Epistolario

Mentre lei sogna

14.07.2022

Signor sindaco,

mi è stato chiesto di scriverle mentre lei sta sognando, e non è facile. I sogni hanno una naturale inclinazione a tacere di talune cose, una forma tutta loro di mistero e un rapporto molto particolare, intimo e inesplicabile, con ciò che può essere vero. Mi tocca avanzare in punta di piedi per non svegliarla, evitando le linee rette; altrimenti il suo sogno si fermerebbe. In un sogno, nulla è insignificante.

Il carcere di Saint Joseph fu costruito a Lione tra il 1829 e il 1830. Sorge di fronte al Rodano, appena prima della confluenza con la Saône. Quarant’anni dopo, un secondo carcere, Saint Paul, è stato edificato accanto a quello di Saint Joseph. La costruzione, di forma esagonale, concepita secondo i nuovi procedimenti edilizi, con largo uso di metallo, era destinata ad essere un carcere femminile; in luogo delle celle, era dotata di quattro dormitori. Oggi questi due edifici, collegati da un tunnel sotterraneo, costituiscono la principale casa di detenzione; le celle hanno ripreso il posto dei dormitori. Chi conosce questo complesso carcerario lo chiama «la marmitta del diavolo».

La maggior parte delle teorie o delle idee sulle carceri hanno buone probabilità di essere sbagliate, poiché la pratica è una sfida permanente a tutto ciò che si era previsto. La detenzione, il modo in cui gli spazi si collegano tra loro, gli orari, i codici, l’isolamento o il sovraffollamento – tutto questo sfocia nell’imprevedibile, nei cui confronti alcuni detenuti sono più vulnerabili di altri, ma tutti coloro che si trovano all’interno – compresi i carcerieri e lo stesso direttore – sono talora impotenti.

Le carceri sono concepite e attrezzate per far sì che la sorveglianza sui detenuti – quella elettronica in particolare – possa essere esercitata al massimo livello e in ogni momento. Ciò non toglie che, in pratica, l’incontrollabile è costantemente presente; in nessun’altra istituzione sulla terra l’incontrollabile può esplodere in maniera così improvvisa. Quando raggiungono il limite estremo della disperazione, gli esseri umani trovano la saggezza, oppure sfuggono ad ogni controllo – che si tratti di quello imposto da un sistema o del loro controllo su se stessi. L’incontrollabile e la saggezza sono rinchiusi in una stessa cella, dietro la stessa porta della disperazione assoluta. Accade talvolta che l’incontrollabile penetri nel corpo stesso del carcerato: questo fenomeno «spiega» i frequenti casi di automutilazione. Gli esseri umani arrivano a mutilarsi perché il carcere, con tutto il suo incontrollabile, è già penetrato nei loro corpi. Il niente non ferma niente. La mutilazione non si infligge al sé ma a ciò che lo ha compenetrato, prima ancora di inghiottire un cucchiaio, un bicchiere rotto o un coltello.

[Rue Delandine], ma chi era Delandine? Potrebbe essere stato il soprannome di una donna. La sola cosa certa è che ha dato il nome ad una strada, una breve viuzza che separa le due prigioni. Dopo mezzanotte e nei fine settimana, questa via, di giorno per lo più deserta, è invasa da gente che viene a parlare, a lanciare parole, al di là delle alte muraglie, ai carcerati rinchiusi lì dentro. Alcune grida rimbalzano come un boomerang: “Anch’io ti amo!” e da un’altra finestra: “Levati dai piedi, va’, e lasciami in pace!” I visitatori vanno a Rue Delandine dopo mezzanotte, quando il tumulto della città si placa ed è più facile ascoltare e farsi sentire, ma il lunedì sera spesso non c’è nessuno; il lunedì, il silenzio della via si riempie di qualcosa di totalmente diverso. Continui a sognare, signor sindaco, e lo potrà sentire. Dietro le mura, al di là di un minuscolo cunicolo, a ridosso della seconda serie di mura, a destra e a sinistra, si ha l’impressione di un sonno ammassato; e a fronteggiarlo, quasi toccandolo, la totale indifferenza delle pietre squadrate, delle sbarre in ferro e dei mattoni cementati, in una vicinanza strana, persino più crudele di quella della terra pressata intorno ai cadaveri.

