
Mostraci il tuo tesoro,
i tuoi uomini, le tue donne.
Non nascondere più il tuo volto
di imbarcazione valorosa
posta negli avamposti dell’Oceano.
Portogallo, navigatore,
scopritore di isole,
inventore di pepi,
scopri l’uomo nuovo,
le isole assolate,
scopri l’arcipelago nel tempo.
L’improvvisa
apparizione
del pane
sulla tavola,
l’aurora,
tu, scoprila,
scopritore di aurore.
Com’è questo?
Come puoi negarti
al cielo della luce tu, che mostrasti
strade ai ciechi?
Tu, dolce e ferreo e vecchio,
stretto e ampio padre
dell’orizzonte, come
puoi chiudere la porta
ai nuovi grappoli
e al vento con le stelle dell’Oriente?
Prua dell’Europa, ricerca
nella corrente
le onde ancestrali,
la marittima barba
di Camoens.
Rompi
le ragnatele
che copre il tuo fragrante fallimento
e allora
a noi i figli dei tuoi figli,
quelli per i quali
scopristi la sabbia
fino ad allora oscura
della geografia affascinante,
mostraci che tu puoi
attraversare di nuovo
il nuovo mare oscuro
e scoprire l’uomo che è nato
nell’isola più grande della terra.
Naviga, Portogallo, l’ora
arrivò, alza
la tua statura di prua
e tra le isole e gli uomini ritorna
a essere cammino.
In questa età aggrega
la tua luce, torna a essere lampada:
imparerai di nuovo ad essere stella.
XVI
LA TERRA E LA PITTURA
I
ARRIVO A PORTO PICASSO
Sbarcato a Picasso alle sei del mattino d’autunno, appena
il cielo annunciava la sua crescita rosa, guardai intorno, Picasso
si estendeva e si incendiava come il fuoco dell’alba. Lontano indietro
stavano le cordigliere azzurre e tra loro si alzava nella valle dell’Arlequín di cenere.
Ecco: io venivo da Antofagasta e da Maracaibo, io venivo da Tucumán
e dalla terza Patagonia, quella dai denti gelati rosi dal tuono, quella dalla bandiera sommersa dalla neve perenne.
E allora sbarcai e vidi grandi donne dal colore di mela
alla rive di Picasso, occhi smisurati, braccia che riconobbi:
tale l’Amazonia, tale era la Forma.
E all’ovest erano burattinai derelitti che rotolavano verso il giallo,
e musicisti con tutti i quadri della musica, e ancor più, là la geografia
si popolò di una lacerante emigrazione di donne, di artisti,
di petali e fiamme
e in mezzo Picasso tra le due pianure e l’albero di vetro,
vidi una Guernica in cui rimase il sangue come un gran fiume, la cui corrente
si trasformò nella chioma del cavallo e nella lampada:
ardente sangue sale ai musi,
umida luce che accusa per sempre.
Così, quindi, nella terra di Picasso da Sud a Ovest,
tutta la vita e le vite facevano la dimora
e il mare e il mondo lì accumularono
il suo cereale e il suo spruzzo.
Incontrai lì un graffiato frammento
di gesso, la buccia del rame,
e il ferro di cavallo morto che dalle sue ferite
verso l’eternità dei metalli cresce,
e vidi la terra entrare come il pane nei forni
e la vidi apparire con un figlio sacro.
Anche il gallo nero della encefalica schiuma
incontrai, con un ramo di filo di ferro e sobborghi,
il gatto azzurro con il suo ventaglio di unghie,
la tigre che avanzava sopra gli scheletri.
Io riconobbi i marchi che tremarono
nella foce dell’acqua in cui nacqui.
Per primo fu questa pietra con spine, da dove
sporse, illusoria, il ramo lacerato,
e il legno nella cui rotta genealogia
nascono i bruschi uccelli del mio ardore natale.
Ma il toro spuntò dai corridoi
nel centro terrestre, io vidi la sua voce, arrivava
frugando le terre di Picasso, si copriva
l’effigie con i mantelli dalla tinta violetta,
e vidi venire il collo della sua oscura catastrofe
e tutti i ricami della sua bava invincibile.
Picasso di Altamira, Toro dell’Orinoco,
torre di acque per gli amori induriti,
terra di minerali mani che trasformarono
come l’aratro, in parto l’innocenza del muschio.
Qui sta il toro la cui coda trascina
il sale e la asprezza, e nella sua sabbia
trema il collare della Spagna con un suono secco,
come un sacco di ossa che la luna sparge.
Oh circo in cui la seta continua a bruciare
come una dimenticanza di papaveri nella sabbia,
e non ci sono ormai bensì giorno, tempo, terra, destino
per affrontarsi, toro dall’aria sfrenata.
Questa corrida ha tutto il violaceo lutto,
la bandiera del vino che ruppe le stoviglie:
e ancor più: è la piana di polvere del mulattiere
e gli accumulati paramenti sacri che conservano
il distante silenzio della carneficina.
Sali Spagna per queste scale, increspati
d’oro e di fame, e il volto chiuso dalla collera
e ancor più, esaminate il suo ventaglio: non ha palpebre.
C’è una nera luce che ci guarda senza occhi.
Padre della Colomba, che con lei
spiegata nella luce arrivasti al giorno,
appena fondata sulla sua carta di rosa,
appena pulita di sangue e di rugiada,
alla chiara riunione delle bandiere.
Pace o colomba, eleganza brillante!
Circolo, riunione del terrestre!
Spiga pura tra le frecce rosse!
Improvvisa direzione della speranza!
Con te stiamo nel fondo disordinato
dell’argilla, e oggi nel duraturo
metallo della speranza.
“È Picasso”,
dice la pescatrice, legando argento,
e il nuovo autunno raccoglie
lo stendardo
del pastore: l’agnello che riceve una foglia
del cielo in Vallauris,
e ode passare le corporazioni al suo alveare, vicino
al mare e alla sua corona di cedro simultaneo.
Forte è la nostra misura quando
gettiamo – amando il semplice uomo –
le tue braccia nella bilancia, nella bandiera.
Non era nei progetti dello scorpione il tuo volto.
Volle mordere talvolta e incontrò il tuo vetro
smisurato,
la tua lampada sotto la terra,
e allora?
Allora per il bordo della terra cresciamo
verso l’altro bordo della terra cresciamo.
Chi non ascolta questi passi ode i tuoi passi. Ode
dall’infinità del tempo questo cammino.
Ampia è la terra. Non sta la tua mano sola.
Ampia è la luce. Accendila sopra di noi.
II
A Guttuso, d’Italia
Guttuso, fino alta tua patria giunse il colore azzurro
per sapere come è il cielo e conoscere l’acqua.
Guttuso, dalla tua patria venne la luce
e per la terra andò nascendo il fuoco.
Nella tua patria, Guttuso, la luna ha odore
d’uva bianca, di miele, di limoni caduti,
ma non c’è terra,
ma non c’è pane!
Tu dai la terra, il pane. nella tua pittura.
Buon fornaio, dammi la tua mano che alza
sulle nostre bandiere la rosa della farina.
Agronomo, hai dipinto la terra che distribuisci.
