Nel 1966, usciva a Bari un esile libro di 37 pagine stampato dalla Dedalo lito-stampa. Sulla copertina verde, sotto il nome dell’Autore, il titolo Le Fànfole e un piccolo disegno surreale alla maniera cubista. All’interno, la dicitura: “De Donato editore ‘Leonardo da Vinci’, Bari, edizione fuori commercio composta in Garamond corpo 11 in 300 esemplari destinati agli amici dell’autore, dell’editore, dello stampatore – disegno in copertina di Suardino Seccosuardo”. Dopo un breve scritto, che nel paragrafo iniziale l’Autore definiva “preambolo teorico”, seguiva un corpus di 12 fànfole. La prima aveva come titolo Il giorno ad urlapicchio. Fuori commercio e per una ristretta cerchia di amici, la piccola raccolta, passando di mano in mano e da conoscenti a sconosciuti, aveva iniziato nel 1966 un lungo viaggio.
Circa trent’anni dopo usciva una nuova edizione, più consistente e non fuori commercio, dal titolo Gnòsi delle Fànfole, a cura di Maro Marcellini ed edita da Baldini & Castoldi. Il libro, con in copertina un estroso disegno di Mauro Chiesa, riprendeva il preambolo teorico, adesso preceduto dal termine Introduzione. Oltre alle fànfole originarie – una esclusa, il resto in ordine diverso dalla prima edizione –, ne comportava altre cinque. L’edizione Baldini- Castoldi-Delai ripubblicava nel 2007 Gnòsi delle Fànfole con in allegato il CD della versione musicata e cantata ad opera di Stefano Bollani e Massimo Altomare. Infine, nel Dicembre 2007, Mondadori pubblicava Fosco Maraini, pellegrino in Asia, corposo volume a cura di Franco Marcoaldi, con postfazione di F. Paolo Campione, che tra le ‘Opere Scelte’ includeva Gnòsi delle Fànfole. Oltre alla Introduzione e al corpus delle precedenti fànfole, ve ne figuravano altre sei.
Così, nei decenni, le fànfole hanno raggiunto lettori e pubblico lungo molteplici percorsi. Lette, recitate, musicate da bravi attori e musicisti, e oggetto di articoli, saggi, studi approfonditi e scritti di varia natura, hanno trovato tanti fans (e qualche detrattore…) anche online. E poiché nel suo testo introduttivo l’Autore aveva scritto: “Signori, potrei dire, eccovi alcuni esperimenti di poesia metasemantica”, in molti hanno dibattuto con fibrillante curiosità e dotta passione su quella poesia metasemantica.
Ma erano davvero poesie che risalivano agli anni Sessanta, se non agli anni Novanta (“ultimi componimenti”, affermava Marcellini, a riguardo delle poesie aggiunte all’edizione originale)? Sulla genesi e datazione delle fànfole, i documenti da me reperiti ne fanno risalire, come vedremo, un corpus iniziale a molto tempo prima. In quanto figlia di Fosco Maraini, subito dopo la sua morte mi ero dedicata a inventariare quanto da lui conservato nella stanza che in un mio scritto ho chiamato ‘La Stanza Mondo’. Cioè il suo Studio. Uno Studio ricolmo di libri, faldoni, documenti, scritti vari, archivio di fotografie, album, carte geografiche, block-notes, appunti su molteplici cose e luoghi del mondo, e prossimo ad essere svuotato come il resto della casa fiorentina in cui mio padre aveva vissuto. Vedremo oltre, tra quali carte – poi approdate all’Archivio Storico Vieusseux – Bonsanti di Firenze –, e da quali documenti del mio personale archivio di famiglia, sono emersi alcuni tasselli utili per ricomporre la genesi storica dei testi poetici. Volgiamoci però prima proprio alle fànfole.
Si trattava forse, come affermato da alcuni commentatori, di componimenti ludici essenzialmente “scritti per divertimento” (Marcellini) in una lingua del tutto inventata e con giochi di parole senza senso? Vediamo un po’… Come ha scritto Franco Marcoaldi nella puntuale biografia dedicatagli, mio padre era “Homo Ludens, Homo Sapiens”. Non si trattava di due modi di essere distinti quanto, piuttosto, di un Homo Sapiens assai Ludens e Homo Ludens molto Sapiens, ragione per la quale conviene presentare qui i suoi versi tenendo in conto vari fattori.
