Con Elsa in Paradiso
“Elsa ogni tanto ci portava in Paradiso.
E a chi chiedeva: «A me mi porti?» «No»,
lei subito, decisa, «Non c’entri niente tu.
Tu non ci puoi venire in Paradiso».
«E allora chi ci porti?» insistevano i delusi,
«Patrizia ce la porti?» E Elsa: «Sì,
Patrizia può venire in Paradiso».
Ah, come mi piaceva questo andare
facile, sicuro, senza dover competere!
Però, per non offendere, facevo
la distratta coi respinti. Anche se poi,
tra discussione e dubbi, un po’ alla volta
venivano alla fine quasi tutti assunti.
Ma io – a parte i gatti, che stavano già lì
ad aspettarci – ero la prima, sempre,
la prescelta. Non mi chiedevo il motivo
di questa preferenza: da un lato
mi pareva naturale, dall’altro
pensavo fosse meglio
non mettersi a indagare. Del resto,
io a quei a quei tempi venivo ammessa ovunque:
ai pranzi, al cinema, a teatro, andavo
sempre bene con chiunque. Neanche
di questo mi chiedevo la ragione,
forse per questo avevo l’ammissione.
In quanto al Paradiso, a figurarmelo,
io non vedevo altro che il prato dove stavo,
come un vassoio che ci portasse
in alto, un po’ inclinati e senza più
le sedie, per cui ci si arrangiava
poco comodamente sopra l’erba.
Un’altra differenza era con gli alberi,
molto piccoli, qui, da miniatura,
e con le chiome composte e tondeggianti.
E poi c’erano i gatti, lenti, sul fondale,
che, finalmente belve, parevano più grandi del normale.
Non c’era altro,
neanche mezza schiera di beati.
Ce ne stavamo lì, tranquilli, a chiacchierare,
le voci liete, senza mai un’asprezza
– persino Elsa teneva basso il tono –
le facce buone buone, intese a dimostrarsi ospiti
all’altezza del posto e del regalo. E anch’io pallidamente
simulavo, pur annoiandomi degli altri
e di me stessa, mentre qualcosa mi diceva
che essere prediletti può bastare in sé,
e che a volerne raccogliere i frutti
si può cadere in una scialba
sproporzione. Che c’entra, per Elsa
era diverso, aveva un’altra idea
del Paradiso, lei ci vedeva
innegabili vantaggi: andare senza borsa,
per esempio, o alla sera non lavarsi i denti.
Ma io non ero ancora così stanca
e preferivo i pranzi concitati, benché
tra me un po’ mi vergognassi
di non avere spirito abbastanza
per trasognarmi nei piaceri alti.
Avrei più tardi rimediato, quando
crescendomi la noia mia e degli altri,
sarei ricorsa al più sfrenato immaginare
per abolire, non dico la realtà
ma ogni traccia di verosimiglianza.
E adesso mi stupisco quando penso
a tutti quegli ingenui andirivieni
tra un prato e l’altro dei nostri Paradisi
tra i quali io sceglievo il più terreno
per fingermi l’amata, la prescelta,
chissà per quale grazia immeritata,
senza sapere che in realtà ero bella.
Patrizia Cavalli, da “Vita meravigliosa”, 2020
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“Era il 1969, studiavo Filosofia a Roma, mantenuta dai miei genitori, tornavo sempre a Todi dopo quindici giorni perché finivo i soldi dello stipendio molto velocemente: andavo sempre in taxi, compravo violette candite. Ero molto infelice, non conoscevo nessuno tranne questo gruppo di froci americani molto sofisticati, perché un mio amico di Todi era fidanzato con uno di loro. Uscivo con loro la sera, unica donna, non sapevo nemmeno l’inglese, chiedevo: e dove sono le lesbiche? Possibile che non c’è una donna?, e loro dicevano che ero così funny, che avrei avuto così successo a New York, mi trovavano buffa, non si sa perché. Io ero disperata. Un giorno volevano farmi incontrare Elsa Morante, ma sono arrivata in ritardo: l’ho incrociata sulla porta mentre se ne andava, e con aria un po’ sprezzante mi ha detto: telefonami se vuoi. Così ho fatto. Lei mi ha dato un appuntamento per andare a pranzo insieme e abbiamo subito litigato: io avevo la certezza di assomigliarle perché aveva scritto I”l mondo salvato dai ragazzini”, ma lei già stava da un’altra parte mentre io ero una conformista ancora ferma al Sessantotto. In ogni caso, lì è cominciata la mia vita. Da quel momento è cambiato tutto, da così a così. Con Elsa andavamo a mangiare insieme tutti i giorni, lei aveva trentacinque anni più di me ma si metteva sempre alla pari. Ho conosciuto tutti i miei amici più cari grazie a lei, gli amici della vita: Carlo Cecchi, Angela Ippolito, Giorgio Agamben, Ginevra Bompiani.