Qual è, secondo lei, signor sindaco, l’edificio che ospita il più gran numero di sogni? La scuola? Il teatro? Il cinema? La biblioteca? L’Hotel Intercontinental? La discoteca? E se fosse il carcere? Innanzitutto, un carcere moderno è fondato su tutto un insieme di sogni: il sogno della giustizia civica, il sogno della riforma, il sogno della polis della virtù civica. E poi ci sono i sogni sognati adesso, notte per notte, che certo comprendono anche gli incubi e il terrore dell’insonnia. In talune circostanze, l’insonne può, come il sognatore, perdere ogni senso fisico del tempo e del luogo; all’interno delle mura, al di là degli stretti cunicoli, c’è il grande sogno permanente dell’evasione; e tra i secondini, l’incubo permanente della rivolta di un prigioniero. E, in più, c’è l’infinita successione dei sogni più esili: il sogno del mare – il Rodano è appena al di là di un giardino, e i piccioni che sporcano le inferriate sorvolano il fiume; il sogno di prendere il tgv per Parigi: ne parte uno ogni ora, e la linea passa ancora più vicino del Rodano. Sogni di vita privata, di un tempo e di uno spazio privati. Scegliersi una data – ad esempio sabato 6 maggio – in cui si farà qualcosa che si è deciso di fare per proprio conto! Sabato andrò a trovare mio cognato a Bapaume. Sogni di donne. Sogni di porte aperte. Sogni di sabato sera. Sogni furiosi di farla finita. Sogni della fine delle cazzate.

C’è infine il sogno forse più costante, più onnipresente di tutti. A Saint Joseph, nelle celle di isolamento, nel pretorio dove due volte la settimana si assegnano le punizioni per insubordinazione, nelle docce, nel cortile per l’ora d’aria circondato da un’inferriata cosparsa di detriti al posto delle stelle, ci sono esseri umani, accovacciati o seduti davanti alla tv, sulle scale, dentro la gattabuia. Di volta in volta bestemmiano o se ne stanno in silenzio, giorno e notte, anno dopo anno, e all’improvviso si mettono a sognare le loro migliaia di madri: molte sono scomparse o morte, ma proprio per questo trovano istantaneamente la strada attraverso i muri del carcere e, una volta all’interno della casa di detenzione, alcune di queste madri raccontano storie ai loro figli. Moltissime storie. Eccone una, signor sindaco.

C’era una volta un uomo che ogni mattina prendeva un coltello e ritagliava nel pane una fetta lunga 10 centimetri circa, che buttava via prima di tagliarne un’altra per la sua colazione: l’uomo faceva questo perché ogni notte i topi rodevano la mollica del suo pane e ogni mattina lasciavano un buco lungo pressappoco quanto un topo. I gatti della casa, pur grandi cacciatori di talpe, erano stranamente indifferenti ai grigi topi mangiatori di pane – a meno che non si fossero venduti a questi ultimi.

Un pomeriggio, l’uomo va in una rimessa per cercare una lima, non la trova, ma si imbatte in una solida trappola per topi, una specie di gabbia, evidentemente di fabbricazione artigianale: alla base ha una tavoletta di legno di 18 x 9 cm, circondata da un fitto intreccio di filo di ferro; lo spazio tra due fili di ferro paralleli non supera mai i 5 mm, quanto basta per permettere ad un topo di infilare nell’interstizio la punta del naso, ma non le due orecchie. La gabbia è alta 8,5 centimetri, tanto che all’interno un topo può alzarsi sulle sue forti zampette posteriori, aggrapparsi alla parte alta dell’inferriata con le quattro dita di quelle anteriori e spingere il muso tra due fili di ferro – ma senza mai poter fuggire. Il topo penetra nella gabbia per dare un morso ad un pezzo di formaggio appeso ad un gancio; non appena lo tocca, un congegno fa scattare la porta che si chiude con un colpo secco dietro il topo, senza neppure dargli il tempo di voltare la testa. Passano varie ore prima che il topo si renda conto di essere imprigionato, indenne, in una gabbia di 18 x 9 cm; quando ne prende coscienza, qualcosa in lui incomincia a tremare senza posa.

