“Intorno, gli uomini che gridano: ‘Andate a mettervi il burqa! Sono i vostri ultimi giorni in giro per le strade!“
“Per me il burqa è sempre stato un segno di schiavitù. Sei come un uccellino intrappolato in gabbia: non avrei mai immaginato di indossarlo. Ma adesso, se voglio salvarmi la vita, penso che lo dovrò fare. Non ce l’ho, non so dove acquistarlo, ma molte mie amiche lo stanno cercando. Le donne lo comprano perché è l’unico modo per non essere in pericolo.”
“I guidatori dei mezzi di trasporto pubblico non ci facevano salire per tornare a casa: non volevano prendersi la responsabilità di trasportare una donna”.
“Ora nascondiamo i diplomi, per strada ci urlano di mettere il burqa.”
“Mia sorella ha lasciato la sua scrivania piangendo: ‘Sapevo che sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro”.
“Stamattina le mie sorelle e io abbiamo nascosto le nostre carte di identità, i diplomi e i certificati. È stato devastante. Perché dobbiamo nascondere cose di cui dovremmo essere fiere? Sembra di dover bruciare tutto quello che ho realizzato in 24 anni”.
“Non sono al sicuro perché sono una donna di 22 anni, e so che i Talebani stanno costringendo le famiglie a consegnare le loro figlie e le loro madri per poi darle ai soldati”.
“Siamo nascoste in cantina. Siamo sole. Vi privo portateci via”.
“A nessuno importa di noi. Moriremo lentamente nella storia“
“Un grande corpo morto, un cadavere. Svuotato di vita, sospeso, senza futuro. Questa è adesso Kabul.
A ogni angolo di strada c’è un uomo armato, la barba lunga, i lunghi capelli sporchi, lo sguardo allucinato di chi non ha in sé un briciolo di umanità. Probabilmente imbottito di droga. La concitazione, il rumore, il traffico, la polvere, tutto sparito. Pochi osano affrontare le strade della propria città, nessuna donna. I passi cancellati. Le persone a rischio lasciano le loro case, le sedi delle loro organizzazioni, spariscono, bruciano documenti. Documenti che tengono traccia degli innumerevoli progetti, grandi e piccoli, di un lavoro forte, coraggioso e tenace per i diritti delle donne e degli uomini liberi.”
Fatima
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“I talebani perseguitano le donne perché ne hanno paura, hanno paura di perdere i loro privilegi, il loro mondo povero, di essere travolti dalla loro forza. Non riescono a guardarle vivere. (…) La tragedia è che gli ospedali non funzionano, i medici sono fuggiti, il sistema è collassato, per cui le vittime restano senza cure, non ci sono attrezzature sanitarie. Funziona solo l’ospedale di Emergency. Le uccisioni degli ex collaboratori del precedente governo, civili e militari, non si sono fermate”.”
Manija, militante di Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane)
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“La vita di molte persone e specialmente quella delle donne attiviste è ad alto rischio. Ma se queste persone vogliono veramente difendere le donne, devono restare accanto a loro in questo momento, e proteggere la loro vita e la loro dignità. Il nostro popolo ha bisogno di noi. Adesso.”
Roshan, direttrice esecutiva di una Ong che si occupa di donne e bambini
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“Noi crediamo che solo un governo democratico e laico possa garantire al popolo afgano la sicurezza, l’indipendenza, l’uguaglianza di genere e la fine delle discriminazioni razziali. Questo è il nostro obiettivo. Per raggiungerlo, l’unico modo è educare il nostro popolo alla libertà, quella vera. Di espressione, di pensiero, di auto-determinazione. Oggi, ovviamente, torniamo a agire dietro le quinte. Lo facevamo già. Oggi, cerchiamo di dare una mano agli sfollati che arrivano a Kabul. Continuiamo e continueremo a insegnare a leggere e a scrivere a bambini e bambine, alle loro mamme. Aiutiamo a creare una coscienza politica afgana, aiutiamo le donne a sentirsi libere di pensare e dire quello in cui credono.”
Nadia, militante di Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane)
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Foto di Carla Dazzi
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“Nel corso di questo anno non c’è stato nessun cambiamento tra i Talebani. Non mi aspetto che questo governo collassi. Probabilmente stanno pensando, su pressione degli americani, di includere nel governo attuale alcuni rappresentanti di quello passato. Era uno degli argomenti della Loja Jirga [termine traducibile come “grande assemblea”, ndr] del mese scorso. Un modo per arrivare al riconoscimento internazionale di questo governo, includendo prima di tutto i “signori della guerra” con tutto il loro carico di delitti e denaro. Un modo per ridare credibilità ai Talebani, caldeggiato dagli Stati Uniti. Un altro passo verso un disastro ancora più irreversibile per il popolo afghano.
