Ogni mattina all’alba questa luce di viole
Suscitando profumi nei giardinetti immobili
Si riversa dai tetti sulle prime automobili
E accende i vetri rotti sparsi fra le aiole;
Sugli alberi gli uccelli che dormivano tranquilli
Si svegliano e si salutano con delicati strilli…
È il momento migliore del mondo materiale
Che rinasce lavato dalla notte spirituale
Dai rami polverosi scende qualche soffio di vento
E il poeta solitario, fisicamente contento
Passeggia per le strade, come Adamo il primo giorno
Guardando attorno al suo nuovo soggiorno
E inserendolo nel suo ragionamento,
Mentre ascolta le voci più o meno profonde
Con cui il mondo a se stesso risponde.
A chi giova il piacere dei sensi? All’intelletto,
Che d’altronde sopporta dolori e infermità
Indipendentemente dalla sua capacità
Di godimento proprio; perché non è perfetto
E sfoggia carne e peli come gli altri animali,
Senza mai liberarsi dagli ingombri carnali,
Senza essere del tutto lieto e neppure del tutto abbietto;
Lui che sognò di volare sul mare senza confine
Con dietro le spalle un paio d’ali turchine…
Forse l’anima è divina, ma non è indispensabile
Quanto il corpo in cui dimora e che è la sua cagione;
Dalla prima infanzia in poi questo corpo è la prigione
Dell’anima che fermenta come una massa malleabile
Per finalmente impietrirsi nelle forme più strane,
Dall’uccello melodico fino alle peggiori iguane;
Ma sempre scomodissima perché non riesce a uscire
Da un corpo inadeguato e sempre meno forte,
Il che provoca disordini difficili da guarire,
Le complicate nevrosi che accelerano la morte.
Nella sua culla maleodorante il bambino allunga la mano
Per prendere qualche oggetto di solito troppo lontano
Che la sua mente nebbiosa considera interessante;
Ed è tutte le persone possibili in quell’istante.
Poi, col tempo, andrà escludendo molte personalità,
Rifiutando o trascurando migliaia di possibilità:
Non sarà prete né artista, né meccanico d’officina,
Non sarà un esploratore né emigrerà in Palestina,
Nemmeno sarà la copia di una persona esistita,
Come ogni essere del mondo dovrà vivere la sua vita.
L’uomo che ha trasformato il lupo in cagnolino,
Che fabbrica lune false e aerei a reazione,
Sarà davvero risultato di una lenta evoluzione?
La distanza che c’è fra lui e il penultimo gradino
È assai più grande di quella fra quest’ultimo e i precedenti,
Oltre al fatto che la sua scala svolta in altra direzione.
Ad ogni modo, all’origine di questi ragionamenti
Sussistono due sofismi che ne invalidano la conclusione:
L’uno, l’errore scientifico d’ordinare gli oggetti
Per poi tirare le somme dall’ordine a cui son soggetti,
E l’altro, l’errore storico d’introdurre immutato
Il punto di vista contemporaneo nel più remoto passato
Trascurando l’influenza di qualche circostanza
Che forse in altre epoche ebbe speciale importanza.
Nonostante i trionfi della scienza applicata
Gli strumenti migliori per osservare l’universo
Sono ancora la penetrante lampada del verso,
La musica, la voce di una gola privilegiata,
Oppure nella penombra delle candele sparse
Il pulpito cosmatesco di diorite incrostata;
Qualsiasi luce indicante dove un pensiero arse,
Semplici torce o splendidi lampadari,
Monasteri carpatici tra i boschi secolari,
Rune d’Islanda con princìpi bruschi,
Falli d’ambra nella foresta, sarcofaghi etruschi.
Alla luce di questi lumi l’uomo si muove più sicuro,
Vede i tramonti, vede le rive del mare,
E pronuncia parole il cui senso oscuro
Gli si comincia alfine a rivelare.
Per l’uomo arrivato a una certa età
L’uso di questi lumi diventa necessità.
Da giovani non ci avevano detto di prepararci a questo,
Che d’altronde non era previsto da nessuna teoria:
Non una sfilata trionfale, nemmeno un convito modesto,
Bensì un funerale di quarta categoria
Davanti a qualche fondale dipinto da dilettanti
Fra i praticabili tremolanti.
Dobbiamo pertanto cercare una scenografia migliore
E nel buio del caos lasciarci illuminare
Dall’anello di bronzo col suo profilo di signore,
Dalla tomba con scene di picnic o di amore,
O l’auriga che fustiga i cavalli del mare
Fra vegliardi che suonano il flauto nostalgicamente;
Qualunque cosa sottratta dal lume della mente
Al tempo rotatorio, allo spazio fluente.
L’idea che ci facciamo dello spazio non differisce
Dall’idea che se ne fa la maggioranza della gente,
Ma è puramente mentale e con la mente sparisce
Per esempio sotto l’azione delle eccitazioni violente.
L’uomo sa muoversi da solo, orientarsi topograficamente
E trovarsi coi suoi simili in luoghi determinati,
Adoperando la ragione e i sensi combinati;
Così traccia labirinti sulla faccia della terra
E sovrappone i suoi passi a quelli dei suoi antenati
Che come lui cercavano femmine, cibo, e talvolta guerra.
La nostra idea del tempo è ineffabile
E quella che ci vien proposta è quasi sempre puerile,
Sia il tempo statico che quello misurabile,
Quello che scorre all’inverso o il semplice tempo civile;
Nessuna di queste ipotesi riesce abbastanza universale,
Se si pensa, per esempio, ad un morto o a un animale;
Poiché la soluzione del problema la si trova in fondo a noi stessi,
Non è facile scendere a questi recessi
In cui il tempo della materia e il tempo della coscienza
Non conservano la stessa corrispondenza;
Infatti non conservano alcuna relazione
Accessibile alla comprensione.
Trenta secoli dopo il viaggio di Odisseo
I turisti percorrono le grotte del Circeo
Senza trovarvi traccia della fattucchiera isterica
Né un relitto assegnabile all’età preomerica.
E non serve spiegare che l’isola non è tale
Bensì un monte isolato sulla costa laziale,
E che, tutto sommato, cercare l’orma della fata
È un modo come un altro di passare la giornata,
Perché il tempo, come un ghiacciaio, trascina senza pietà
I luoghi, e li trasferisce in altre località.
Juan Rodolfo Wilcock (poeta argentino), da “Luoghi comuni”, 1961
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Foto Saderman 1961