Nella poesia metasemantica significati e parole non sono tutti univoci, cioè lessicalmente definiti e condivisibili come assegnatigli da dizionari e vocabolari. E questo, al primo approccio rende i testi astrusi ed enigmatici. Eppure, a leggere e rileggere, o a recitare, le fànfole ad alta voce, o anche a cantarle – come auspicava mio padre nel suo preambolo – ecco dispiegarsi un insieme di suggestioni, sollecitazioni, riflessioni e narrazioni che pur travalicando il lessico comune si rivelano linguaggio comunicante. La psicolinguistica può fornire una chiave di lettura col concetto di équivoquer dove, come ricorda Andrea Bellavista a riguardo del pensiero lacaniano, “il linguaggio non è stato cancellato ma riarticolato (…) non per informare ma per evocare”. Di fatto, l’assetto formale di base delle fànfole non viene cancellato ma evolve all’interno di una struttura poetica e di una lingua – l’italiano – ben definite e non inventate. Il proprio delle fànfole risiede nella riarticolazione, all’interno di detta struttura, di parole, termini, aggettivi, espressioni, ecc. quelle sì, spesso inventate, o meglio, create. Ma non dal nulla. Come in un costruirsi del Gioco del Meccano, sono composte di frammenti e radici di etimi, e di morfemi, fonemi, fono-simbolismi, effetti sonori, assonanze/dissonanze, il tutto scelto e assemblato oculatamente in modo da evocare o suggerire degli elementi significanti. La tecnica a monte ricorda un po’ quella delle cosiddette “parole macedonia” o portemanteau, dove due o più elementi si contraggono in una sola parola. Pensiamo, ad esempio, in italiano, a “cantautore’”o, in inglese, a “infotainment”. Così tante ve ne sono nel nostro parlare che poco ce ne accorgiamo. Come annotava mio padre in un suo appunto, nel vasto “oceano delle parole”, dei dizionari etimologici e dei vocabolari, come nelle liste e nomenclature d’ogni genere – da quelle scientifiche alla toponomastica –, oltre alle origini delle parole stesse, v’erano tante “parole macedonia”, e nomi, aggettivi, termini altamente suggestivi. Crearne di nuove lo appassionava; dalle più semplici ad altre più complesse, da “urlapicchio” ad “Urazio’” termine, questo, che mio padre ebbe a spiegarmi un giorno essere composto dal prefisso della lingua tedesca “ur” (che sta per “antichissimo”, “delle origini”) e la parola “spazio”, onde ad alludere allo spazio primevo o universo.
Nell’oceano delle parole, quante nuotate! Da bambina, mi ci tuffavo con lui che improvvisava rime su termini astrusi o da me storpiati, come quando io dicevo catammaro invece di “catrame” o incrostio invece di “inchiostro’”, enimma o caracassa invece di “enigma”e “carcassa”, e lui subito ne componeva una filastrocca.
La sua personale costruzione delle parole si è così dispiegata assemblando liberamente frammenti e sonorità in vista dell’effetto desiderato. A questo proposito va ricordato che per la scienza dei segni e dei suoni nulla è comunque mai senza senso. Così come una freccia comunica qualcosa di diverso d’un cerchio, e patatrac da trallallà, è chiaro al lettore che ne Il giorno ad urlapicchio, “i giorni smègi’”non sono uguali ai “giorni timparlini”. Se le fànfole hanno ognuna un proprio titolo, è proprio perché ciascuna racconta qualcosa ed ha un suo senso. Alcune gettano uno sguardo ironico e divertito su fatti, cose e personaggi (incluso cicale e formiche…). Altre, affrontano questioni assai pregnanti: dalla dichiarazione d’amore e gli interrogativi sulle misteriche finalità ultramondane (vedi, ad esempio, Circuito dell’anima, Dialogo celeste o Gli Arconti dell’Urazio), al “prato-Dio” e ai suoi “eucaristici bisbigli”, dove il riferimento ai prati in fiore esprime tutta la passione che mio padre aveva per la natura intesa come luogo e fonte di epifanie.