Pescatore, la tua pesca palpitante
va dai tuoi pennelli verso le case povere.
Minatore, hai forato con un fiore di ferro
l’oscurità e torni col volto sporco
a darci la durezza della notte scavata.
Soldato, grano, e polvere sulla tela,
difendi la strada.
Contadini del Sud, verso la terra, nei tuoi quadri!
Gente senza terra, verso la stella terrestre!
Uomini senza volto che nella tua pittura hanno nome!
Palpebre del combattimento che avanzano verso il fuoco!
Pane della lotta, pugni della collera!
Cuori di terra incoronati
dall’elettricità delle spighe!
Grave passo del popolo verso il domani,
verso la decisione, verso l’essere uomini,
verso la semina, verso la mungitura lasciando
nella tua pittura il suo primo ritratto.
Costoro – come si chiamano? Dalle vecchie mura
della tua patria domandano i signori
dal gran collare e dalla perfida spada
– chi sono? E dalla sua rotonda –
seni di zucchero – l’imperiale Paolina,
nuda e fredda – chi sono?, domanda.
– Siamo la terra, dicono le zappe.
– Oggi esistiamo, dice il mietitore.
– Siamo il popolo, canta il giorno.
lo ti domando – siamo soli? E mi risponde un viso
che tu hai lasciato tra altri contadini: Non è certo!
Già non è vero che tu, solitario violino,
inefficace notturno, guardandoti lo spettro,
vuoi volare senza che i piedi conservino
frammenti, terra, boschi e battaglie!
Ahi, con queste scarpe ho marciato con te
percorrendo seminati e mercati!
Io conobbi un pittore del Nicaragua. Gli alberi
lì sono tempestosi e spargono i loro fiori
come vulcani verdi. I fiumi distruggono
nella loro correrne fiumi sovrapposti
di farfalle e le carceri
sono piene di grida e di ferite.
E questo pittore è arrivato a Parigi, e allora
ha dipinto un puntino color ocra pallido
su una tela bianca, bianca, bianca
e ci ha messo una cornice, cornice, cornice.
È venuto a trovarmi e io mi sono rattristato,
perché dietro al piccolo ometto e al suo punto
il Nicaragua piangeva, senza che alcuno lo sentisse,
il Nicaragua sotterrava i suoi dolori
e le sue carneficine nella selva.
Pittura, pittura per i nostri eroi, per i nostri morti!
Pittura color mela e sangue per i nostri popoli!
Pittura con i volti e le mani che conosciamo e che
non vogliamo dimenticare! E che sorga il colore delle
adunate,
il movimento delle bandiere, le vittime della polizia.
Che siano lodate, dipinte e scritte
le assemblee di operai, il mezzogiorno dello sciopero,
il tesoro dei pescatori, la notte del fuochista,
i passi della vittoria, la tempesta della Cina,
il respiro immenso dell’Unione Sovietica,
e l’uomo: ogni uomo col suo ufficio e la sua lampada,
con la certezza della sua terra e del suo pane.
Ti abbraccio, fratello, perchè compi nella tua arena il
destino
di lotta e luce dell’Italia.
Che il grano di domani
dipinga sulla terra con le sue linee d’oro
la pace del popolo.
Allora, quando l’aria
in un’onda rimuoverà il raccolto del mondo
canterà il pane in tutti i prati.
XVII
IL MIELE DI UNGHERIA
I
IO VENIVO DA LONTANO
Io portavo sulla schiena
un sacco
di nere sofferenze,
la notte delle miniere
della mia patria.
Quando il carbone
di Lota
nella locomotiva
arde
si presenta rosso
e brucia
non è fuoco,
è sangue,
sangue dei minatori della mia patria,
scuro sangue che accusa.
E così
piegato
sotto il mio sacco nero
di sangue e di carbone trasgredii
i cammini d’Europa,
la luna d’argento consumata
dagli occhi umani,
i vecchi ponti rotti
dalla guerra,
le città vuote
con le loro finestre cieche
e le loro macerie su cui cresce il foraggio,
le ortiche,
il triste dente di leone,
con paura,
senza radici.
Così andai per le strade bombardate
cercando la verde speranza,
finché la incontrai
vestita di acqua e oro
nelle rive doppie
di Budapest un giorno.
II
CRESCONO GLI ANNI
Ungheria,
doppio è il tuo volto come una medaglia.
Io ti incontrai in estate
ed era
il tuo aspetto bosco e frumento:
la rapida estate
col suo manto d’oro
il tuo dolce corpo verde ricopriva.
Più tardi
ti vidi piena di neve,
oh bella rosa
dai denti bianchi e dalla corona bianca,
stella dell’inverno,
patria della bianchezza!
E così il tuo doppio volto di medaglia
amai passando sopra le tue pupille
i miei baci benvenuti nell’aurora,
perché tu costruivi
il sole che stava nascendo,
la tua bandiera,
il passaggio del tuo popolo
nelle steppe,
gli attrezzi puri
della liberazione, l’acciaio
con cui si costruirono le stelle.
Vicino a me cresce
questo tempo,
questa epoca,
come un rapido bosco,
come pianta vulcanica
piena di vita e foglie,
la mia epoca
di sangue e chiarezza, di notte fredda
e splendore mattutino.
Nuove città crescono,
albeggiano bandiere,
si affermano le repubbliche
del socialismo in marcia,
Il Vietnam palpita
perché sul sangue e dolori
nasce una nuova vita.
La mia epoca
alloro e luna piena,
amore e polvere esplosiva!
Io ho visto
nascere, crescere gli anni,
partorire la vecchia terra
robuste, nuove cose.
Io penso
all’uomo perduto
dell’altro tempo
che non vide nascere nulla,
che si precipitò di strada in strada,
di notte in notte fredda,
salì scale,
si riempì di fumo,
e mai vide dove terminavano
i gradini né il fumo.
Quell’uomo
fu come un fungo nella selva,
nella umidità oscura
dissipò la sua eredità,
non vide sopra il bosco l’altitudine
tatuata con stelle,
non vide sotto i suoi piedi
intrecciarsi tutti
i germi del bosco.
Io sento, guardo, tocco
la crescita
di quello che sopraggiunge,
vedo da una terra all’altra constatando,
sommando l’indelebile,
aggregando i passi,
riunendo le sillabe
del canto del vento sulla terra.
III
AVANTI!
URSS,
Cina,
Repubbliche
popolari,
oh mondo
socialista,
mondo
mio,
produci,
hai boschi, canali,
riso, acciaio,
cereali, fabbriche,
libri, locomotive,
trattori e bestiame.
Togli dal mare i tuoi pesci
e dalla terra ricca i raccolti
più dorati del mondo.
Che dalle le stelle
si scorgano
brillando come mine scoperte
i tuoi granai,
che trepidino i piedi sul pianeta
con il ritmo di assalto
delle perforatrici,
che il carbone dalla sua culla
esca con un grido rosso
verso le fonderie eminenti,
e il pane di ciascun giorno
sia eccedente,
il miele, la carne,
siano puri oceani,
le ruote verdi dei macchinari
si adattino agli assi oceanici.
Cerca sotto la neve,
e sull’altura,
che le tue ali di pace abbagliante
popolino di musica motorizzata
le ultime sfere
della patria celeste.