L’uomo appende al gancio un pezzo di formaggio e sistema la trappola sul ripiano della credenza in cui tiene il pane; l’indomani, trova nella gabbia un topo grigio, con due occhi scurissimi che lo fissano senza neppure un batter di ciglia. L’uomo posa la gabbia sul tavolo della cucina; più guarda dentro la gabbia, e più il topo seduto lì dentro gli appare simile ad un canguro. Cala il silenzio. Il topo si calma un po’, ma poi ricomincia a girare su se stesso nella gabbia, tastando incessantemente con le dita delle zampine anteriori lo spazio tra i fili di ferro: alla ricerca di un’anomalia, tenta di morderli. Poi si accoscia, le zampette anteriori davanti alla bocca. Capita raramente di guardare un topo così a lungo come fa l’uomo. E viceversa.

Le voci provenienti da Rue Delandine interrompono la storia.

Di’ ad Alex di mandare i soldi.Gliel’ho detto. –  Digli che se non lo fa, si sentirà la puzza di bruciato.Non ho capito. – Si sentirà la puzza di bruciato. –

L’uomo porta la gabbia in un campo, fuori dal villaggio; la depone sull’erba e apre lo sportello. Passa un minuto buono prima che il topo si renda conto che la quarta parete è scomparsa: col musetto verifica lo spazio libero, poi si precipita a tutta velocità e va a nascondersi dentro il primo ciuffo d’erba.

-“Ti aspetterò, Jacko. Ti amo Jacko. Il tempo non conta, Jacko, Io ti aspetto” -.

L’indomani l’uomo trova un altro topo nella gabbia: è più grosso del primo, ma più agitato, forse è anche più vecchio. L’uomo depone la gabbia per terra e si siede lì accanto per osservare: il topo si arrampica sui fili di ferro in alto e si mantiene sospeso con la testa all’ingiù.

-“Perdonami, Toni, mi senti? Perdonami! -“

Quando, giunto nel campo, l’uomo apre lo sportello, il vecchio topo scappa procedendo a zig-zag prima di scomparire. Un mattino, l’uomo trova nella gabbia due topi. difficile dire se hanno coscienza l’uno della presenza dell’altro e indovinare se questa presenza attenui o accresca la loro paura. I topi hanno una somiglianza con i canguri per via della forza relativamente enorme delle zampe posteriori e del modo in cui puntano a terra la loro robusta coda per darsi lo slancio quando saltano.

“Lenuta, mi senti? Jo-jo non è più all’ospedale. Ti manda tantissimi baci. Digli che il nostro accordo per Varsavia è sempre valido.”- 

Nel campo, quando l’uomo solleva la quarta parete della gabbia, i due topi non esitano: se ne scappano subito, fianco a fianco, ma poi si allontanano in direzioni opposte, l’uno verso est, l’altro verso ovest.

-“Mi senti, Gilles? Gilles, dimmi che mi senti. Gilles, oggi ti ho mandato un pacco con tutta la roba da mangiare che hai chiesto.” –

Nella credenza, il pane non è stato quasi toccato. Quando l’uomo solleva la gabbia, il topo ha la solita reazione di panico, ma si sposta più pesantemente. L’uomo esce dalla cucina per andare a ritirare la posta e per scambiare due parole col postino; quando torna, ci sono nella gabbia nove topolini appena nati, rosei, perfettamente formati; ciascuno di loro è grande quanto due chicchi di riso lunghi.

Dieci giorni dopo, l’uomo si chiede se qualcuno dei topi liberati nel campo non potrebbe tornare in casa sua. A pensarci bene, gli sembra poco probabile: li ha osservati tutti con tanta attenzione da convincersi che se uno di loro tornasse, lo riconoscerebbe immediatamente, indipendentemente dal sesso.

-“Harry! sono io! non sono potuta venire mercoledì. Harry, stasera ci sono! Harry mi ha detto di dirti se venivi, è stato trasferito all’ospedale. Non ci voleva andare. Ce l’hanno portato, all’ospedale, gli hanno bloccato le gambe e ce l’hanno portato.”- 

Nella gabbia, il topo tiene la testa china, come se portasse un berretto; ha le zampe posteriori raccolte lungo il corpo, allungate a terra, tanto che gli arrivano quasi alle orecchie; le orecchie sono ritte e la coda è tutta distesa dietro di lui, puntata con forza contro il pavimento della gabbia. Il cuore gli batte violentemente, quando l’uomo solleva la gabbia, ha paura, però non si nasconde dietro la molla: rimane lì senza muovere neppure un muscolo: la testa è in atteggiamento di sfida; guarda senza distogliere gli occhi. Per la prima volta, all’uomo viene in mente un nome: Alfredo. Lo chiamerà così. Posa la gabbia sul tavolo della cucina, accanto alla sua tazzina di caffè.