Tra le fànfole, la più famosa è forse Il Lonfo, che molto ricorda il poemetto di Lewis Carroll detto Jabberwocky, capolavoro della letteratura nonsense inglese. Ma altre ancora – come E gnacche alla formica…, e Il giorno ad urlapicchio – sono state recitate e musicate. In quanto alla fànfola dal titolo Bottiglie – che inizia coi versi “non siamo tutti simili a bottiglie/ ripiene di ricordi e cronicaglie?” per narrare come “poi un giorno la bottiglia si tracassa/ il vetro si sbiréngòla nel sole” – riassume a mio avviso in modo esemplare la “struggente domanda” sull’essere al mondo sottesa in molti versi e scritti di mio padre. Io la lessi alla sua cerimonia funebre a Firenze prima che la bottiglia tracassata e sbiréngòlata fosse inumata al piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio in Garfagnana.
Non tutte le fànfole, pur ricorrendo al tono giocoso, sono dunque espressione d’un passatempo per mero divertimento. Più che d’un tono giocoso, dovremmo parlare di scherzosi. e magari anche ironici, componimenti su cose talvolta assai serie. Alcuni studi hanno evocato il nonsense della tradizione inglese e collocato le fànfole in quella corrente poetica e letteraria che, come scrive Alessandra Ottieri, in Italia ha singolari esempi, oltre che nella poesia di Toti Scialoja e Giulia Niccolai, anche in alcuni componimenti di Landolfi, ma non solo. Come vedremo, la “nonsense poetry” inglese aveva in effetti dilettato mio padre sin da bambino. Bisogna tenere tuttavia presente che la tradizione poetica del nonsense non indica una mancanza di significato e non è da tradurre in italiano col semplice concetto di “senza senso”, bensì con ciò che – sovvertendo il senso comune e maneggiando fantasiosamente narrazioni e termini – sorprende e sollecita l’immaginario con evocazioni sottese e un umorismo giustamente definito “un po’ assurdo e surreale”. Prendiamo ad esempio quanto ha scritto, a proposito della poesia Il Lonfo, Daniele Baglioni in un suo scritto su “Lingue inventate e nonsense nella letteratura italiana del Novecento”. Dopo averne citato i primi versi, egli scrive: “Gli articoli, le congiunzioni, le preposizioni e alcuni avverbi sono italiani ma i nomi, i verbi e gli aggettivi no. O almeno così ci sembra perché in linea teorica vatercare e gluire potrebbero essere verbi della nostra lingua. Eppure (…) capiamo dal contesto che deve trattarsi di un animale (…) Come facciamo a capire che il lonfo è un animale? Forse perché gluisce come la mucca muggisce, il cavallo nitrisce e il leone ruggisce; o forse perché, se si muove quando si alza il vento, vuol dire che vive all’aperto (…) Il poeta ha disseminato nei suoi versi tanti piccoli indizi che, messi tutti insieme con l’aiuto della logica e della grammatica, possono farci capire tante cose”…
Situate in un panorama letterario di fondo – senza dimenticare le “parole in libertà” del Futurismo e magari menzionando a latere il genere di componimento detto grammelot col quale, da Dino Buzzati a Dario Fo, numerosi scrittori e attori si sono cimentati –, le fànfole sono entrate nella storia delle correnti poetiche italiane del Novecento. Ma poiché ogni autore, e autrice, ha la sua carica immaginativa, il suo costruire poetico e, ovviamente, la sua personalità, l’Homo Ludens, Homo Sapiens che era mio padre, pur appartenendovi sotto molti aspetti, travalicò categorie e correnti. Erudizione morfologica e pathos esistenziale temperavano il puro gioco. Come annotava nel suo preambolo, era affascinato dalle “voragini di metasensi” che s’aprivano inoltrandosi tra suoni ed etimologie. A questo riguardo, Daniele Baglioni ha osservato, a mio parere giustamente, che la poesia metasemantica potrebbe piuttosto essere definita perisemantica.