Io abito
nel mondo dell’odio.
Leggo la stampa dell’odio.
Vogliono
che un vento atroce distrugga i raccolti.
Che non si reincorporino le città.
Vogliono
che esplodano i tuoi motori
e che non arrivino né pane né vino
alle molteplici bocche dei tuoi popoli.
Vogliono negarti l’acqua,
la vita, l’aria.
Perciò,
uomo del mondo socialista, affacciati,
affacciati sorridente,
incoronato di fiori e di fabbriche,
eretto sopra tutti
i frutti di questo mondo.
XVIII
FRANCIA FLORIDA, RITORNA!
Francia, un tempo ci si saziava nominandoti
In tutti i paesi, il tesoro della nobiltà
Ciascuno poteva in te trovare
Bontà, lealtà, gentilezza,
Scienza, sensi, cortesia, altruismo.
Tutti gli stranieri amavano seguirti.
Ed ora di ciò che vedo ho dispiacere
CHARLES D’ORLEANS (1430)
I
LA STAGIONE SI INAUGURA
Quando sotto la terra
si preparano
le stagioni,
le linfe, le radici,
i semi,
il fuoco
e l’acqua
parlano
cercando ornamenti,
pulendo il mogano
della castagna futura,
indurendo il niveo
avorio delle mandorle,
combinando i fili
dei rampicanti,
elevando lo zucchero
verde dei grappoli,
allora
tutto è pronto:
l’autunno dalle mani rosse,
o la primavera pura,
o l’estate nei fiumi,
o l’inverno color di stella,
e la Francia apre le porte:
si è inaugurato il tempo.
Perché lì sono più belli
i balli delle foglie,
la seta crepitante
dell’autunno nei boschi.
Lì le acque sanno
cantare d’accordo
con il violino del vento.
Cattedrale e pianura
da molti anni
fioriscono ricevendo
lo stesso bacio doppio dalla pioggia.
Lì nel paese di Francia
nacque il vino,
quindi nella trasparenza del bicchiere
le palpebre trovarono
forma e suono di cristallo maturo
e gli uomini cantarono.
Lì
sempre gli uomini cantarono.
Arrivò la guerra
come un catrame implacabile,
ma dal lutto
la Francia uscì cantando.
Cantarono i valorosi al muro
della fucilazione. Cantarono
i comunisti della Comune.
Cantò, decapitata,
la figlia di Jean Richard. Canta
il popolo di Francia,
mentre i mercanti
atlantici
stanno preparando la carneficina.
Ma non solo soggiorno di spazioso autunno
o primavera domanderei
essere, giardino
di Francia, strada
di Francia,
lottatrice
hai scritto con pietra e sangue
il tuo nome sulla muraglia
del destino,
e come in te i fiumi sono sicuri
della loro armoniosa abbondanza,
così il tuo popolo,
verso la pienezza, di riva in riva,
ripieno di lotte e doni,
restaurerà, cantando,
l’allegria.
II
E TUTTAVIA …
Io feci uso
di Rabelais per la mia vita
come dei pomodori.
Per me
fu essenziale la sua carnivora tromba,
la sua principale gazzarra.
E tuttavia …
Quella notte sola,
passai nella costa dei poveri ricchi,
nella Francia lunatica del Sud.
Io venivo terrestre,
con la polvere del Sud, la neve rossa,
la zagara di tutte le strade.
Io venivo felice.
Io mi svegliavo
con il collo dorato
dell’allegria
sotto il mio braccio sinistro,
con il capezzolo violaceo di una rosa
sotto i miei nuovi baci,
e allora
la polizia,
molto corretta,
mi offrì sigarette
e mi espulse dalla Francia.
Era dopo la prima notte
in Francia. Tra la sua terra
ed il mio corpo addormentato
il tempo era passato
e quella notte, in sogno,
a me salì la terra
con strofe e vigne.
Tremò il mio cuore mentre dormivo:
la terra lo riempiva
di elettrica bellezza,
lo tingeva di verde,
acqua di Francia e vino,
pampini e radici.
Antichi morti amati,
zafferano e gelsomini,
mi avvolsero addormentato,
e io per le fragranze della terra
navigai, trapassato,
finché il giorno fece entrare la sua spada bianca
con gocce di rugiada,
e allora
venne
chi, bensì essa,
la Francia di oggi,
la polizia,
e benché la nave mi aspettasse ancorata
per ritornare in Cile,
lì, tra sigarette, mi espulsero
da quasi tutto quello che amo,
e non servì a niente che io ricordassi
la memoria
di Charles d’Orleans, pulendo ogni giorno
la sua chitarra di lutto,
non mi servì a niente che Rimbaud viva
clandestino
nella mia casa,
da molti anni.
Ahi, di niente,
ahi, di niente.
Né gli occhi di Eluard come due lampade
di fuoco azzurro sulle mie spalle.
Niente servì.
La polizia
parlava di istruzioni superiori,
e che sia ben chiaro:
non devo ritornare mai.
Non posso
posare un solo piede
in questo proibito territorio.
Debbo comprendere le cose:
né di transito,
né sorvolare,
né attraversare di sotto,
né sussurrare vicino al mare, alle onde
della Normandia che amo.
Non posso
mascherarmi da albero e ricevere la pioggia,
dormire vicino ai crescioni.
Non debbo vicino a un fiume
cantare o piangere di allegria.
Non posso
mangiare formaggio silvestre
con le lattughe
che lì sono come labbra. Non posso
a Sain Louis de la Isla
bere il mio vino bianco,
nessuna,
nessuna
sera più
della mia vita.
Furono completamente chiari
e eternamente oscuri.
Mi espellono. È chiaro.
Perché mi espellono? Oscuro.
Così, la polizia
prese nelle sue mani
la onorificenza che in altro tempo
il conte di Dampierre mi lasciò sul risvolto,
la guardarono
come se fosse un aglio sporco
o un mozzicone con gusto di sapone.
Essi avevano
istruzioni
eminentemente superiori,
e così fu, signori e signore,
come andai via dalla Francia.
È naturale,
non necessito
spiegarmi.
Tutti sappiamo
che l’Ambasciata
del Far West,
con i suoi bovari,
sputano nelle lampade di cristallo di Versailles.
Che con tabacco in bocca
Jim Coca Cola
orina sulle statue
di Fontainbleau, le cieche
statue delle regine addormentate.
Tutti sappiamo questo,
ma,
non voglio parlar di ciò,
non è il mio tema.
Se io avessi avuto
venti anni
e così mi avessero
strappato
la Francia dalla vita,
questo sarebbe stato un lungo
lamento, un lungo pianto.
Io avrei scritto
la morte e le esequie
della mia odorosa
primavera.
Ma, adesso,
con tante cicatrici
che ancora non sono riuscite
a uccidere il mio cuore,
con l’allegria
senza svegliare ancora nelle mie braccia,
con tutta la vita davanti,
con la speranza,
con tutto quello che viene
quando noi non saremo più,
con la Francia che domani
si sveglierà ancora,
perché mai ha dormito,
con tutti i gelsomini e le vigne,
le strade, i cammini,
e le canzoni che amo,
e che nessuno nemmeno
la polizia
potranno strapparmi dall’anima,
posso dire, signori
e signore,
che amo la dolce Francia,
dalla quale mi espulsero.
