Linguaggi

21 giugno 2022: Addio a Patrizia Cavalli

22.06.2022
“E se mi guardi davvero e poi mi vedi?
Io voglio che stravedi non che vedi!”
Patrizia Cavalli, da “Stanche divinità”
*****
“Festeggiamo la vita consoliamo la morte
o magari il contrario finché viviamo”
Patrizia Cavalli, da “Vita meravigliosa”, 2020
******
Se vuoi proprio saperlo, io le poesie le ho sempre scritte: le prime le ho fatte per Kim Novak, in quinta elementare, dopo aver visto ‘Picnic’. Kim Novak che scende le scale battendo le mani a tempo di musica, nuvola bionda in abito rosa, William Holden che lascia l’altra donna per ballare con lei. Mi sono innamorata, sono andata a casa e ho detto alla mamma: voglio conoscere Kim Novak. Lei mi ha detto: ma come faccio? E io: ah sì, e allora non mangio più. E non ho mangiato per una settimana. Povera mamma, ero una bambina così infelice. A un certo punto, dopo il digiuno, ho scritto due poesie, che ho ritrovato in certi vecchi taccuini. Una si intitola: ‘Se morisse Kim Novak’. Dove sono gli abiti miei neri? Dov’è il lutto che fuor si vede? Non c’è? Beh, non fa nulla. Avrò lutto precoce nel cuor profondo mio”.
*****
Adesso che il tempo sembra tutto mio
“Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.
Quante tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.
Così dimentico sempre
l’idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.
Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
E’ tutto così semplice,
sì, era così semplice,
è tale l’evidenza
che quasi non ci credo.
A questo serve il corpo:
mi tocchi o non mi tocchi,
mi abbracci o mi allontani.
Il resto è per i pazzi.”
Patrizia Cavalli, da “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, 1974
*****
In realtà io non ho fatto altro, in tutta la vita, che fare una sorta di racconto fisiologico: nasce tutto da qualcosa di fisico perché io non ce l’ho l’anima. Io ho solo i sensi, e le parole. Per un periodo ho pensato che scrivere poesie volesse dire alterare un po’ le parole, la lingua, inventarla, e scrivevo cose che non significavano niente, assolutamente niente. Erano cose mie, neanche se ne accorgevano, ero una ragazzina infelice e pazza: non esiste di me bambina una foto in cui sorrido. Verso i 14 anni invece ho ricominciato a scrivere poesie molto cariche, molto espressioniste, brutte assai, tutte finte, e ho continuato sempre, con l’idea però che la mia vera ambizione sarebbe stata scrivere la prosa, ma sono sempre stata troppo pigra, ho sempre avuto bisogno di una soddisfazione immediata. Poi ho conosciuto Elsa Morante ed è cambiato tutto”.
*****

Con Elsa in Paradiso

 

