“Fa diesis, do diesis, si maggiore per due crome intervallate da un respiro.
È il suono di un primo ricordo.
Avevo suppergiù tre anni, correvo verso il campo per raggiungere le schiene dei miei nonni. Alle spalle il bosco spettinato e io scalza, verde d’erba.
Mi salutava sempre così, Granpapà, con quelle quattro note appese al portacote, strette alle gengive della morsa, o inzuppate con i grissini nel latte.
È sufficiente ripetere in testa un “uou, uou, ma fillho” per riportare al naso l’odore del gilet da lavoro e alla vista il suo profilo, sotto la berretta di fustagno impregnata di polvere ferrosa.
Mio nonno è morto con i polmoni stagnati di minio e smeriglio.
L’ultimo saluto tra noi è stato un bacio; tenevo il pitale vuoto in mano, lui guardava la scodella e tendeva il braccio verso il mio viso. Aveva le stesse quattro note, quel gesto. L’ho intuito.
Non si sottovaluti mai l’impronta che lascia un ultimo bacio.
È stato quell’addio la chiave armonica della mia partitura memoriale: un incessante incompiuto di cadenze, odori e suoni che andavo a frugare in ogni casa mi aprisse la porta, dove potevo interrogare storie fino a riconoscerle intime e insostituibili. Personali e corali.
Ad ogni viso, per associazione appaiavo i sensi, e ora arpeggiano dettagliati in quelli, ognuno con la propria strofa. Sono piccole cose che fan letteratura.
Zucchero, naftalina e porri: Dand’Anà. Posso rivederla attraverso quelle chiavi, tornare con una piccola fascina.
Porcino nero, velluto a coste, latte cagliato: Bar Louì, uno dei miei nonni.
Tabacco francese alla vaniglia, muffa, verde cobalto: Beber, il villeggiante che apriva le persiane in giugno.
A guardarlo così, il mio piccolo spicchio di montagna, non ha davvero modo di venire a noia.
Memoria e cura sono sorelle. Entrambe figlie di una radice antica, che significa “avere a che fare”, osservare, dedicarsi.
La cura è, nella mia lingua, riassunta con il verbo Gardâ, e significa mantenere.
Anzi, “manutenere”, perché è con le mani che si esprime, e con la musicalità, come volesse dirigere le parole in immagini e levigare, artigiana, anche il minimo spigolo stonato.
Memoria è coro, riunisce le generazioni di passi. Allo stesso tempo è gentilezza, perché attraverso il suo spioncino, possiamo intravedere la speranza di nuove voci, oggi nemmeno abbozzate.
Per queste pietre e questi larici, che guardano il nostro poco tempo dall’alto di una longevità che spesso non sappiamo contare, le nostre vite sono catasto e anagrafe. Ci sono creature che potrebbero insegnare tutte le storie che mancano, gli spazi vuoti alla partitura, ai quali la musica degli uomini si appoggia per trovare il tempo. Possiamo comunque sentire attraverso le loro pelli, una vibrazione amica e risonante.
Sovente accarezzo il vecchio melo, pensando a quante mani siano sovrapposte alle mie in quel medesimo gesto. Erano mani precedenti, ma dichiaravano un sentire comune. Non siamo così distanti dalla memoria dell’altro; questo l’ho imparato dai funghi.
Nei boschi che circondano casa, sotto le abetaie, nelle radure di mirtilli, i funghi si scambiano le informazioni da generazioni, mappando ogni palmo di radici sottili come capelli, per tramandarsi il bosco. Sanno bene i funghi cosa significhi collaborare alla memoria collettiva. Questa loro forma primitiva di intelligenza, è figlia di una ben più acuta e universale: la vita.
Così fanno le megattere con il canto: mappano l’oceano.
Le piccole capocchie scure mi hanno confidato, in anticipo sulle piogge, il loro disegno segreto. Ci è voluta quell’osservazione che fa della curiosità un ricordo e del ricordo un linguaggio, per tradurre un vocabolario comune. A riconoscersi tra le piante, gli animali, i fiori, le nuvole, si educa il tempo a non avere lancette.
La chiamo bellezza improvvisa e rimpolpa l’ossatura del ricordo.
Nel nostro mondo istantaneo, queste relazioni vitali trovano spazi esigui che si estinguono in abbandono. Succede pure ai boschi dei funghi.
Cosa confidiamo all’altro perché possa averne cura? Cosa affidiamo perché possa leggerci in memoria?
Senza gesti, suoni, stupore, le lingue perdono i denti, le parole si assottigliano e la memoria muore di fame.
Il nostro talento sommerso è la risonanza. Lo avverto nitido come l’arsura della terra, che è specchio alla fertilità sensoriale dell’animale uomo.
Non perdere il dono d’essere animali custodi tra le creature del mondo sa già di promessa, di seme.
Il ricordo è simmetrico all’amore e con quello ci guida. La cura è il binario che lo conduce verso gli altri. Così persino le distanze, la morte, il vuoto, hanno forma di impegno da rinnovare per ritrovarsi.
Perciò son care le quattro note, han fatto i due tocchi di bacchetta sul leggio del ricordo, e per la gioia di averle custodite, non le si scorda più.
Fa diesis, do diesis, si maggiore per due crome intervallate da un respiro.”
Valeria Tron (cantautrice della Val Germanasca, vallata piemontese in cui si parla ancora l’occitano), da “L’equilibrio delle lucciole”, 2022
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Foto di Federica Cavallo