E che continuo
a vivere
come se lì vivessi,
con la sua terra ed i suoi eroi,
con il suo vino ed il suo popolo,
e che non mi sono svegliato ufficialmente
da quella unica notte
in cui tutto l’aroma
della sua profondità e della sua dolcezza
salì il mio sonno per salutarmi.
III
PIÚ DI UNA FRANCIA
Trasparente
è la terra:
bolla di acqua e ferro,
coppa verde
di oceani, praterie,
distanze,
onde di quarzo e rame
in essa si calmarono.
Il carbone nelle profondità
dei corridoi ciechi
riposa la sua energia.
Frutta e cereali
come il manto
di un antico monarca
la coprono con stelle
gialle:
straripante è la coppa
della terra:
tutta la luce e tutta
l’ombra la accendono
e la spengono,
aspra, con spine
dell’inverno,
dolce, piena di tutte
le dolcezze:
pianeta, osserva qualcosa
più vivente
e elettrico
di tutti i metalli:
è l’uomo,
il piccoletto
essere che trema,
cade e solleva
la fronte più ferita
e con il braccio appena graffiato
impugna i lampi.
Vedo
i boschi calorosi,
la selva
nel Laos,
insetti come foglie,
leopardi
dalla forza silenziosa
e vita fosforica,
i grandi alberi intrecciati
alla antica terra,
i monumenti umidi
con le loro narici rotte
e gli occhi da cui
irrompe il fogliame.
Niente di questo
ci interessa:
attendi,
spera,
guarda!
Qui sta quello che ami:
Un piccolo
uomo libero
con una carabina,
aspetta.
È lui,
il guerrigliero
della Cambogia.
Aspetta
il meccanico passo
dell’invasore blindato.
Non pensa
alla febbre che spia,
al serpente
di elettrico veleno:
solo attende
il soldato
straniero.
Lì nella selva
le foglie
sono la sua patria,
ogni suono di uccello
o acqua,
ogni volo
di farfalla o di palpebra,
è la sua patria.
La patria è un fogliame
e alla sua ombra
l’uomo,
l’uomo piccoletto,
difende
ciascuna
delle sue foglie.
Vietnam dall’altro lato.
Hai fiumi bruni, tremanti
di vite e messaggi
che vanno di terra in terra.
I francesi
dalle città
guardano il bisbiglio
del fogliame.
Perché lasciarono
la fruttifera primavera
della Francia?
Gli dissero
che essi portavano
la cultura
e da allora
le mitragliatrici
e il napalm
di Eisenhower,
la rovina e l’incendio,
sbarcano
con essi, i francesi.
I nipoti
di Victor Hugo,
non portano
libri
bensì
terribili pallottole,
dolori,
sangue.
Per questo
sa Saigon di alza
un nero
mormorio
di fumo e paura
che attraversa la terra
e cade
sopra la Francia,
sopra certe piccole
case povere
cade
la paura dell’Indocina.
La morte,
una notizia
con un nome di lutto,
arriva
come un’aquila nera
dalle alture dell’Asia
e entra
nella primavera
mattutina della Francia
con una ombra rapida
di artigli.
IV
HENRI MARTIN
Henri Martin ascolta
il rumore
che fanno la paura e il sangue.
Nel sua prigione in Francia
ode
le bandiere del bosco.
I suoi muoiono
inutilmente,
si putrefanno, se li portano
scarabei color di stagno.
Cadono
figli di Francia
là lontani.
Perché?
Henri Martin si oppose
alla carneficina
senza gloria,
e adesso
con un vestito rigato,
con un numero sulle spalle,
lavora incarcerato
il raggiante
onore della Francia.
Per sbarcare con acquazzone
caldo, tra le mosche,
carri armati e pustole,
maledizioni, disgrazie,
per sbarcare
ragazzi
nati dalla rosa
della Francia,
figli
del gelsomino e delle uve,
per ucciderli,
per decorarli
e assassinarli,
il governetto
di Francia
deve crocifiggere l’onore,
cancellarlo,
mettergli vestito a righe,
numerarlo,
deve industrializzare il suo letamaio
per venderlo
ai cowboys di Washington,
deve rompere le ossa
dell’antico
onore mai estinto.
Perciò
Henri Martin,
raggiante,
indomabile
attraverso le sbarre
che imprigionano
gli occhi tricolori
del suo popolo,
guarda
come cade
il sangue nei pantani,
là lontano,
senza gloria,
sotto le ali torride,
e scarabei
con le loro piccole
bocche di stagno
trasportando
alle umide tane,
uomini,
frammenti di ragazzi,
la forza e la dolcezza
della Francia
sacrificata
perché i cowboys
di Filadelfia
ballino con la soavissima signora
dell’ambasciatore di Francia.
Henri Martin: il trifoglio
del pasto mattutino,
le cose più umili,
il banco
del carpentiere,
il fiore azzurro senza nome
tra le pietre,
il terribile
vento solforico
di Chuquicamata nella notte,
gli uomini
ammucchiati
nelle miniere,
il pane,
il guerrigliero
della nostra dolorosa,
materna, sfortunata,
erioca
Grecia di oggi,
tutto
ciò che è semplice,
ciò che senza apprendere e senza saperlo
canta in tutte le terre ed i fiumi,
tutto
ti saluta,
Henri Martin, fratello
di quanto esiste, fratello
della chiarezza e del sogno,
fratello
della rettitudine del giorno
di tutta la speranza,
marinaio.
Io passo e vedo il mondo.
Lì stetti,
lì dove steste.
Conosco
il sangue e la morte.
Perciò, perché eri
il fratello
della vita,
Henri Martin, onore
della Francia, foglia
della più alta quercia,
alloro delle praterie,
eroe
della pace e della purezza,
ti saluto
con la semplicità
della sabbia e della neve
della mia patria distante.
XIX
ADESSO CANTA IL DANUBIO
… Danubio, fiume divino
che per fiere nazioni
scorri con le tue onde chiare.
GARCILASO DE LA VEDA
(Canción III)
I
DITA BRUCIATE
Romania antica, Bucarest dorata,
come assomigli
alle nostre infernali e celesti
repubbliche
d’America.
Pastorale eri e ombrosa.
Spine e asprezze proteggevano
la tua miseria terribile,
mentre Mme. Charmante
divagava in francese per i saloni.
La frusta cadeva
sopra le cicatrici del tuo popolo,
mentre gli eleganti letterati
nella loro rivista Sur (sicuramente)
studiavano Lawrence, la spia,
o Heidegger o “notre petit Drieu”.
“Tout allait bien a Bucarest”.
Il petrolio
lasciava bruciature sulle dita
e anneriva volti
di rumeni senza nome,
ma assentiva
alle lire sterline
a New York e a Londra.
Perciò
era tanto elegante Bucarest,
tanto soavi le signore.
“Ah quel charme monsieur”.
Mentre la fame
girava in tondo alzando
la sua forchetta vuota
per i sobborghi neri
e la campagna sfortunata.
Ah, si signori, era
esattamente come Buenos Aires,
come Santiago o Lima,
Bogotà e San Paolo.