“Elsa ogni tanto ci portava in Paradiso.
E a chi chiedeva: «A me mi porti?» «No»,
lei subito, decisa, «Non c’entri niente tu.
Tu non ci puoi venire in Paradiso».
«E allora chi ci porti?» insistevano i delusi,
«Patrizia ce la porti?» E Elsa: «Sì,
Patrizia può venire in Paradiso».
Ah, come mi piaceva questo andare
facile, sicuro, senza dover competere!
Però, per non offendere, facevo
la distratta coi respinti. Anche se poi,
tra discussione e dubbi, un po’ alla volta
venivano alla fine quasi tutti assunti.
Ma io – a parte i gatti, che stavano già lì
ad aspettarci – ero la prima, sempre,
la prescelta. Non mi chiedevo il motivo
di questa preferenza: da un lato
mi pareva naturale, dall’altro
pensavo fosse meglio
non mettersi a indagare. Del resto,
io a quei a quei tempi venivo ammessa ovunque:
ai pranzi, al cinema, a teatro, andavo
sempre bene con chiunque. Neanche
di questo mi chiedevo la ragione,
forse per questo avevo l’ammissione.
In quanto al Paradiso, a figurarmelo,
io non vedevo altro che il prato dove stavo,
come un vassoio che ci portasse
in alto, un po’ inclinati e senza più
le sedie, per cui ci si arrangiava
poco comodamente sopra l’erba.
Un’altra differenza era con gli alberi,
molto piccoli, qui, da miniatura,
e con le chiome composte e tondeggianti.
E poi c’erano i gatti, lenti, sul fondale,
che, finalmente belve, parevano più grandi del normale.
Non c’era altro,
neanche mezza schiera di beati.
Ce ne stavamo lì, tranquilli, a chiacchierare,
le voci liete, senza mai un’asprezza
– persino Elsa teneva basso il tono –
le facce buone buone, intese a dimostrarsi ospiti
all’altezza del posto e del regalo. E anch’io pallidamente
simulavo, pur annoiandomi degli altri
e di me stessa, mentre qualcosa mi diceva
che essere prediletti può bastare in sé,
e che a volerne raccogliere i frutti
si può cadere in una scialba
sproporzione. Che c’entra, per Elsa
era diverso, aveva un’altra idea
del Paradiso, lei ci vedeva
innegabili vantaggi: andare senza borsa,
per esempio, o alla sera non lavarsi i denti.
Ma io non ero ancora così stanca
e preferivo i pranzi concitati, benché
tra me un po’ mi vergognassi
di non avere spirito abbastanza
per trasognarmi nei piaceri alti.
Avrei più tardi rimediato, quando
crescendomi la noia mia e degli altri,
sarei ricorsa al più sfrenato immaginare
per abolire, non dico la realtà
ma ogni traccia di verosimiglianza.
E adesso mi stupisco quando penso
a tutti quegli ingenui andirivieni
tra un prato e l’altro dei nostri Paradisi
tra i quali io sceglievo il più terreno
per fingermi l’amata, la prescelta,
chissà per quale grazia immeritata,
senza sapere che in realtà ero bella.

 

Patrizia Cavalli, da “Vita meravigliosa”, 2020

 

*****

 

Era il 1969, studiavo Filosofia a Roma, mantenuta dai miei genitori, tornavo sempre a Todi dopo quindici giorni perché finivo i soldi dello stipendio molto velocemente: andavo sempre in taxi, compravo violette candite. Ero molto infelice, non conoscevo nessuno tranne questo gruppo di froci americani molto sofisticati, perché un mio amico di Todi era fidanzato con uno di loro. Uscivo con loro la sera, unica donna, non sapevo nemmeno l’inglese, chiedevo: e dove sono le lesbiche? Possibile che non c’è una donna?, e loro dicevano che ero così funny, che avrei avuto così successo a New York, mi trovavano buffa, non si sa perché. Io ero disperata. Un giorno volevano farmi incontrare Elsa Morante, ma sono arrivata in ritardo: l’ho incrociata sulla porta mentre se ne andava, e con aria un po’ sprezzante mi ha detto: telefonami se vuoi. Così ho fatto. Lei mi ha dato un appuntamento per andare a pranzo insieme e abbiamo subito litigato: io avevo la certezza di assomigliarle perché aveva scritto I”l mondo salvato dai ragazzini”, ma lei già stava da un’altra parte mentre io ero una conformista ancora ferma al Sessantotto. In ogni caso, lì è cominciata la mia vita. Da quel momento è cambiato tutto, da così a così. Con Elsa andavamo a mangiare insieme tutti i giorni, lei aveva trentacinque anni più di me ma si metteva sempre alla pari. Ho conosciuto tutti i miei amici più cari grazie a lei, gli amici della vita: Carlo Cecchi, Angela Ippolito, Giorgio Agamben, Ginevra Bompiani.

 

*****

 

Questa sfusa felicità che assale

 

“Questa sfusa felicità che assale
le facce al sole,
i gomiti e le giacche
– quante dolcezze
sparse nel mercato,
come son belli
gli uomini e le donne!
E vado dietro all’uno
e guardo l’altra,
sento il profumo
inseguo la sua traccia,
raggiungo il troppo
ma il troppo non mi abbraccia.”

