Affabulazioni

Quando mi chiamavano “negretta”

25.06.2022

Eroi pronti a morire per il nostro paese

Quando i miei concittadini mi dicono «perché non te ne torni a casa tua?», è evidente che non gli sia mai passato per la mente che mi trovi esattamente nell’unico paese che abbia mai conosciuto: l’Italia. Il posto in cui sono nata e cresciuta. Il posto da cui ho fatto ingresso in questo mondo e in cui intendo vivere ognuno dei miei giorni fino alla fine. Non c’è altro posto sulla terra in cui vorrei essere. L’Italia è casa mia.

Quando testimonio le dure prove che i molti immigrati affrontano per raggiungere le nostre spiagge, sospesi tra la vita e la morte, credo fortemente che invece di ricevere una punizione dovrebbe essere garantita loro la cittadinanza. Non sono criminali, ma individui così attaccati al nostro paese da aver rischiato la vita per la benché minima possibilità di viverci. La loro devozione è radicata così a fondo che non può competere con la casualità di un luogo di nascita. Perché sono quegli stessi “stranieri” ad aver scelto questa nazione a ogni costo – a costo della loro stessa esistenza.

C’è forse un test sulla cittadinanza migliore di questo?

Prologo

Mia madre voleva chiamarmi Maria Elena, come la regina d’Austria.

Quando mio padre andò a registrarmi al comune, non riuscì a ricordare con esattezza il nome tanto desiderato dalla Moglie. Lui e gli impiegati optarono quindi per Marilena, riducendo i due nomi a uno solo.

Come se non bastasse, lo staff del comune non accettò di registrare anche il nome rwandese scelto per me da mia madre: Umuhoza, “consolatrice”. Si rifiutarono, sostenendo che quel nome non avrebbe fatto altro che rivestire il bambino di ridicolo, un po’ come se avessero voluto chiamarmi Hitler o Rompiballe.

Più di trent’anni dopo fui io ad andare in città per documentare la nascita di mia figlia. Era passato tanto tempo, eppure il nome rwandese scelto per lei fu rifiutato di nuovo.

 

Fino all’ultima crosta di cacca

 

Il giorno che mamma si decise a trovare un lavoro, aveva il ciclo.

Le strade erano coperte di ghiaccio, ma si avventurò comunque fuori a piedi, con lo stesso straccio a brandelli zuppo di mestruo tra le gambe. Durante il ciclo perdeva sangue a fiotti e i crampi erano così acuti da irrigidirla e farla collassare contro il muro in cerca di sostegno. Ma il dolore fisico poteva sopportarlo. O almeno, ci si era abituata: «Cosa sono le mestruazioni a confronto dei due genocidi che mi hanno sterminato la famiglia?», si ripeteva.

Era l’umiliazione che non reggeva più. Soprattutto lei, una Tutsi, a cui era stato instillato fin dalla nascita che apparenza e orgoglio erano tutto. Cosa avrebbe pensato sua madre adesso, se avesse visto il vestito di sua figlia macchiato di sangue? Così mamma si era fatta coraggio e aveva supplicato mio padre per la centesima volta, perché le prestasse due spiccioli per gli assorbenti. Ma lui rifiutò. La chiesa non l’aveva certo preparato ad affrontare i bisogni di una donna. Che si trattasse di ventimila lire per l’unico vestito nuovo comprato in un anno o di mille lire per la pasta e il sugo, la reazione di papà era sempre la stessa: scherno. E così, in preda alla disperazione, mia madre si era messa a pulire case. Avrebbe grattato fino all’ultima crosta di cacca dal water e si sarebbe prostrata a terra per sfregare il pavimento di estranei razzisti. Era determinata a impedire che sua figlia subisse la stessa umiliazione, il giorno che avesse sanguinato per la prima volta.

Papà non aveva soldi per gli assorbenti di mamma eppure, chissà come, ne trovava sempre per il suo formaggio. E non uno solo, ma una varietà infinita dei suoi prediletti: taleggio, mascarpone, parmigiano, gorgonzola e lo stracchino bergamasco più delicato.

«La bóca l’è mia straca se la sènt mia de aca», era il suo motto.

Italiana al 100%

«E da quando i negri votano?».

Mamma ammutolì.

L’impiegato del comune scambiò un sorriso d’intesa coi colleghi e le riposò gli occhi addosso. Stavolta corrugando la fronte, il sorrisetto svanito.

«Fila via, per piacere. Qui siamo a Bergamo, non nella giungla a raccogliere banane».

«Non ha capito, io sono cittadina italiana. Mio marito è…».

Ma non aveva fatto in tempo a finire la frase. I due uomini le avevano afferrato le braccia trascinandola fuori con forza, nonostante lei non opponesse la minima resistenza.