Ballavano in pochi nella sala
scambiandosi sospiri,
il Club e le riviste letterarie
erano molto europei
la fame era rumena,
il freddo era rumeno,
il duello dei poveri
nel comune ossario era rumeno,
e così andava la vita
di fiore in fiore come nel mio continente
con le prigioni piene
e i buoni nei loro giardini.
Oui, Madame, che mondo
se ne andò, che irreparabile
perdita per tutta
la gente distinta!
Bucarest ormai non esiste.
Codesto gusto, codesta linea,
codesta squisita miscela
di putrefazione e di “patisserie”!
Terribile mi sembrava.
Mi dicono
che perfino il colore locale,
i pittoreschi vestiti cenciosi,
i medicanti storti come povere radici,
le bambine che tremando
aspettavano di notte
alla porta del ballo,
tutto ciò, orrore, è scomparso.
Che faremo, chère Madame?
In un’altra parte faremo
una rivista Sur di allevatori
profondamente preoccupati
della metaphyfisique.
II
LA BOCCA CHE CANTA
Vado dalle pinete
fino alle foci basse del Danubio,
l’aria azzurra scuote
le vite e la vita.
L’aria ripulisce il fondo
dei saloni, entra
per le finestre
un vento di bandiere popolari.
Cancellando in questa ora,
Romania, con le tue mani gli stracci
del tuo popolo,
hai mostrato
una nuova testa, nuovi occhi,
nuova bocca che canta,
e non solo una razza di pastori
mostri oggi sulla terra,
ma una abbagliante
costruzione che cammina.
III
UNA TIPOGRAFIA
Io vidi una tipografia alzarsi
tanto poderosa
come nella mia terra una Banca.
Vidi mattoni e mattoni
prendere la forma
di quella cattedrale della parola,
salire i muri
e subito
risplendevano le linotipie,
l’acciaio oliato,
e entrare la rotativa
come il carro armato più grande
della tipografia.
Era bello
vedere come entrava
la ferrea madre
della luce scritta.
Cigolando
avanzava
e al suo fianco,
come formiche azzurre,
gli operai.
Odorava di vento
con olio ferreo,
odorava di frutta nuova
e di silenzio,
odorava di tempo grande che veniva.
Era bello,
più bello delle foglie e degli alberi,
più bello dei fiori,
vedere come verso l’alto
camminava la tipografia.
Lì dove le dame
anticamente
si inchinavano
davanti a un piccolo libertino d’Europa,
l’incoronato Carol,
lì cresceva come
la cattedrale del vento
una tipografia
più grande
che una Banca di Occidente,
più grande di una fabbrica
di fucili,
più bella
di un vivaio di gigli accesi,
più alta
dei nostri alberi americani.
IV
GLI DEI DEL FIUME
Ovidio e Garcilaso abbandonati
ieri sulle tue rive,
Romania, ti incoronino,
ti incoronino e cantino.
Che l’acqua porti via il tuo fiume fecondando
le vite e la sabbia,
popoli l’amore le tue case e i tuoi boschi,
con grappoli si coprano
le tue braccia e i tuoi tempie.
Non solo l’uomo
libero
delle tue nuove città e campagne
festeggio.
Non solo ai lavori creatori
di scuole e di fabbriche
io dedico il mio canto.
Non solo ai canali
aperti nella roccia e nella terra
perché continuino a distribuire spighe
le acque del Danubio
io la mia lira dedico,
ma a te, Romania,
al tuo nobile sapore di terra e di vino,
al tuo pane generoso
distribuito al popolo,
all’aroma di pini e mimose
che il vento ti regala.
Io canto
alla buccia delle tue uve,
allo splendore degli occhi
che da lì si uniscono ai miei
come dei raggi scuri,
alle tue danze antiche
che oggi brillano nella luce che hai conquistato
come fiori o fuoco,
all’amicizia di tutti,
alla mano serena del Partito,
alla allegria
della pace rumena,
al tuo ricordo innumerevole
che canta come un fiume.
Romania,
oggi dalle sabbie della mia patria
io ti scrivo questa lettera.
Ricevila, Romania.
Porta spruzzi del Pacifico,
porta voci e baci,
porta neve di altissime montagne,
porta canti e lotte
del mio paese.
Onore e amore, Romania,
salgano in te come due vigne nuove.
L’intelligenza guarda con i tuoi occhi.
Sulla tua bocca sorridono i grappoli.
XX
L’ANGELO DEL COMITATO CENTRALE
I
L’ANGELO CUSTODE
Nella mia casa, di bambino, mi dissero,
“Ascolta. C’è un angelo
che sta con te e ti difende:
un angelo custode”.
Io crebbi, afflitto, nei nascondigli.
E il pianto accumulato fu lasciato
cadere goccia a goccia nella mia scrittura.
Adolescente passai di pericolo in pericolo,
di notte in notte, con la mia propria spada
difendendo il mio pane e la mia poesia,
tagliando il posto della strada oscura
che dovevo attraversare, accumulando
la mia solitaria forza nel vuoto.
Chi non arrivò alla mia porta a rompere qualcosa?
Chi non mi vesti di corrosiva lava?
Chi non portò una pietra velenosa
alla velocità della mia esistenza?
Il proprietario mi espulse iracondo.
L’elegante disdegnò il mio volto.
E dalla sua letterina messicana,
o da cenerini sillabari,
malevoli barbuti, mercanti
di rose morte, poeti
senza poesia, fecero scivolare inchiostro
conto la mia combattente capigliatura.
Aprirono pozzi di anima paludosa
perché io cadessi nei loro denti,
incoronarono il mio canto con coltelli,
ma non volli fuggire, né difendermi:
cantai, cantai riempiendomi di stelle,
cantai senza nessuno che mi difendesse,
fuorchè all’acciaio azzurro del mio canto.
II
ALLORA TI NASCONDEVI
E dove stavi, angelo custode?
Eri tu l’abitazione con spine
in cui dovetti dormire? Eri la tavola
della povertà che mi preparavano?
Eri l’odio, fil di ferro interminabile
che ebbi da tagliare, o forse eri
la miseria delle esseri sfortunati,
quello che io incontrai nelle strade,
nelle città, nelle buche
degli abbandonati? Ah, fosti invisibile,
dal momento che soltanto a colpi di sfortuna,
soltanto rompendo porte inumane,
vidi crescere nella mia voce tutte le voci,
e uscii tra le vite al combattimento.
III
IO USCII DALLA MIA PATRIA
Attraversai le cordigliere a cavallo.
Un tirannello, un ballerino vendette
la mia patria con metalli e minatori,
e riempiva di muri e prigioni
il recinto occupato dall’alba.
Uscii per le gole graffiate
dalla natura, galoppando
sotto un silenzio di boschi oscuri.
Improvvisamente le gelate colombaie
del ghiacciaio gettavano forza,
piume glaciali, puro potere:
improvvisamente terra e alberi si fecero
aspra avversità e cicatrici,
dighe d’improvviso legno,
impenetrabile densità tessuta
come una cattedrale, tra le foglie,
o titanico sale scivoloso,
o sdentata cintura di pietra.