Ma la poesia è poesia, e va oltre le terminologie. Quelle qui raccolte meglio chiamarle semplicemente fànfole, termine ormai a sé stante, che sembra essere stato formulato e scelto da mio padre dopo qualche ripensamento. Una cartellina con alcune fànfole conservata nella Stanza Mondo portava infatti originalmente in incipit la scritta a mano “Acrolissi’”, da lui susseguentemente annullata con un tratto di matita e sostituita con la parola “Fànfole”. Parola che allude a fole e fanfaluche (nonché al fun, leggasi “fan”, inglese), e alla radice di fantasia e fantasmagoria, nonché fantasma e ciò che si manifesta in modo enigmatico e sfuggente, eppure intenso e pregnante, in un moto, scriveva lui nel preambolo, allusivo e “squisitamente tangenziale”, con improvvisi “colpi di brezza”. Molto importante in tutto questo è la attiva partecipazione e disponibilità d’animo di chi legge, e magari legge e rilegge ad alta voce i versi, cogliendone le suggestioni e ricollegando indizi e nessi logici.
Nell’insieme, di fànfole non ne rimangono molte. Come mio padre racconta nel suo preambolo, prendevano forma dopo gran lavorio e riflessione sulle parole. S’articolano talvolta forse con un eccesso d’intricato maneggiare di termini? Come ogni persona che scrive poesia sa, alcune meglio restino allora nel cassetto. Tra le sue carte ve n’erano infatti che lui non aveva pensato pubblicare. E, di fatto, la scelta dei testi operata con Marcellini per La Gnòsi delle Fànfole fu saggia e ponderata.
Poiché aveva iniziato a scrivere versi quando era molto giovane e alcune tematiche di fondo delle fànfole vi fibrillavano già sin da allora, volgersi alla loro genesi, gestazione e storia può essere istruttivo.
Mio padre era nato al confluire di varie lingue e culture. Come ha raccontato nel capitolo “L’età delle favole” della sua autobiografia romanzata “case, amori, universi”, il bambino Clé (cioè il suo alter-ego) “fin da quella tenera età, possedeva un gusto tutto suo, una passione per le parole, per i nomi tanto di luoghi che di persone”. E di parole snocciolate in varie lingue molte ve n’erano in quel suo mondo d’infanzia! V’erano i favolosi racconti ungheresi, con mirabolanti nomi di luoghi, persone e cose, che le raccontava in inglese e italiano la madre Edith, detta Yoï, nata in Ungheria da padre britannico e madre polacco-ungherese.
Lei gli canticchiava anche le filastrocche, storielle, poesiole per l’infanzia del repertorio inglese delle Nursery rhymes e il loro lotto di limeriks e nonsensical, brevi versi rimati sul filo di un surreale umorismo. Tra i tanti componimenti, molto lo aveva colpito il poemetto Jabberwocky che figura nel libro di Lewis Carroll sul viaggio di Alice attraverso lo specchio. La ri-articolazione e creazione di termini delle fànfole in qualche modo ne evocano spirito e procedimento. Oltre a tutto questo, e oltre ai racconti delle varie zie – una italo-svizzera di Roma e una che ogni tanto approdava dall’Inghilterra – v’era il dialetto toscano appreso sin da bambino dai vari personaggi di Ricòrboli, frazione allora rustica di Firenze dove mio padre era nato. Alcuni termini del parlare toscano compaiono infatti nelle fànfole.
A riguardo del suo interesse per quello che ogni dialetto contiene di sonorità e parole, va ricordato che a lato di quello toscano s’aggiungerà poi nel tempo anche il dialetto siciliano. Tra le sue carte conservava alcuni vetusti fogli sciolti dei Canti popolari siciliani raccolti da Giuseppe Pitré.