 

Patrizia Cavalli, da “poesie”, 1999

 

*****

 

Mi guardavo bene dal dirle che scrivevo poesie, io studiavo Filosofia e mi sembrava sufficiente, non pensavo di dover giustificare la mia esistenza con altre cose: sapevo quanto Elsa fosse difficile e quanto sarebbe stata pronta al disprezzo e all’ostracismo. Lei non avrebbe mai mentito, se le avessi mostrato le mie brutte poesie avrebbe detto: ma non ti vergogni? ma secondo te queste sono poesie?, e io più di tutto tenevo alla sua amicizia. Andavamo spesso a Piazza Navona, e a pranzo alla Campana, con amici o da sole. Ero appagata da quel che avevo: per me quello che contava era l’amicizia ed erano le persone, non avevo il fuoco dell’arte che mi bruciava e nemmeno l’ambizione, ma non perché fossi umile: ero presuntuosissima, ma era una presunzione di me stessa, una specie di superbia del mio essere.”

 

*****

 

La scena è mia, questo teatro è mio

“La scena è mia, questo teatro è mio
Io sono la platea, sono il foyer
Ho questo ben di dio, è tutto mio
Così voglio, vuoto
E vuoto sia. Pieno del mio ritardo”.
Patrizia Cavalli, da “Sempre aperto teatro”, 1999
*****
Dopo un paio d’anni di frequentazioni quasi giornaliere Elsa, andando dal ristorante a Piazza Navona, si ferma all’improvviso e con l’aria più minacciosa della terra mi guarda e dice: ma insomma tu, che fai? Allora non so come mi è venuta questa imprudente e perfida idea di dire, sapendo che per lei la poesia era il massimo: scrivo poesie. Lì è cominciato l’incubo. Mi ha guardato e ha detto: ah sì? beh, fammele leggere, non perché mi interessino dal punto di vista letterario, voglio solo vedere come sei fatta. La peggiore delle minacce: per me è stato l’inferno. Ho cominciato a svicolare. Non andavo più a pranzo. Non mi facevo trovare, prendevo mille scuse, poi andavo a pranzo e lei subito: ma queste poesie? E io: le sto ricopiando. Ogni volta: e queste poesie? E io sempre: le sto ricopiando. E lei: e che ricopierai mai! Ma io non le stavo ricopiando, le stavo scrivendo! Perché non ero stupida e avevo capito che quello che avevo scritto era orribile, era quanto di meno potesse piacere a Elsa. Sapevo che lei non poteva essere imbrogliata, così ho fatto un esercizio spirituale: ho riconosciuto e raggiunto quello che doveva essere da un lato vero e dall’altro doveva accordarsi a ciò che Elsa avrebbe riconosciuto come autentico. Quindi ho fatto un esercizio tra la menzogna e la verità.
*****

Poesie per colazione -153

 

“Era alla luce terribilmente sabato,
quel sole infimo che annunzia svogliatezze
mentre nella piazza fin dentro le mie finestre
chiuse si muoveva il mercato prolungato.
L’ultima offerta e poi si chiude. Poi la festa
untuosa e il silenzio. Già si smontavano
i banchetti con la ferocia trasandata
della fine. Forse era possibile
una corsa per prendere qualcosa, forse
restava qualche cassetta ancora non riposta.
Ma non mi decidevo a quella corsa.
Quando scendevo ormai era tardi
tra i mucchi di foglie di carciofi
e i pomodori sfatti dove una vecchietta china
correva rapace alla riscossa di mezze mele
di peperoni buoni per tre quarti.
Ma io non cercavo frutta marcia o fresca,
io volevo soltanto la certezza
della settimana che finisce,
dell’occasione persa.”

 