Ancor più, scesi improvvisamente
la terra verticale, e i cavalieri
aprivano con le loro scuri il cammino
dove attendeva il dio vertiginoso
di un nuovo fiume straripando spade,
gettando la sua musica segreta
sopra l’ostilità dei folti alberi.
IV
PRIMA APPARIZIONE DELL’ANGELO
Lì attraversando il fiume,
quando le acque sottomettevano
l’azione delle cavalcature,
e improvvisamente una raffica entrava
come una freccia nella mia gola,
quando inciampava la bestia
ed erano le acque al mio fianco
un torrenziale colpo di aghi,
e la cataratta attendeva
come un lampo nelle pietre,
li guardai dietro di me,
e senza radermi, grinzoso,
con una pistola ed un lazo
vidi per la prima volta l’angelo.
Andava a prendendosi cura di me l’angelo,
andava senza ali vicino a me
l’angelo del Comitato Centrale.
V
L’ANGELO SOLIDALE
Continuava a difendersi dunque
dall’aria indomabile, dal fiume,
dalle pietre uraganate
e dall’asprezza spinosa.
Continuava a difendermi, l’angelo,
dalla muta di cani che mi odiava,
da quelli che aspettavano ululando
il mio sangue nelle strade del crimine.
VI
L’ANGELO DELLA PAMPAS
Oh luna smisurata, nelle praterie,
oh sole azzurro sopra tutto lo spazio,
pampa di solitudine, stella diritta
estesa in enormi dimensioni.
Erba argentina, terra interminabile,
odore di cielo cerale, cammino
fatto di tutti i cammini, ampia
primavera senza palpebre, pianura.
Io stetti da cima a fondo, trepidando
nella velocità, attraversando il giorno
e la notte nuda del pianeta.
E lì perduto nella distanza, quando
lo struzzo errante o la colomba
della terra selvaggia apparvero,
quando fatica e solitudine riempirono
la coppa trasparente della pampa,
quando potei sentirmi abbandonato e ultimo,
quando fui soltanto assenza, sonno, sudore e polvere,
verso la libertà con gli occhi aperti,
con altro volto,
legate le mani al volante,
senza sonno e sorridente attraverso la notte,
lì stava nuovamente, lì
stava difendendo la mia fatica:
non so come si chiama, talvolta López,
talvolta Ibieta, l’angelo
del Comitato Centrale.
VII
L’ANGELO DEI FIUMI
Saprai forse che tra i fiumi ferrei
d’America passai. Lo sviluppo
del Paranà mi ricevette tremando.
Era la sua lentezza come la luna
che straripa sopra le praterie
ed era popolato da segrete labbra
che baciavano la sua attitudine selvaggia.
Fiumi territoriali, figli rossi
delle tenebre umide d’America,
io venni alle vostre acque, al sangue
che notte e giorno a combattere sabbie
trasporta il vostro nome numeroso,
io fui un ramo equatoriale, un pezzo
della tua terra, di fluviale fogliame.
Le antiche acque mi raccontarono tutta
la loro cantata di sangue paraguaiano
e di Asunción la torre del martirio:
come cambia di tigre lo spessore,
come il petrolio macchia lo stendardo
e come olio e fango si distribuiscono
sopra i poveri morti della patria.
E il fiume mi raccontò quello che i morti
dicono parlando dalle radici,
chiedendo aiuto ancora dalla morte,
sostenendo bandiere seppellite
mentre gli stranieri del petrolio
devono con il carnefice nel palazzo.
L’ tra fiumi ti incontrai, le acque
ancora andavano dentro il mio proprio sangue
enumerando pagine del bosco,
e lì, angelo nuovo, stavi nel fondo
dell’America
e senza riconoscerti, “Compagno
angelo, sei tu?” ti dissi,
e larghe terre, frumenti, minacce,
onde e pini camminavamo insieme
finché anch’io sopra i mari
chiusi gli occhi e volai addormentato.
VIII
L’ANGELO DELLA POESIA
Unione Sovietica, fiorisci
con altri fiori che nella terra
non hanno ancora nome.
La tua fermezza è il fiore dell’alba dell’acciaio.
È la tua fratellanza il fiore del pane fragrante.
È il tuo invero il fiore in cui la neve
illumina l’amore senza minaccia.
Io percorsi la terra in cui Pushkin ritornava
per elevare nel suo canto la luce dei cristalli,
e vidi come il suo popolo sollevava
questa costellazione sopra le mani
abituate a alzare il frumento.
Pushkin, tu fosti l’angelo
del Comitato Centrale!
Con te visitai rovine sacre
in cui i soldati del tuo popolo
difesero le sillabe della tua anima.
Con te vidi crescere dalle macerie
il gigantesco volo della vita,
le ruote del trattore verso l’autunno,
nuove città piene di suoni,
aeroplani gialli come api.
E quando entrai nel museo o nella casa,
nella fabbrica, nel fiume che ti segue cantando,
o quando nella città di Lenin vidi cancellate
le cicatrici del martirio venerabile,
oh compagno trasparente, eri
arrivato al mio cuore dandomi tutta
la orgogliosa statura della tua patria.
Lì, infine, un angelo non portava altra arma
che un ramo cristallino di lampi
e lui e tutta la terra difendevano
le sillabe erranti del mio canto.
Lì perfino la pace mi proteggeva.
E Pushkin mi diceva: “Vieni con me
fino a Novosibirsk, là nelle terre
desertiche, abitate
un tempo da solitudine e da dolori,
oggi la bandiera della mia voce passeggia
sopra le costruzioni orgogliose”.
Angelo, volevi che tutta la tua terra,
fosse visitata, toccando le spighe,
enumerando fabbriche e scuole,
conversando con bambini e soldati.
IX
ANGELO VYKA
Angelo irsuto della Polonia, Vyka,
desidero farti queste domande:
attraversando tutta la vita
del tuo paese, lo splendore ardente
del ferro domato in Katowicz,
i campi di grano che estendono la loro ondulata allegria
sopra tutta la terra, le processioni
del medioevale cattolicesimo, il fumo
del territorio del carbone, l’aria
di Cracovia, aria di libro secco,
il Baltico un’altra volta spingendo le sue bianche
ali e onde tra nuove gru,
il mattone impastato con la polvere
della infinita distruzione salendo
un’altra volta nel cielo di Varsavia,
e il metallico odore dei pini sopra
i laghi masuri, testimoni trasparenti
della carneficina,
e di villaggio in villaggio
sopra la distrutta architettura
l’uomo ha recuperato la bellezza
della tua terra, riempiendo con semi
della sua resurrezione tutto il silenzio.
Questa fecondità insperata
fino a ieri, questo latte trasmesso
di bocca in bocca come un nuovo segno,
e questa terra che canta e si ripartisce
senza fuggire come l’acqua, bensì
concedendo metalli e granai,
dimmi, angelo Vyka, tu che accompagnasti
con distratto cuore i miei passi,
che cosa hai, che cosa abbiamo da nascondere,
perché vogliamo rinnegare queste regioni,
questi raccolti, questo miele semplice,
perché vogliamo cancellare questa grandezza
e rifiutare questa vittoria umana?