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Questa sfusa felicità che assale
“Questa sfusa felicità che assale
le facce al sole,
i gomiti e le giacche
– quante dolcezze
sparse nel mercato,
come son belli
gli uomini e le donne!
E vado dietro all’uno
e guardo l’altra,
sento il profumo
inseguo la sua traccia,
raggiungo il troppo
ma il troppo non mi abbraccia.”
Patrizia Cavalli, da “poesie”, 1999
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Mi guardavo bene dal dirle che scrivevo poesie, io studiavo Filosofia e mi sembrava sufficiente, non pensavo di dover giustificare la mia esistenza con altre cose: sapevo quanto Elsa fosse difficile e quanto sarebbe stata pronta al disprezzo e all’ostracismo. Lei non avrebbe mai mentito, se le avessi mostrato le mie brutte poesie avrebbe detto: ma non ti vergogni? ma secondo te queste sono poesie?, e io più di tutto tenevo alla sua amicizia. Andavamo spesso a Piazza Navona, e a pranzo alla Campana, con amici o da sole. Ero appagata da quel che avevo: per me quello che contava era l’amicizia ed erano le persone, non avevo il fuoco dell’arte che mi bruciava e nemmeno l’ambizione, ma non perché fossi umile: ero presuntuosissima, ma era una presunzione di me stessa, una specie di superbia del mio essere.”
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La scena è mia, questo teatro è mio
Poesie per colazione -153
“Era alla luce terribilmente sabato,
quel sole infimo che annunzia svogliatezze
mentre nella piazza fin dentro le mie finestre
chiuse si muoveva il mercato prolungato.
L’ultima offerta e poi si chiude. Poi la festa
untuosa e il silenzio. Già si smontavano
i banchetti con la ferocia trasandata
della fine. Forse era possibile
una corsa per prendere qualcosa, forse
restava qualche cassetta ancora non riposta.
Ma non mi decidevo a quella corsa.
Quando scendevo ormai era tardi
tra i mucchi di foglie di carciofi
e i pomodori sfatti dove una vecchietta china
correva rapace alla riscossa di mezze mele
di peperoni buoni per tre quarti.
Ma io non cercavo frutta marcia o fresca,
io volevo soltanto la certezza
della settimana che finisce,
dell’occasione persa.”
Patrizia Cavalli, da “L’io singolare proprio mio” in Poesie, 1992
Sarebbe certo andato tutto bene
“Sarebbe certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante; sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all’improvviso togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con un’aria leggermente impaurita
e i capelli un po’ spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno o da una corsa.”
Patrizia Cavalli, da “Il cielo”, 1992
“Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.”
Patrizia Cavalli, da “Vita meravigliosa”, 2020
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“Sono una quality queen, io amo gli oggetti, infatti se penso alla mia morte quasi quasi mi dispiace più per gli oggetti che per le persone. I miei occhi non si poseranno più su quella poltrona dove c’è quella stoffa che ogni volta che la vedo dico ah quanto è bella. Neanche mi manca l’arte, i quadri, ma proprio la bellezza degli oggetti, un vaso lo guardo e dico: come ho fatto a comprare una cosa così bella. L’opus incertum della cucina, composto di pezzi di marmo antico e di ceramiche l’ho fatto io, è il mio capolavoro: l’incontro dell’intenzione e del caso è proprio un paradigma della mia vita anche poetica. Qualcosa che deve incastrarsi con un’altra ma senza prepotenza: devi ascoltare, anche in modo passivo, la forza dell’oggetto in sé.”
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Così schiava. Che roba!
«Così schiava. Che roba!
Così barbaramente schiava. E dai!
Così ridicolmente schiava. Ma insomma!
Che cosa sono io?
Meccanica, legata, ubbidiente,
in schiavitù biologica e credente. Basta,
scivolo nel sonno, qui comincia
il mio libero arbitrio, qui tocca a me
decidere che cosa mi accadrà,
come sarò, quali parole dire
nel sogno che mi assegno».