Patrizia Cavalli, da “L’io singolare proprio mio” in Poesie,  1992

*****
“Dopo sei mesi di svicolamenti sono arrivata al ristorante con un fascetto di trenta poesie, tutte brevi, poi sono tornata a casa e dopo mezz’ora ho ricevuto una telefonata: ‘Patrizia, sono felice: sei una poeta’. Ho provato una tale felicità, anche se non me ne importava niente d’esser poeta. Ma ero stata assolta, e dunque ero stata accolta: per me quello fu un sollievo tale che poi tutto il resto, quello che è successo dopo, mi è sembrata la cosa più naturale del mondo. Mi importava di essere finalmente al sicuro: non potevo più essere cacciata perché ero poeta. Mi davo delle arie tremende. Quando poi questo libretto di poesie è uscito, non me ne importava molto. Ho avuto sempre un lato calcolatore un po’ cinico, non sono mai stata veramente innocente. Non mi importava degli altri, volevo solo essere accettata e amata da Elsa, che era per me il massimo che ci potesse essere. Lei ha trovato il titolo, io ero a New York, lei mi ha telefonato e mi ha detto: sono qui a correggere le bozze della Storia, ho guardato il tuo libro e penso che dovrebbe intitolarsi: ‘Le mie poesie non cambieranno il mondo’, ti va bene? E io ho detto: va benissimo, ma l’avrei detto di qualunque titolo”. 
*****
Qualcuno mi ha detto
“Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.”
Patrizia Cavalli, da “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, 1974
*****
“Era stata Elsa stessa a dirmi: guarda, non credere che le tue poesie cambieranno il mondo. Perché lei era così: da un lato ti esaltava, dall’altro ti diceva: non ti montare. Mi ricordo che una volta sono andata al ristorante con un panama, mi credevo di avere chissà che in testa, arrivo e lei mi fa: ma figurati, questo cappello, ai miei tempi lo mettevano i ragionieri. Vanitosissima com’ero, mi sono offesa a morte, ho cominciato a fare musi sovrannaturali. Stavamo con altri amici, Carlo Cecchi, lo scenografo Sergio Tramonti, e Elsa dice: ‘Guardate questa cretina: le ho appena detto è nato un poeta e adesso fa i musi per un cappello’. Però lei in realtà di questo era felicissima, per lei uno che fa il muso per un cappello ha qualcosa di meglio di uno a cui piacciono le poesie, è davvero un poeta. Ma il mio problema è la pigrizia e la fannullaggine: posso dire che ho lavorato, ma senza mai accorgermene, ho pubblicato poco, ho i cassetti pieni di fogli orfani.”
*****
Bene, vediamo un po’ come fiorisci
“Bene, vediamo un po’ come fiorisci,
come ti apri, di che colore hai i petali,
quanti pistilli hai, che trucchi usi
per spargere il tuo polline e ripeterti,
se hai fioritura languida o violenta,
che portamento prendi, dove inclini,
se nel morire infradici o insecchisci,
avanti su, io guardo, tu fiorisci.”
Patrizia Cavalli, da “Poesie”, 1999
*****
“Quando leggo di scrittori che tutti i giorni si mettono al tavolo per ore, qualunque cosa succede, proprio li invidio: io sono stata capace di stare mesi senza scrivere una parola, o almeno senza accorgermi di farlo. Ma perché, con le poesie guadagni? Io ho venduto un numero notevole di libri, considerando che sono poesie, ma non è così che diventi ricco. Certo, sarebbe bello essere ricchi, e adesso mi è venuta la mania di farmi pagare. Adesso ho vinto il premio Feltrinelli, e ne sono felicissima. Però io mica ho guadagnato con le poesie, ho fatto tutt’altro. Per un periodo ho fatto la mercante d’arte, soprattutto negli anni Ottanta era molto facile. Qualcuno aveva un quadro o un oggetto da vendere, io facevo da tramite con il compratore e prendevo la percentuale, in due minuti guadagnavo anche molti soldi. Ho fatto transazioni con un grande antiquario di Torino che in una sola volta ha venduto quadri per dieci miliardi di lire.”
*****

Sarebbe certo andato tutto bene 

 

“Sarebbe certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante; sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all’improvviso togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con un’aria leggermente impaurita
e i capelli un po’ spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno o da una corsa.”

 