Tu fosti ogni giorno il silenzioso
angelo amico di stirpe oscura,
solo perché il bosco proteggesse
i minimi piccioli delle sue fragole
per te compagno di altri mari,
o la rotonda chiocciola entrasse
nella mia tenerezza di naturalista,
e così tra sabbie e pini o tra
marittimi di Gdansk o tra motori
tutta la patria aperta mi mostrasti
illuminata come un sorriso.
X
ANGELO OH COMPAGNO
Guerriero solitario, angelo di tutte
le latitudini, appari
forse nelle ombrose cavità
della miniera, quando la repressione e la fatica
vanno a piegare le tue braccia, e alzi
le tue ali minerali come scudo.
È in quella ombra tra i paesi
quando il tuo volo organizzato incrocia
le difficili terre della spina,
le metalliche ali della morte.
Compagno, tu aspetti quello che soccombe,
tu aspetti quello che prenota
la sua energia, quello che fugge dal pericolo
e quello che volge al pericolo. Stai in mezzo
al tempo tempestoso, alla collera
con cappello logoro, rassomigliate
a tutto il mondo, con le falde pronte
sotto la luce comune di una povera giacchetta.
Eri tu l’unità di questi destini.
Sopra tutta le terra stai volando.
Nessuno ti riconosce tranne quelli
che anche leggono nella notte oscura
la raggiante scrittura di domani.
Senza vederti molti uomini
vicino a te passeranno, vicino allo spigolo
in cui appoggiato a un muro sarai strada
o albero senza nome nel bosco umano.
Ma quello che viene a te sa che esisti.
E quello, dietro ai tuoi comuni occhi,
indovina la spada dei popoli.
Ebbene in piena luce nelle regioni
liberate dell’Est ci accogli tutti,
non come esiliati, ma sorridente
per darci
la pace, e il pane, le chiavi
della terra.
XVI
MEMORIALE DI QUESTI ANNI
I
VENNE LA MORTE DI PAUL
In questi giorni ricevetti la morte
di Paul Eluard.
Ahi, la piccola busta
del telegramma.
Sbarrai gli occhi, era
la sua morte, alcune lettere,
e un gran vuoto bianco.
Così è la morte. Così
venne attraverso l’aria
la freccia della sua morte
a trapassare le mia dita
e ferirmi come spina
di una rosa terribile.
Eroe o pane, non ricordo
se la sua pazza dolcezza
fu quella dell’incoronato vincitore
o fu soltanto il miele che si divide.
Io ricordo
i suoi occhi,
gocce di quell’oceano celeste,
fiori di azzurro ciliegio,
antica primavera.
Quante cose
camminano per la terra e per il tempo,
fino a formare un uomo.
Pioggia,
uccelli litoranei il cui grido
rauco risuona nella schiuma,
torri,
giardini e battaglie.
Questo
era Eluard: un uomo
verso il quale erano andati
camminando
linee di piogge, verticali fili
di intemperie,
e specchi di acqua classica
in cui si rifletteva e fioriva
la torre della pace e della bellezza.
II
ADESSO SAPPIAMO
Sappiamo tutto del giorno,
della notte,
tutto del mese sappiamo,
tutto dell’anno sappiamo.
In altri tempo l’uomo
stava isolato,
il piacere gli tappava le orecchie,
lo reclamava il cielo,
lo chiamava
l’inferno,
e inoltre
era oscura
la geografia umana.
Non poteva affermare con precisione
se erano uomini
gli altri,
gli uomini delle isole,
i lontani,
quelli che improvvisamente
mostravano in un dente di elefante
tanta saggezza
come la porta di una cattedrale.
Ma
là lontano
tra nubi e fumo,
le colonie,
i vegetali stessi
si confondevano
con la pelle dei sauri.
Adesso
tutto
è differente.
Povero amico,
sai,
sai che l’uomo esiste.
Ciascun giorno
ti chiedono una firma
per estrarre un essere vivente
da un carcere vivente,
e oppresso
continui a conoscere
i sotterranei della geografia.
Sai, sappiamo,
ogni giorno sappiamo,
dormendo conosciamo:
ormai è impossibile
coprirci le orecchie
con il cielo.
La terra ci visita
nella mattina
e ci da la colazione:
sangue e aurora,
tenebre o edificio,
guerra o agricoltura,
e devi scegliere, amico,
ogni giorno,
sapendo adesso,
sapendo bene adesso
dove sono collocati
tanto la nuova vita
che la vecchia morte.
III
QUI VIENE NAZIM HIKMET
Nazim, dalle prigioni
appena uscito,
mi regalò la sua camicia ricamata
con fili d’oro rosso
come la sua poesia.
Fili di sangue turco
sono i suoi versi,
favole sincere
con antica inflessione, curve o rette,
come scimitarre o spade,
i suoi clandestini versi
fatti per confrontarsi
con tutto il mezzogiorno della luce,
oggi sono come le armi nascoste,
brillano sotto i pavimenti,
attendono nei pozzi,
sotto l’oscurità impenetrabile
degli occhi oscuri
del suo paese.
Dalle sue prigioni venne
ad essere mio fratello
e percorremmo insieme
le nevi delle steppe
e la notte incendiata
con le nostre proprie lampade.
Qui sta il suo ritratto
perché non si dimentichi la sua figura.
È alto
come una torre
alzata sulla pace delle praterie
e sopra
due finestre:
i suoi occhi
con la luce della Turchia.
Erranti
incontriamo
la terra ferma sotto i nostri piedi,
la terra conquistata
da eroi e poeti,
le strade di Mosca, la luna piena
che fiorisce sui muri,
le ragazze
che amiamo,
l’amore che adoriamo,
l’allegria,
nostra unica setta,
la speranza totale che condividiamo,
e soprattutto
una lotta
di popoli
dove sono una goccia e un’altra goccia,
gocce del mare umano,
i suoi versi e i miei versi.
Ma
dietro l’allegria di Nazim
ci sono fatti,
fatti come tronchi
o come fondazioni di edifici.
Anni
di silenzio e carcere.
Anni
che non riuscirono
a mordere, mangiare, ingoiarsi
la sua eroica gioventù.
Mi raccontava
che per più di dieci anni
lo lasciarono
alla luce della lampadina elettrica
tutta la notte e oggi
dimentica ogni notte,
lascia nella libertà
ancora la luce accesa.
La sua allegria
possiede radici negre
affondate nella sua patria
come fiori di palude.
Per questo
quando ride,
quando ride Nazim,
Nazim Hikmet,
non è come quando ridi:
è più bianca la sua risata,
in lui ride la luna,
la stella,
il vino,
la terra che non muore,
tutto il riso saluta con la sua risata,
tutto il suo popolo canta per la sua bocca.
IV
ALBANIA
Mai in Albania
stetti,
aspra terra amata,
pietrosa
patria dei pastori.
Oggi
spero
avvicinarmi a te come a una festa,
una nuova
festa terrestre: il sole
sopra la muscolosa impugnatura
delle tue montagne
e vedere tra i macigni
come cresce
il nuovo giglio tenero,
la cultura,
le lettere che si espandono,
il rispetto all’antico contadino,
la culla dell’operaio,
il monumento insigne
della fratellanza, la crescita
della bontà come una giovane pianta
che fiorisce nelle vecchie terre povere.