Assieme ai giovani amici della Firenze cosmopolita, mio padre si divertiva poi da ragazzo a parlare in un linguaggio tra loro detto “scilinguagnolo”. Allo scilinguagnolo lui fa riferimento in una lettera spedita nel 1939 da Sapporo (Giappone) all’amico artista futurista Ernesto Michahelles, detto Thayaht, conservata al Mart di Rovereto. Descrivendo la comunità di studiosi e antropologi (ma non solo) che orbitava a Sapporo attorno alla Università, mio padre gli scriveva: “qui si parla (…) una lingua composta di pezzetti di inglese, tedesco, francese, italiano, giapponese, latino, greco e sanscrito. È una grande scuola per lo scilinguagnolo!”. Una scuola durata una vita, e che ha accompagnato sin dall’infanzia il nostro background familiare con un parlare costellato di scilinguagnoli.
Non sorprende, in tutto questo, che in alcune sue poesie giovanili siano ben presto apparse parole ed espressioni di sonora e allusiva efficacia. Nella poesia Un canto grullo, per esempio, che inizia così: “Un canto grullo/ tutto brigidini, coriandoli, spetazzi e bomboloni/ Oh datemi la luna, e quei pallini/ di luce – son le stelle?”. Detta poesia era inclusa in una raccolta dal titolo Il sangue della luna (che comportava, in alto, la scritta Dall’Oriente, cancellata) e aveva come sotto-titolo la dicitura “Tokyo 1945 – Campo di Concentramento del Tempaku, Nagoya, Giappone 1943-1945″. Trascritta fattivamente con la macchina da scrivere a Tokyo alla fine della guerra, il riferimento di detta raccolta al Campo di Concentramento rinviava al periodo di poco precedente.
Come documentato da alcune loro lettere, di quella raccolta – che mio padre definiva in una missiva “li sparsi versi” – ne aveva consegnato una copia all’amico Mirko Ardemagni per una eventuale pubblicazione, però mai concretizzatasi. In quella raccolta confluivano poesie messe insieme nel 1945 ma scritte anche ben prima. Si trattava invero di un insieme di versi assai sparsi, di svariata qualità, epoca e natura, spesso in forma di sonetto, che aveva in gran parte portato con sé in Giappone e poi, di ritorno, riposto tra le sue carte. Alcuni di quei versi, classicheggianti e lambiccati, erano di tutta evidenza stati scritti da ragazzino e trattavano tematiche mitologiche, narrazioni di “regi” e cavalieri, di Atzechi, Odalische e Faraoni, a conferma del fatto che aveva iniziato molto presto a scrivere poesie in un moto di fuga dal quotidiano. Una poesia, dal titolo I paesi lontani, ne ricordava anni dopo il pathos iniziando così: “Ragazzo in cima a un poggio verso sera/seduto solo masticando un fiore/ (…) o nuvole sognanti e gondoliere/ poter fuggir con voi dall’orizzonte (…)”. Come testimoniano una dozzina di altri versi, avanzando nel tempo e inseguendo le nuvole “sognanti e gondoliere”, sentimenti e lingua si erano sciolti con grande intensità poetica. Visto il loro riferimento alle escursioni e scorribande nella natura e tra i monti che lo avevano portato – ormai non più ragazzino – dalle Apuane alle Madonie e, poi, prima di partire per il Giappone, dalle Alpi al Tibet, possiamo situarle negli anni Trenta. Anni anche di una poesia d’amore intitolata Le Terre Rare, dove il verso “per te dagli occhi rari (..) di malachitici bagliori” chiaramente allude agli occhi verde-blu di mia madre Topazia, sposata nel 1935 e da lui chiamata Malachite nella biografi a romanzata ‘case, amori, universi’.
Infine, tra “li sparsi versi”, una manciata di poesie assai intense e sofferte furono di certo scritte nel periodo di prigionia, cioè nella prima metà degli anni Quaranta. Lo comprova un Canto del prigioniero, di cui esistono alcune varianti; una fu pubblicata, col titolo Dalla prigione, sulla Rivista del CAI nel 1946. Nel suo Diario tenuto di nascosto nel Campo di Concentramento – e pubblicato a mia cura da Sellerio agli albori del 2000 – mia madre Topazia il 19 Agosto 1944 annotava: “Fosco è sempre più chiuso e rivolto in sé (…) è venuto or ora a leggermi una sua poesia (…) che adesso questo sia divenuto il suo unico modo di espressione?”. Lei poi nascondeva quelle poesie che lui le dava tracciate a mano su dei foglietti.