Patrizia Cavalli, da “Il cielo”, 1992

*****
“Rispetto ai soldi sono sempre stata fortunata: pura fortuna senza fatica. Poi mi sono venuti gli scrupoli e non ho più fatto una lira. Bisogna avere l’innocenza del delinquere per guadagnare. E sono stata per cinque anni mantenuta da una fondazione americana di una mia amica, simpaticissima e molto stravagante. Dovevo scrivere qualche riga di progetto e mi arrivavano quarantamila dollari, cinquantamila dollari, trentamila dollari. Poi sono diventata giocatrice di poker, e lì è cominciata la rovina. Poker scoperto. All’inizio vincevo, ero fortunatissima, massacravo tutti i pittori di San Lorenzo, avevano il terrore di me, poi mi sono un po’ rovinata e ho smesso. Ecco questa è la mia dimensione economica, tutta affidata alla sorte. Giocavo fino alle sette del mattino, fumavo miliardi di sigarette, mi sono rovinata la salute: se penso alla mia malattia adesso, non è stato uno scherzo.”
*****
Nel cesto della biancheria sporca
“Nel cesto della biancheria sporca
riconosco l’estate,
i pantaloni leggeri le magliette.
Avevo troppa fretta di partire
per potermi fermare a ripulire
le tracce della corsa.
Ma prima bisogna liberarsi
dall’avarizia esatta che ci produce,
che me produce seduta
nell’angolo di un bar
ad aspettare con passione impiegatizia
il momento preciso nel quale
il focarello azzurro degli occhi
opposti degli occhi acclimatati
al rischio, calcolata la traiettoria,
pretenderà un rossore
dal mio viso. E un rossore otterrà.”
Patrizia Cavalli, da “La maestà barbarica”, in “Datura”, 2013
*****
“Mi hanno trovato il cancro nel 2015, ma ero malata da prima, e quello che non mi va giù è che c’è un responsabile del mio stato: il mio medico, lo odio. Non si è accorto del cancro, ed è un radiologo. Io ,essendo un’ipocondriaca e fumatrice, facevo le radiografie ogni anno, non ho fatto altro nella mia vita che fare controlli, capisci la beffa? Della mia malattia c’è evidenza già nel 2011, ma lui non aveva guardato le lastre. Se questa cosa fosse stata vista quando doveva essere vista, io non sarei certo in questo stato. Sono anche diventata ordinata, non è normale, no? Cerco di usare questa malattia a mio vantaggio, sto ricopiando tutto quello che ho scritto a mano, anche cose di insignificanza assoluta, quasi come un esercizio di auto dispetto. Mi misuro con le mie goffaggini, le insipienze, con quella che sono, perché quello che ho scritto è anche quello che sono”. 
*****
Se posso perdonare

“Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.

Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.”

 

Patrizia Cavalli, da “Vita meravigliosa”, 2020

 

*****

 

Sono una quality queen, io amo gli oggetti, infatti se penso alla mia morte quasi quasi mi dispiace più per gli oggetti che per le persone. I miei occhi non si poseranno più su quella poltrona dove c’è quella stoffa che ogni volta che la vedo dico ah quanto è bella. Neanche mi manca l’arte, i quadri, ma proprio la bellezza degli oggetti, un vaso lo guardo e dico: come ho fatto a comprare una cosa così bella. L’opus incertum della cucina, composto di pezzi di marmo antico e di ceramiche l’ho fatto io, è il mio capolavoro: l’incontro dell’intenzione e del caso è proprio un paradigma della mia vita anche poetica. Qualcosa che deve incastrarsi con un’altra ma senza prepotenza: devi ascoltare, anche in modo passivo, la forza dell’oggetto in sé.”

 

*****

 

Così schiava. Che roba!

 

«Così schiava. Che roba!
Così barbaramente schiava. E dai!
Così ridicolmente schiava. Ma insomma!
Che cosa sono io?
Meccanica, legata, ubbidiente,
in schiavitù biologica e credente. Basta,
scivolo nel sonno, qui comincia
il mio libero arbitrio, qui tocca a me
decidere che cosa mi accadrà,
come sarò, quali parole dire
nel sogno che mi assegno».

 

Patrizia Cavalli, da “Datura”, 2013

 

*****

 

Le poesie sono spesso una forma di opus incertum, una specie di ascolto duttile, non è semplicemente la volontà a crearle. Le mie poesie sono tutte respiri, a parte i poemetti che sono respiri a lungo termine, respiri che pensano. In un certo senso sì, sono posseduta, mentre scrivo c’è un tempo in cui non penso. Quando avevo le aure, quei grandi mal di testa, quasi preludi a crisi epilettiche, come li descrive Dostoevskij, con un’alterazione della percezione dei sensi, precipitavo in una specie di visionarietà, stando dopo malissimo. Prima una felicità incontenibile, qualcosa che ti alza, dove senti l’universo, i continenti, le stagioni, l’infanzia e all’improvviso BOM, come se ti arrivasse una botta in testa e questa forma estatica si trasforma in dolore, dolore, dolore. Era una concentrazione che mi faceva lievitare, ho fatto quarantacinquemila elettroencefalogrammi, ma forse senza saperlo ero un po’ pazza.”