Albania, piccolina,
forte, ferma e sonora,
la tua corda della chitarra
– filo di acqua e acciaio –
si riunisce al suono della storia,
al canto del tempo invincibile,
con una voce di boschi
e edifici,
aromi e bianchezza,
canto di tutto l’uomo e di tutto il bosco,
uccelli e meli,
venti e onde.
Forza, fermezza e fiore sono il tuo regalo
nella edificazione di ciò che è terrestre.
V
INDIA, 1951
Nell’India
di nuovo,
nuovamente
l’aroma
di frutti morti, il
gracchio
dei corvi.
Sentii che si opprimeva
dentro un vaso rotto
il mio cuore, udii
passi,
passi che sono morti,
passi.
Pergolato
di razze e di tuniche,
India,
materna, intrecciata,
augusta, crudele, remota,
eri la stessa.
I grandi fiumi seppellivano corpi,
il colore di zafferano nelle colline,
ma adesso
non era la mia gioventù, la mia solitaria
adolescenza errante.
Adesso
i fiori mi aspettavano,
caddero sul mio collo,
e un numero,
una lettera,
una semplice sillaba
veniva
dal carcere a riconoscermi.
Terre di Telenghana,
martiri, creature
raccolte tra
due fuochi,
le mitragliatrici del governo,
i carceri
del Nizam di Hyderabad.
Contadini caduti
in quelle che ormai credevano
terre proprie,
adesso
con un Parlamento proprio,
senza inglesi,
e la vecchia miseria,
la fame
ululava nei villaggi.
Sperando,
sperando
sempre visse l’India,
seduta
vicino al fiume del tempo,
sperando.
Passavano i guerrieri
dai piedi insanguinati,
i principi
sale da pranzo di perle,
gli inglesi
impassibili,
i sacerdoti freddi
come sauri,
studiando l’ombelico
della terra e del cielo,
tutti
divorandoti un poco,
passeggeri, pirati, mercenari,
e tu, madre del mondo,
seduta vicino al fiume
del tempo,
filando e sperando.
Adesso
i poeti,
Sirdart Jaffris o un altro,
il magro o il barbuto,
uscivano dal carcere.
La poesia
nell’India
entrava in prigione,
usciva e ritornava,
imparando
la libertà tra i prigionieri,
conoscendo
le pene,
i dialetti, i dolori,
le parole segrete
degli assorti contadini,
il lamento doloroso,
le aperte ferite,
la dolcezza ribelle
che avanza alzando il suo stendardo
di stelle e colombe.
Utero della terra, territorio
chiuso in cui fermentano
le uve della storia.
Antica sorella
dei vecchi pianeti,
io seppi ora,
ascoltando i canti nei paesi,
le ire sgranate,
i pugni nel vento,
seppi
che si solleveranno le tue stature,
che si accumulerà la tua ricchezza,
che darai al tuo popolo
il pane che gli negavi,
e che ora non vedremo
passare dietro all’oro,
incrociare dietro al rito
abbagliatore della teogonia, (*)
la fame con la sua scopa
che spazza povere ossa e immondizie
a fianco della strada.
India, solleva
la tua gioventù, invita
il tuo orologio a segnare l’ora che viene.
Avanza e prendi
nell’orario l’alto mezzogiorno.
Sono antiche le tue frecce.
Solleva la tua fronte
e fissa l’ora del tuo destino.
(*) Il racconto mitico dell’origine e della genealogia degli dei.
VI
IN DOBRIS L’AURORA
In Dobris, arrivato a Praga,
conversando con
Jorge Amado,
mio collega da anni e di lotta:
– Da dove viene tu ora?
Io, dagli antichi fiumi
del Guatemale e Messico,
dal fulgore verde
del fiume Dolce, dentro.
Portavo
fuoco di uccelli selvatici,
rugiada
di foce.
Gli raccontai dei miei viaggi.
Lui ritornava
dalla Bulgaria, indossava
luce di rosaio rosso
sul petto,
e mi raccontò le cose,
gli uomini, le imprese,
il socialismo in marcia
in quella
terra irta, adesso costruttrice.
Era tardi, le braci
bruciavano
nel focolare di pietra.
Fuori
in vento rimuoveva sussurrando
le foglie dei faggi.
Vicini viaggiamo,
perseguitati,
e è qui che la pace
ci riuniva.
Avevamo
pane,
luce,
fuoco,
terra,
castello.
Non era soltanto nostri,
erano di tutti,
Non vogliamo
parlare. Il vento
parlava per noi.
Si estendeva
nel bosco,
volava
con le foglie staccate.
Il vento
andava insegnando,
cantando
quello che noi eravamo,
eravamo e avevamo.
La chiarezza terrestre
ci circondava.
Solenne era il silenzio.
Lunghi erano stati i viaggi.
E l’aurora colpiva le finestre
nuovamente
per andarsene con noi per il mondo.
EPILOGO
II canto spartito
Tra la cordigliera
e il mare del Cile
scrivo.
La cordigliera bianca.
Il mare color ferro.
Ritornai dai miei viaggi
con i nuovi grappoli.
Il vento scuoteva
la terra, le radici.
Io viaggiai col vento.
Oggi tra mare e neve
e terra mia
ho disposto i doni
raccolti nel mondo.
Io stabilii il mio amore
come un rovo ardente
sulla primavera
della mia patria.
Io ritornai cantando.
Dovunque sono stato, la vita
creatrice
mi rivestì di germogli
e frutti.
Io ritornai vestito
di uva e cereali.
Io portai il seme
di scuole trasparenti,
il fogliame d’acciaio
delle fresche officine,
il palpito
della tenacia e il movimento
dell’estensione che si riempie di fragranza.
In un posto qualunque
vidi il pane diminuito
e più in là estendersi
i regni della spiga.
Vidi nei popoli la guerra
come rotta
dentatura
e vidi la pace rotonda
in altre terre
crescere come una coppa,
come il figlio nella madre.
Io ho visto.
Dove sono stato, anche
nelle spine
che vollero ferirmi,
ho trovato che una colomba
cuciva
nel suo volo
il mio cuore con altri
cuori.
Ho trovato dovunque
pane, vino, fuoco, mani,
tenerezza.
Io ho dormito sotto tutte
le bandiere
riunite
come sotto i rami
di un solo bosco verde
e le stelle erano
le mie stelle.
Delle mie accanite
lotte, dei miei dolori,
non conservo niente
che non possa servirvi.
Come la terra,
io appartengo a tutti.
Non c’è una sola goccia
di odio nel mio petto. Aperte
vanno le mie mani
spargendo l’uva
nel vento.
Sono tornato dai miei viaggi.
Ho navigato costruendo
l’allegria.
Che l’amore ci difenda.
Che innalzi i suoi nuovi
vestiti
la rosa. Che la terra
continui senza fine fiorita
a fiorire.
Tra le cordigliere
e le onde nevose
del Cile,
rinato nel sangue
del mio popolo,
per voi tutti,
per voi canto,
Che sia distribuito
ogni canto sulla terra.
Che s’innalzino i grappoli.
Che li propaghi il vento.
Così sia.
Pablo Neruda, “L’uva e il vento”, 1954