Patrizia Cavalli, da “Datura”, 2013
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“Le poesie sono spesso una forma di opus incertum, una specie di ascolto duttile, non è semplicemente la volontà a crearle. Le mie poesie sono tutte respiri, a parte i poemetti che sono respiri a lungo termine, respiri che pensano. In un certo senso sì, sono posseduta, mentre scrivo c’è un tempo in cui non penso. Quando avevo le aure, quei grandi mal di testa, quasi preludi a crisi epilettiche, come li descrive Dostoevskij, con un’alterazione della percezione dei sensi, precipitavo in una specie di visionarietà, stando dopo malissimo. Prima una felicità incontenibile, qualcosa che ti alza, dove senti l’universo, i continenti, le stagioni, l’infanzia e all’improvviso BOM, come se ti arrivasse una botta in testa e questa forma estatica si trasforma in dolore, dolore, dolore. Era una concentrazione che mi faceva lievitare, ho fatto quarantacinquemila elettroencefalogrammi, ma forse senza saperlo ero un po’ pazza.”
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Io scientificamente mi domando
“Io scientificamente mi domando
come è stato creato il mio cervello,
cosa ci faccio io con questo sbaglio.
Fingo di avere anima e pensieri
per circolare meglio in mezzo agli altri,
qualche volta mi sembra anche di amare
facce e parole di persone, rare;
esser toccata vorrei poter toccare,
ma scopro sempre che ogni mia emozione
dipende da un vicino temporale.
Patrizia Cavalli, da “Poesie”, 1999
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Non ce le ho più, le aure. Sarà un bene o sarà un male? Parafrasando Sandro Penna: il problema della testa prende tutta la mia vita, sarà un bene o sarà un male mi domando ad ogni uscita. Forse non lo ero, perché ho sempre ragionato. Del resto la base fisiologica delle mie poesie è fondamentale. Io non sono mai ispirata da una cosa astratta. Non mi ispira un ragionamento, un pensiero, ma mi ispira una forma di percezione fisica del suono delle parole e della sensazione che accompagna queste parole, come si incarnano. Non nasce mai una mia poesia da un ragionamento, anche se le mie poesie ragionano molto. La nascita viene da un forte stimolo psichico, nervoso, quasi materiale, e da qui si muove la lingua e va fisicamente dove viene condotta. Questa è l’ispirazione. Non tutti hanno la stessa scaturigine, io ho questa e non è astratta: è fisica, ci sono le persone, l’amore, l’odio, il disprezzo, il gioco, casa mia. Poi grazie alla lingua l’ispirazione prende un corpo, un’evidenza. Le parole per me sono tutte belle, tutte. Se riescono ad esistere, e a vibrare, la lingua è una cosa meravigliosa, un miracolo dell’umano, è tutto bellissimo se riesce a stare nel punto in cui la parola si dispone in un corpo evidente, necessario e sorprendente. Non ci sono parole brutte e non esistono sinonimi. La parola è quella. E’ un’idea ridicola che esistano i sinonimi. Le parole possono solo assomigliarsi parzialmente. Ogni parola ha la sua proprietà, quando hai detto la parola che è proprio quella tu lo sai, lo senti. Far sembrare come se tutto dovesse essere così e che per la prima volta che uno ha aperto bocca è uscito questo fiato. A volte è proprio così ed è come se ci fosse una grazia che proprio te lo regala. Altre volte no. Ma è il risultato che conta. Senti com’è bello questo distico:
Penso che forse a forza di pensarti
Potrò dimenticarti amore mio.
Senti che può fare la poesia: va verso l’aria. Che cosa c’è di più bello delle parole, della lingua? E’ proprio l’amore che mi muove, e magari non è la verità intesa in un senso letterale, ma c’è sempre una forma estatica di adorazione, di disprezzo o di odio. L’amore spirituale non so che cosa sia, mi dura mezza giornata. O sono affected, impressionata, oppure non so cosa sia l’amore”.
Addosso a te incerata e mi perturbo
Del tuo imperturbabile restare,
dissipo ogni sostanza materiale
da non aver più nulla da turbare.
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Essere testimoni di se stessi
“Esseri testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male.
Patrizia Cavalli, da “Poesie”, 1999
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“Per amore ho avuto momenti terribili: all’improvviso cominciava questa sofferenza allucinante, stavo per ore a fissare la parete. Non mi succede più, questa cosa si è interrotta, ma io sono diventata meno intelligente, più opaca, adesso ho la sensazione di non essere niente, perché non sento più quello che sentivo. Non so se sono queste cure, ma ho addirittura la sensazione di aver cambiato carattere”.
“Come morta, meno che morta,
più che morta. Vivente
a due passi, scomparsa
ai miei occhi. Dio degli incontri,
ritornami amico!”
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Se posso perdonare
I brani in corsivo sono tratti da “Le mie poesie sono respiri e io respiro per trovare le parole. Patrizia Cavalli si racconta”, di Annalena Benini, in “il Foglio”, 21 agosto 2017