 

*****

Io scientificamente mi domando

 

“Io scientificamente mi domando
come è stato creato il mio cervello,
cosa ci faccio io con questo sbaglio.
Fingo di avere anima e pensieri
per circolare meglio in mezzo agli altri,
qualche volta mi sembra anche di amare
facce e parole di persone, rare;
esser toccata vorrei poter toccare,
ma scopro sempre che ogni mia emozione
dipende da un vicino temporale.

 

Patrizia Cavalli, da “Poesie”, 1999

 

*****

 

Non ce le ho più, le aure. Sarà un bene o sarà un male? Parafrasando Sandro Penna: il problema della testa prende tutta la mia vita, sarà un bene o sarà un male mi domando ad ogni uscita. Forse non lo ero, perché ho sempre ragionato. Del resto la base fisiologica delle mie poesie è fondamentale. Io non sono mai ispirata da una cosa astratta. Non mi ispira un ragionamento, un pensiero, ma mi ispira una forma di percezione fisica del suono delle parole e della sensazione che accompagna queste parole, come si incarnano. Non nasce mai una mia poesia da un ragionamento, anche se le mie poesie ragionano molto. La nascita viene da un forte stimolo psichico, nervoso, quasi materiale, e da qui si muove la lingua e va fisicamente dove viene condotta. Questa è l’ispirazione. Non tutti hanno la stessa scaturigine, io ho questa e non è astratta: è fisica, ci sono le persone, l’amore, l’odio, il disprezzo, il gioco, casa mia. Poi grazie alla lingua l’ispirazione prende un corpo, un’evidenza. Le parole per me sono tutte belle, tutte. Se riescono ad esistere, e a vibrare, la lingua è una cosa meravigliosa, un miracolo dell’umano, è tutto bellissimo se riesce a stare nel punto in cui la parola si dispone in un corpo evidente, necessario e sorprendente. Non ci sono parole brutte e non esistono sinonimi. La parola è quella. E’ un’idea ridicola che esistano i sinonimi. Le parole possono solo assomigliarsi parzialmente. Ogni parola ha la sua proprietà, quando hai detto la parola che è proprio quella tu lo sai, lo senti. Far sembrare come se tutto dovesse essere così e che per la prima volta che uno ha aperto bocca è uscito questo fiato. A volte è proprio così ed è come se ci fosse una grazia che proprio te lo regala. Altre volte no. Ma è il risultato che conta. Senti com’è bello questo distico:   

Penso che forse a forza di pensarti
Potrò dimenticarti amore mio.   

Senti che può fare la poesia: va verso l’aria. Che cosa c’è di più bello delle parole, della lingua? E’ proprio l’amore che mi muove, e magari non è la verità intesa in un senso letterale, ma c’è sempre una forma estatica di adorazione, di disprezzo o di odio. L’amore spirituale non so che cosa sia, mi dura mezza giornata. O sono affected, impressionata, oppure non so cosa sia l’amore”.

Addosso a te incerata e mi perturbo
Del tuo imperturbabile restare,
dissipo ogni sostanza materiale
da non aver più nulla da turbare.

*****

 

Essere testimoni di se stessi

 

“Esseri testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male.

Patrizia Cavalli, da “Poesie”, 1999

 

*****

 

“Per amore ho avuto momenti terribili: all’improvviso cominciava questa sofferenza allucinante, stavo per ore a fissare la parete. Non mi succede più, questa cosa si è interrotta, ma io sono diventata meno intelligente, più opaca, adesso ho la sensazione di non essere niente, perché non sento più quello che sentivo. Non so se sono queste cure, ma ho addirittura la sensazione di aver cambiato carattere”.

 

“Come morta, meno che morta,
più che morta. Vivente
a due passi, scomparsa
ai miei occhi. Dio degli incontri,
ritornami amico!”

 

******

Se posso perdonare

 

“Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.”
Patrizia Cavalli, da “Vita meravigliosa”, 2020
*****

I brani in corsivo sono tratti da “Le mie poesie sono respiri e io respiro per trovare le parole. Patrizia Cavalli si racconta”, di Annalena Benini, in “il Foglio”, 21 agosto 2017

Lascia un commento