Sono tempi molto pesanti, forse più di quello che ci si aspettava. Non solo per la nostra sicurezza e sopravvivenza, ma anche perché è molto difficile coinvolgere le persone, trovare alleati. C’è un tempo per la rivoluzione in cui la gente è chiamata ad agire, a ribellarsi e un tempo in cui le cose sono così difficili che predomina la delusione, l’abbandono, la disperazione e non si vuole più continuare la lotta. Penso che questo momento sia arrivato anche nella nostra storia. Riuscire a vivere, in qualunque modo, è già un successo. Un’attività che esaurisce.
Distribuiamo cibo alle famiglie un progetto indispensabile ma senza futuro perché le cose non potranno che peggiorare. Anche qui dobbiamo sfuggire al controllo talebano. Se ci vedono ci portano via tutto. Quando a fine giugno c’è stato il terremoto nel Sud-Est dell’Afghanistan, abbiamo mandato laggiù un team medico al femminile. La situazione era catastrofica, morti ovunque, macerie e feriti senza assistenza. I Talebani ci hanno fermato e volevano impedirci di lavorare. Sono state proprio le donne, per le quali non era prevista nessuna assistenza, e gli anziani dei villaggi a protestare e richiedere il nostro aiuto. Alla fine hanno vinto loro. È stato un lavoro massacrante ma ce l’abbiamo fatta. Per molte di queste donne era il primo incontro della loro vita con un medico”.
Nelab, militante di Rawa
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“Dovevo uscire a comprare del filo, mi serve per il mio lavoro di sarta. Il primo ordine da molti mesi, devo approfittarne. La stoffa nera mi inghiotte, tutta coperta, un vecchio corvo. Solo gli occhi respirano, vedono, li vedono. Avanzano dal fondo della strada, fermano la macchina, scendono. Sono tre, armati. Puntano dritto su di me. Gridano, non si sa perché. La mia mente corre veloce, è tutto a posto? Sono in regola? Sono coperta come vogliono loro, il cuore accelera. No, i guanti neri non li ho. Ci sono 45 gradi all’ombra. Sudo tanto che li vedo traballare in un’immagine acquatica. Sono sola, per strada. Ecco ho disobbedito. Gridano, mi spingono, sono una schifosa puttana, sì perché sono uscita a comprare del filo, senza un dannato uomo, senza i guanti, mi sento un pupazzo nelle loro mani. Nessuno mi proteggerà, tutti hanno paura. Mi accorgo che sto tremando. Mi malmenano, sempre senza smettere di urlare, mi danno un calcio, cado, se ne vanno garantendomi la loro punizione per la prossima volta. Mi arresteranno e mi frusteranno. Questo il programma. Ma per questa volta è andata bene. Avevano fretta. Mi asciugo il sudore, respiro, mi nascondo, aspettando che la macchina sparisca. Ora, finalmente, posso comprare il mio filo.
Amina, una sarta di 16 anni
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“Qui si soffoca. La vita è diventata così pesante che non riesci nemmeno a respirare. Se i Talebani fossero capaci di portar via l’ossigeno da dentro i nostri polmoni, lo farebbero. Ogni giorno inventano nuovi divieti, così ti tengono sempre sul chi vive, sull’orlo dell’errore, di una punizione possibile”.
Shazia, con quattro figlie femmine
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“Cerco in tutti i modi di essere forte, ma la situazione di adesso è molto stressante, siamo sotto pressione, incerte, spaventate. A volte non riesco nemmeno più a prendermi cura di me stessa in modo appropriato. Devo vendere bolani [focacce di pasta fritta ripiene di verdure, ndr.] per strada, per poter nutrire la mia famiglia. È dura, la gente non ha niente, non ha nemmeno soldi per mangiarsi un bolani. Ma il peggio è che ogni giorno vengo minacciata dai Talebani; mi gridano in faccia con il fucile puntato perché non sto a casa come dovrei. Mi ripetono che sono una prostituta, che sotto la copertura dei bolani cerco clienti. Devo sopportare tutto questo, non mi faccio colpire dalle loro parole e dai loro gesti, non li ascolto. Cambio ogni giorno strada. Ogni giorno cucino di nuovo i bolani che mi hanno rubato. Se dovessi restare chiusa in casa, come vogliono loro, moriremmo tutti di fame”.
Samia, vedova e con una famiglia da mantenere
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“Nonostante i nostri stomaci siano vuoti e i nostri piedi pesanti come il piombo, io in questo orribile momento, non voglio vendere i miei figli come fanno molti. Ho imparato a combattere in questi tempi così duri e a sostenerli. Sono riuscita a iscrivere a scuola i due maggiori e studiano sodo. Questi giorni terribili passeranno, i miei figli diventeranno grandi e io sarò finalmente felice”.