Più tardi l’uomo va al campo, si inginocchia, depone la gabbia sull’erba e tiene aperto lo sportello, ovvero la quarta parete della cella. Il topo si avvicina al portello aperto, alza la testa e spicca un salto: non si precipita, non si slancia, prende il volo. Tenuto conto delle sue dimensioni, fa un salto più alto e più lungo di quello di un canguro, balza fuori come un topo che recuperi la sua libertà. In tre salti ha già percorso più di cinque metri. L’uomo, sempre in ginocchio, continua a guardare quel topo che ha chiamato Alfredo saltare senza sosta verso il cielo.

-“Ricominceremo, tesoro mio, ripartiremo da zero.”-

La mattina seguente il pane è intatto. L’uomo pensa che il topo nella gabbia potrebbe essere l’ultimo. In ginocchio, nel campo fuori dal villaggio, aspetta tenendo aperto lo sportello. Passa un bel po’ di tempo prima che il topo si renda conto di essere libero; quando finisce per capirlo, si precipita verso il ciuffo d’erba più vicino e più folto e l’uomo si sente un po’ contrariato, prova una stretta al cuore, lieve ma acuta: aveva sperato di poter vedere ancora una volta nella sua vita un carcerato che spicca il volo, un prigioniero che realizza il suo sogno di libertà.

Lei sta ancora sognando, signor sindaco, ne sono certo; se ho ben compreso, la prima fase del suo vasto piano di riassetto del centro di Lione (un piano al quale ha dato il magico nome di «confluenza»), è la demolizione delle carceri di Saint Joseph e di Saint Paul. Cosa mettere al loro posto? Posso darle un suggerimento? L’area occupata dai due stabilimenti carcerari non è molto grande: meno di due ettari. Immagini questo luogo trasformato in un meleto, che potrebbe servire da parco pubblico: per la prima volta nel mondo vi sarebbe un meleto nel cuore di una grande città! E la fioritura primaverile, e i frutti di fine ottobre richiamerebbero alla memoria tutti i sogni sognati qui. Qui, signor sindaco, qui, se posso permettermi di insistere.

Recentemente, signor sindaco, sono andato a trovare il mio amico Zima Lewandowski nei pressi di Zamosc, in Polonia, non lontano dal confine con l’Ucraina: è uno dei maggiori ingegneri forestali del suo paese; ha scoperto un nuovo metodo per determinare l’età degli alberi. Gli ho parlato del nostro progetto – del progetto di cui lei sta sognando; quello di un meleto nel cuore di Lione; e gli ho chiesto un consiglio sul tipo di melo più adatto. Mi ha fatto alcune domande sul clima e sulle condizioni atmosferiche della città; poi ha dichiarato: “Gli Spartan! questi sarebbero i meli più adatti al luogo. Producono mele tardive, che si raccolgono in ottobre, e se si conservano bene, durano tutto l’inverno.” Il parco potrebbe chiamarsi «Frutteto Delandine», non le pare, signor sindaco? Quanto alle mele Spartan, sono di un rosso brunastro, un colore simile a quello di un minerale strappato alla terra. Secondo Zima, gli alberi si dovrebbero piantare ogni 6 – 8 metri. Le celle attuali misurano 3 x 3,6 metri.

 

John Berger, “Mentre lei sogna”, Lettera aperta sulle carceri a Raymond Barre, sindaco di Lione, 2000

(Pubblicata per la prima volta su “Le Monde Diplomatique”,  Mentre lei sogna è la lettera che lo scrittore e saggista inglese John Berger inviò al Sindaco di Lione, Raymond Barre, intenzionato ad intraprendere un riassetto del centro della città, che prevedeva lo smantellamento degli edifici carcerari di Saint-Joseph e di Saint Paul.)

*****

Nell’immagine: Illustrazione di Patrizia Bettarelli per il testo di John Berger “Mentre lei sogna”

 

Lascia un commento