Nel loro insieme – con l’eccezione che vedremo oltre – non si trattava ancora di fànfole. Ma, come per la poesia Un canto grullo, vi emergevano alcune parole usate proprio per la loro suggestiva evocazione. Una delle poesie, inizia così “perché non canto?/ non ho più nel cuore/ che trucioli e conchiglie, o teodoliti/ per misurar lo smisurato orrore (…)”.
Basta questo, e il fatto che qua e là nella eterogenea raccolta de “li sparsi versi” si trovino alcuni originali indizi, per affermare che, dopo lunga gestazione giovanile, le fànfole nacquero nel Campo di Concentramento di Tempaku (Giappone)? No, non basta.
Ma c’è un importante dettaglio. Mio padre aveva. suddiviso “li sparsi versi” in sezioni tematiche. Quella conclusiva portava la dicitura “Abracadabra” e includeva tre poesie: Teoria flongistica dell’odio, Tragico splendore dei birilli, e Antichissima tristezza della gioia. Per queste poesie, sì, si trattava già inequivocabilmente di fànfole. Antichissima tristezza della gioia figurerà infatti quasi mezzo secolo dopo, con qualche variante e col titolo Il vecchio Troncia, nella raccolta Gnòsi delle fànfole, e Teoria flongistica dell’odio, col titolo In odio maggiore, tra le fànfole inserite nelle “Opere scelte” edite da Mondadori. Un lungo viaggio davvero!
Aggiungo un dato che fu per me illuminante. Tra le carte del periodo bellico in Giappone ecco spuntare un altro esile foglietto, malconcio e tutto riempito a mano da mio padre in ogni suo spazio, come accadeva in prigionia con il bene raro e prezioso della carta. Al suo centro vi aveva trascritto con calligrafia minuta alcuni versi della Divina Commedia e, sotto, l’annotazione: “Dante – Inf – XXI – 118 – 123” . Si trattava del passaggio de “L’Inferno” comunemente detto “la pattuglia dei dieci diavoli”, dove i diavoli avanzano, appunto, in pattuglia. Trascrivendo i versi 118 -123, mio padre ne dava tutti i nomi.
Io ne riporto qui alcuni: Libicocco, Draghignazzo, Cagnazzo, Calcabrina, Graffiacane e Malacoda. A riguardo delle loro “etimologie allusive”, lo studioso di Dante Giuseppe Giacalone, in nota ad un’edizione de “L’Inferno”, ha scritto che il nome Libicocco viene da “diavolo proveniente dalla Libia, un intreccio di scirocco e libeccio”, Draghignazzo “da drago e sghignazzo”, Calcabrina “che sfiora la brina per la sua leggerezza”, Cagnazzo da “cane grosso e paonazzo”… Nomi (come anche Graffiacane e Malacoda…) con termini “macedonia” e parole composte di frammenti aureolati da quelle sonorità e radici etimologiche che tanto appassionavano Clé… Un piccolo dettaglio chiude il cerchio. In alto, sopra i summenzionati versi di Dante, mio padre aveva scritto “Abracadabra”.
Volgerci alla genesi delle fànfole può aiutare a capirne alcuni aspetti. Le due fànfole prima menzionate – pubblicate decenni dopo coi titoli In odio maggiore e Il vecchio Troncia – se collocate nel contesto storico degli anni di guerra, possono essere meglio comprese. Prendiamo Il vecchio Troncia, inclusa qui, nella La Gnòsi delle Fànfole. Lungi dall’essere stata scritta negli anni Novanta da un attempato “scrittore ubriacone e avvinazzato”, come opinava online un detrattore delle fànfole, figurava tra i testi raccolti del 1945 quando mio padre aveva poco più di trent’anni, e si ricollega a qualcosa di molto diverso … Cosa? Ne “li sparsi versi”, lui dedicava una poesia dal titolo Pane e vino al mondo contadino vissuto in gioventù tra gite e monti, quando “sul piatto il pane; rosso nel bicchiere/ il vino del paese (…) è dolce ritrovarsi a quando a quando tra schiette cose antiche (…)”. Sembrerebbe che, anni dopo e all’altro lato del mondo, riandando col pensiero a quello schietto universo ormai lontano e scomparso, nonché ai suoi coloriti personaggi, egli ricorra alla classica formula “mesci il vino, o coppiere” (che appare anche in un’altra sua poesia giovanile), usata dagli Antichi e da Omar Khayyam (poeta molto apprezzato dalla madre). Tanto basta, quel mescere del vino “nero gagliardo perlinetto”, per far rivivere nella sua fànfola il “cantare a cincifrencia lilleranti” d’un tempo felice. Il vecchio Troncia incarna d’altronde figure come l’anziano contadino Martino di Ricòrboli, evocato in ‘case, amori, universi’.