Il giorno dopo, chiese di vedere il sindaco in persona. Come indicatole, attese su una panca del corridoio fino all’ora di chiusura, quando le fu riferito che il sindaco non aveva certo tempo da perdere per questioni del genere.

Dentro, mia madre si sentiva italiana al 100%, checché ne dicesse la gente.

Da bambina sognava di avere un figlio métisse, mulatto. Sapeva che avrebbe sposato un bianco. Per questo aveva puntato tutto sull’Europa, “la madre patria”. Per la sua prole aspirava al meglio: a una casa migliore, a un sistema sanitario migliore, a un’educazione e a una carriera migliori.

Aveva avuto la fortuna di acquisire la cittadinanza italiana all’atto del matrimonio, pochi mesi prima che la legge cambiasse, terminando di garantire quel diritto agli stranieri. Aveva incorniciato e appeso il suo passaggio preferito della Costituzione italiana: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

In quegli anni trascorsi in Italia, aveva tollerato tutto: era stata picchiata, le era stato dato della negra, si vestiva con gli stracci della Caritas e le erano cadute le sue belle unghie curate a causa di un gelo che non aveva mai conosciuto. In più, aveva perso il suo status sociale, precipitando a sguattera di periferia. Ma c’era una cosa che non avrebbe tollerato: un errore di quella stessa legge.

Così si procurò un avvocato e trascinò tutti in tribunale.

Alle seguenti elezioni politiche si ripresentò in Comune, faccia a faccia con gli stessi impiegati che l’avevano cacciata. Fece per esibire la carta d’identità, ma l’uomo la bloccò all’istante.

«Lasci stare, signora Chantal. Sappiamo tutti chi è lei. Buongiorno. Prego, si accomodi pure li, alla sua destra. Grazie».

Quel giorno, mamma votò perché l’amministrazione comunale restasse invariata. Se solo il sindaco avesse saputo che una delle sue più ferventi sostenitrici era proprio quella “negra” che aveva scacciato dal suo comune… lei, che era leghista fino al midollo!

Galeotto fu il poster di Bossi

24 dicembre 1999.

La tormenta di neve aveva seppellito la scuola e le strade erano inagibili nonostante i quintali di sale versati giornalmente dagli spazzini. I cittadini erano bloccati in casa, abbandonati davanti alla Tv per seguire il meteo e le ultime notizie sul famigerato Istituto Benedetto, occupato da oltre tre settimane.

«Bella merda, è questo il tuo fantastico cenone della vigilia? Se penso che mamma stasera sta preparando le sue famose lasagne e la crema per il ripieno del panettone, svengo».

Le patatine stantie e l’unico Bacio Perugina erano il fondo delle nostre provviste. Renzo lo sapeva bene, ma si aspettava che fossi Gesù Cristo e moltiplicassi quella roba per tre.

Tre era il numero perfetto, quello dei superstiti. I primi cento avevano disertato lentamente, chi in silenzio, chi bestemmiando. Gli ultimi trenta erano spariti insieme, allo scoccare delle vacanze natalizie. Eravamo noi gli inossidabili, l’ultimo baluardo contro l’ingiusta riforma che stava minacciando tutti gli studenti d’Italia. I tre eletti, quelli che non avevano rinunciato alla causa. Poco importava che un vecchio albero, caduto sotto il peso della neve, ci avesse in realtà ostruito ogni via d’uscita.

«Jingle bells, jingle bells, jingle all the way. Oh, what fun it is to ride in a one horse open sleigh! Jingle…».

«Chiudi quella boccaccia!».

«Ehi, lascia in pace Tarocco!».

«Mari ha ragione, che ti ho fatto di male?»

«È la tua faccia a farmi male: se trovo quel dannato rossetto nero te lo ficco su per il…».

«BASTA!», gridai.

Quando passi 22 giorni a ridere, piangere e mangiare con la stessa gente, è inevitabile che nasca qualche inciucio. Come quello tra me e Renzo. Galeotto fu il poster di Bossi, magicamente apparso sul muro della palestra. Io e Tarocco lo tirammo giù subito, ma il mattino dopo era riapparso come se nulla fosse. Così per giorni, finché finalmente scoprii il responsabile leghistoide.

La nostra lotta si fece rapidamente più fisica e le botte si dissolsero altrettanto velocemente in appassionati baci alla francese. Fu così che la negretta, l’immigrata, il target numero uno della Lega, finì col diventare la traditrice peggiore di tutti: a letto col nemico.

Terroristi, prostratevi

Ore 23:58.

Due minuti alla mezzanotte.

Quella del nuovo millennio, il 2000 tanto atteso, riverito e temuto. Che avrebbe scatenato l’ira di Dio nonché la bomba a orologeria del Millennium Bug, praticamente la stessa cosa.