Laila
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“Mi sento circondata da un deserto. Niente lavoro, niente scuola, niente cibo. Non posso immaginare se e quando tutto questo potrà finire o se durerà per molti anni. Quello che mi spaventa è che i Talebani costringano mio padre a vendermi. Lui mi ha sempre protetto e sostenuto e, per questo, per evitare di ritrovarci nella situazione dalla quale eravamo fuggiti, siamo andati in un villaggio in cui nessuno ci conosce. Ma, con i Talebani dappertutto, la storia che ho già vissuto potrebbe ricominciare. Cerco di stare nascosta il più possibile perché loro cercano ragazze da comprare o da rubare. Piccole schiave dei loro poveri capricci. Non sarò una di loro. Cerco di non esistere”.
Noshin, che avrebbe voluto studiare per diventare oculista. La sua famiglia era riuscita a fuggire a Kabul, ma nella capitale non c’è lavoro, per cui è costretta a tornare in campagna, dove il padre si è messo a lavorare la terra.
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“Da quando ci sono i Talebani al potere, la violenza contro donne e bambine ha raggiunto il suo picco. Non esiste più nessuna autorità che possa limitare questa tragedia. I suicidi di donne aumentano ogni mese. Nessuno può dire quanti siano, pochi sono registrati. Donne e bambine hanno invaso le strade per chiedere l’elemosina, che spesso è l’unica risorsa che rimane. Vediamo lunghe file davanti ai panettieri: non aspettano di comprare il pane, non possono. Aspettano che qualcuno, più fortunato di loro, glielo regali, per svoltare un altro giorno. Ragazzi e uomini stanno ore fermi nelle piazze, in attesa di qualche caporale che li assuma per un giorno. Quasi sempre sono delusi”. “
Sarah, che lavora in un’organizzazione umanitaria
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“Insegnanti e studentesse devono portare vestiti e guanti neri, coprire tutto il corpo e il viso, lasciando liberi solo gli occhi. Non possono togliere il loro hijab nemmeno in classe, tutta femminile. A noi insegnanti hanno consegnato tre libri islamici che dobbiamo imparare a memoria. Quando la squadra talebana arriva a controllare, se non rispondiamo correttamente alle domande perdiamo il posto di lavoro. Quando qualche studente ha avuto un buon risultato è severamente vietato applaudire. Dobbiamo solo gridare la parola: Mashallah! Le loro spie sono dovunque, tra gli studenti e tra gli insegnanti, soprattutto donne. Due volte a settimana il team di controllo talebano visita la scuola e sono sempre pronti a trovare qualche cavillo cervellotico che permetta di chiudere le porte alle ragazze”.
Farzana, insegnante di Mazar-e-Sharif, nel Nord del Paese. Una delle poche città dove le aule sono ancora aperte alle ragazze
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“Le scuole segrete per ragazze si moltiplicano, in molte province: Farah, Mazar, Jalalabad, Kabul. Le ragazze sono entusiaste: inglese, scienze, matematica, informatica, materie vietate alle donne. Insegniamo soprattutto questo. Mio fratello è Talebano e se sapesse che frequento la scuola segreta mi picchierebbe a morte. Ci obbliga ad andare alla madrasa la mattina, ma il pomeriggio scappo a ritrovare la mia vita. Invento sempre nuove scuse, parto presto e faccio giri assurdi per non insospettire nessuno”.
Sania
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“Ormai è quasi un anno e la mia vita è stata completamente stravolta. I problemi di sicurezza sono sempre al primo posto, ti ossessionano, ti lasciano addosso un disagio sottile, perfido. Tutti conoscono la mia attività passata. Abbiamo cambiato casa tre volte negli ultimi mesi, ogni volta in quartieri di Kabul diversi e lontani tra loro per cancellare le tracce. Abbiamo perso i contatti con i nostri amici e parenti, con quelle persone che frequentavano spesso la nostra casa. Siamo un pericolo anche per loro e soprattutto per i nostri figli: i miei maggiori, un ragazzo e una ragazza, studiavano all’università e ora non possono più farlo perché i loro compagni e i loro professori sanno bene chi siamo. Sanno che io mi occupavo di diritti delle donne, che avevamo case protette, che mio marito è laico e anti-talebano. Mia figlia più piccola a scuola non può più andarci. Non c’è spazio né luce per guardare il futuro, non ci sono strade. È così per tutti i nostri ragazzi, ma nessuna di noi è disposta a cedere. Anche quando siamo in ufficio dobbiamo stare all’erta. Se dovessero arrivare i Talebani, dobbiamo essere pronte a metterci l’hijab e a separarci dai nostri collaboratori maschi”.
Zinab, assistente sociale e attivista
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Testimonianze tratte dall’articolo di Cristiana Cella, “Resistere, cercando di non esistere. Le voci delle donne afghane raccolte dal Cisda”,