Oltre a questa e alla già menzionata poesia Le Terre Rare – che anticipa la fànfola qui inclusa detta Le Pietre Rare – altre significative prefigurazioni tematiche sulla natura e le sue epifanie, gli interrogativi esistenziali, il diletto nel maneggiare termini e concetti, confermano il filo conduttore di una lunga gestazione.
In conclusione dunque, il poetare ha scandito nella vita di mio padre modi, periodi e situazioni assai diversi, ma in vari casi già preludeva a svariati elementi confluiti nelle fànfole. Le quali, insomma, non sorsero dal nulla, né per mero divertimento, e senza senso.
Se la mia introduzione si è dispiegata qui con una sequenza – forse un po’ fastidiosa… – di fatti, temi e dettagli storici, è affinché questa nuova edizione delle fànfole possa aggiungere qualche tassello ai tanti studi e scritti precedentemente apparsi. E all’interrogativo che mio padre si poneva nel suo preambolo quando scriveva “adesso mi resta solo da sperare di non avere scritto in una lingua privata e segreta, come dire per me solo”, poter rispondere che invero, no, non ebbe a poetare sempre solo per lui.
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Il giorno ad urlapicchio
Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.
E gnacche alla formica…
Io t’amo o pia cicala e un trillargento
ci spàffera nel cuor la tua canzona.
Canta cicala frìnfera nel vento:
E gnacche alla formica ammucchiarona!
Che vuole la formica con quell’umbe
da mòghera burbiosa? È vero, arzìa
per tutto il giorno, e tràmiga e cucumbe
col capo chino in mogna micrargìa.
Verrà l’inverno sì, verrà il mordese
verranno tante gosce aggramerine,
ma intanto il sole schìcchera giglese
e sgnèllida tra cròndale velvine.
Canta cicala, càntera in manfrore,
il mezzogiorno zàmpiga e leona.
Canta cicala in zìlleri d’amore:
E gnacche alla formica ammucchiarona!
Bottiglie
Non siamo tutti simili a bottiglie
ripiene di ricordi e cronicaglie?
Bistròccoli, fruschelli, filaccetti
ricolmano le pance trasparine,
fanfàggini, birìllidi, nulletti
s’asserpano in ghirlande cilestrine…
Se scuoti la bottiglia sgrengoluta
risorgono megoni e gastrifèmi,
rispuntano tra mèmmola grognuta
nascosti vercigogni e schifilemi.
Talvolta vedi invece lumigenti
miriàgoli, trigèridi, fernuschi,
e piangi su gavati struggimenti
finiti coi patassi tra i rifiuschi.
Non tornano a rivivere le facce
d’amici e d’amorilli luscherosi?
Risplòdono le voci, le morcacce
d’incontri cuspidiali e trucidiosi!
Poi un giorno la bottiglia si tracassa,
il vetro si sbiréngola nel sole
in croccherucci verdi, in patafrassa,
tra l’erbe cucche e cionche di pagliòle.
Ahi dove sono allora i gaviretti,
i nobili tracordi, i rimembrili,
i càccheri, gli smèrmidi, i frulletti,
i mòrfani, gli sghèfani gentili?
Sdrafànico mistero di bottiglia
bottiglia di sdrafànico mistero.
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Nell’immagine: Illustrazione digitale di Paolo Domeniconi, “May” – 2015 Fatatrac Calendar