«Mari! Secondo me dovremmo chiamare l’ambulanza».

«Brrr. Che freddo. Lasciami in pace Tarocco, non vedi che sto dormendo?»

«Io gliel’avevo detto di non esagerare con quella roba. Forse è solo…».

I fuochi d’artificio e un boato di grida e applausi coprirono le parole di Tarocco. Fu allora, sul tetto della scuola, tra le luci artificiali dei festeggiamenti, che notai la faccia di Renzo: viola e immobile.

«Buon anno, tossica!».

Tarocco stappò il Dom Pérignon sottratto all’ufficio del preside, ingoiandone la schiuma direttamente dal bottiglione. Non contento della mia indifferenza, mi schizzò lo champagne su viso e capelli, inzuppandomi il corpo scarno, risultato di settimane senza cibo vero.

Ripensai a tutte le volte che avevo sognato a occhi aperti quel preciso istante, il volgere del nuovo millennio. Ma in nessuna delle mie fantasie finivo conciata così: sporca, affamata, e odiata da familiari, amici, insegnanti e da tutta Bergamo, se non dall’Italia intera. E di certo, il primo minuto del nuovo millennio, non me lo immaginavo li: a scuola, l’ultimo posto prima dell’inferno.

«Dio che fame. Se continua così vi mangio tutti e due…».

Tarocco era ancora più smunto di me, il rossetto svanito, rimpiazzato da un’insana tinta verde. Per ammazzare il tempo, aveva scelto i suoi amati tarocchi. Li consultava a ogni ora, leggendo i nostri destini fino alla nausea, ma senza mai azzeccare un bel niente.

Poi accadde. Un elicottero discese su di noi. La forza delle sue eliche ci forzò a prostrarci per non esser spazzati giù dal tetto.

«Mani in alto, siete in arresto!», tuonò una voce dal megafono.

Spesi la prima notte del 2000 in cella con Tarocco, mentre Renzo era al pronto soccorso, sospeso tra la vita e la morte.

Il giorno dopo, i giornali locali titolavano: «Catturati gli immigrati che avevano occupato l’Istituto Benedetto – L’ombra del terrorismo dietro l’ondata di occupazioni».

Gente come voi

Era stata un’idea mia quella di suonare il campanello.

Dopo un po’ una signora anziana col grembiule macchiato di sugo si avvicinò cautamente al cancello e lo aprì. Ma trasalì non appena mi vide.

«L’è la mi s-cèta», disse mio padre.

«Va bene», rispose rassicurata la signora. «Entrate… se proprio».

Entrammo nell’aia della fattoria: pollaio e stalle sulla sinistra, capannone e trattore sulla destra.

«Tale e quale alla cascina dove sono cresciuto», disse papà.

La signora c’invitò nella sua casa rustica con le travi di legno a vista e ci offrì pane, salame e vino fatto in casa.

«Ora ditemi, come posso aiutarvi?».

«Abbiamo visto l’annuncio sul portone».

«Quale annuncio?»

«Quello della casa in vendita».

«No, avete capito male. Qui non vendiamo niente. Non a gente come voi».

Due giorni allo sfratto e ancora non avevamo trovato casa.

Zig zag

Eravamo entrate di nascosto. Dovetti dare una spinta a Latte prima di scavalcare il recinto, perché proprio non ce la faceva a tirar su il sederone. Lei mi afferrò per il polso e mi trascinò lì, allo stesso modo in cui mi trascinava sempre in un posto.

Il parco di Albano era un deserto, ma quella sera aveva un non so che di misterioso. Regnava un silenzio assoluto, interrotto solo dalle grida ovattate provenienti dai balconi vicini.

«Devo tornare a casa a studiare per l’esame di domani».

«Dai, siediti un momento. Un secondo solo».

Latte prese posto su una delle altalene e io, dopo un attimo di esitazione, sull’altra.

Cominciammo a incrociarci fuori sincronia, come facevamo da bambine.

Il sole calò e tramontò dietro il santuario del colle San Giorgio, dipingendolo d’arancione e bluastro.

«Voglio ricordarmi questo momento per sempre, Caffè».

Senza guardare, Latte agganciò il mio mignolo e lo tenne stretto, finché non cominciammo a dondolarci con la stessa profondità e allo stesso ritmo.

«Promettimi una cosa: qualunque cosa accada, noi resteremo sempre migliori amiche».

«Promesso».

Poi chiusi gli occhi, cullata dal movimento e dalle cicale che riempivano gli alberi tutt’intorno.

Quando li riaprii, era buio pesto. L’altalena di Latte continuava a dondolare debolmente, a zig zag.

Lei, però, era sparita.

Marilena Umuhoza Delli e Ian Brennan, da “Negretta. Baci razzisti”, 2020

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