“Io sono uno scrittore. Ci ho messo quarantatré anni per pensare e pronunciare questa frase: io sono uno scrittore. Perché ho fatto tanta fatica a pensare e poi a dire ad alta voce una frase così semplice: io sono uno scrittore? Perché, ancora oggi, essa mi fa sorridere, come si sorride a dire apertamente una cosa alla quale, in fondo, non si crede?
Esistono diverse ragioni di questo sorriso.
La prima ragione vado a cercarla molto indietro, nella camera interdetta dell’infanzia. I bambini sono le sole persone grandi che io conosca. I bambini sono gente di viaggio, anime di grandi spostamenti. Quando vengono a questo mondo, non hanno né vestiti, né parole, né denaro, non posseggono nessun altro bene che il bisogno, la fame, le lacrime e il sorriso. Le persone che li accolgono, che danno loro asilo per venti, trent’anni, per tutta la vita, le persone che dicono al bambino: entra, fa come se fossi a casa tua, posa il tuo sorriso in un angolo, ci terrà compagnia, già ci rischiara un po’, queste persone, albergatrici dell’infanzia, noi li chiamiamo genitori.
I bambini rimangono dove la porta si apre. Giocano fuori nel cortile, rientrano alla sera, abitano lì per anni e per anni, con la loro anima inafferrabile, è come se fossero sempre di passaggio. I bambini sono degli stranieri che vivono presso i genitori. Quand’ero bambino, non ho mai voluto essere qualcuno. Pilota, pompiere, lo si vuol essere a sette, otto anni. Ma io sto parlando di un’epoca ancestrale. Parlo dei primi due o tre anni. Il bambino di due o tre anni non vuol fare alcun mestiere. Non sa che cos’è un mestiere. Fondamentalmente, essenzialmente, egli non vuol essere niente, e cioè vuol essere tutto. Vuole stare in cucina, imbrattare di cibo la tovaglia di plastica e, allo stesso tempo, con la stessa intensità, vuole essere nella mosca che danza contro la finestra, nel cielo che scorre di fuori, e nel bosco incantato delle fate, nel bosco di cui i lupi non trovano mai l’ingresso, il bosco dell’amore dal quale il mondo è cacciato, bandito.
Oggi non abbiamo perduto tutto, tutto. Abbiamo perso il gusto e i modi del vivere insieme. Ci fa difetto l’intelligenza. Ci manca il tempo.
Ci abbandona il cuore. Non ci resta che quanto ho detto, e dico malamente, non ci resta che la terra vergine dei continenti dell’infanzia, l’eldorado dell’infanzia ribelle. Finito il comunismo. Finita la fede in un mondo migliore, ed è un bene che sia finita. Il mondo va sempre verso il peggio. Se lo si lascia andare solo, il mondo va verso la distruzione di quanto in noi c’è di gracile e di prezioso. Non si può lasciare la società un secondo senza sorveglianza, che essa prende la strada della stupidità e del crimine – è più forte di lei – la strada che porta a Kolyma, a Sarajevo, a Treblinka e ad altri luoghi, i cui nomi sono nomi Sacri della storia degli uomini.
È finito il comunismo, ma ce ne rimane uno, uno solo, e quello non ci sarà tolto. Abbiamo distrutto quasi tutto. Ma non possiamo distruggere tutto. Ci rimane l’essenziale, il comunismo dell’infanzia, la prova comune a tutti d’essere stati un giorno bambini sulla terra e di esserlo ancora, perché è inesauribile e più forte della stessa morte, un bene che né la morte né l’economia possono insidiare.
Io non ho un mestiere. Scrittore non è un mestiere o forse è un mestiere da bambino, un gioco. Io imbratto la tovaglia d’inchiostro e sono nello stesso momento, e con la stessa intensità, nella mosca che danza contro la finestra, nel cielo che sfuma e nel bosco pieno di luci delle fate, quel bosco di cui i filosofi non riusciranno mai a forzare l’ingresso, il bosco d’amore dal quale il mondo è cacciato, bandito, escluso.
Davanti alla pagina, il tempo in cui scrivo, rinuncio ad essere qualcuno – foss’anche uno scrittore. Perché è davvero troppo poco essere qualcuno. Perché è meno di niente.
Ho quarantatré anni e continuo a voler essere tutto. I quarant’anni dopo i primi tre non sono passati invano. Mi hanno insegnato che non tutto è possibile. Me l’hanno insegnato a mie spese. Ma non perché è impossibile, una cosa la si deve abbandonare. Ho tre anni più quaranta, voglio da sempre ció che so impossibile, scrivo libri, dormo, attendo, consumo l’inchiostro insieme al mio tempo, cammino nel bosco incantato delle fate, non ho più paura dei lupi, so come allontanarli meglio che non il fuoco, conosco delle parole sulla pagina bianca.
Lavorare sulla lingua significa agire sul mondo: se i nazisti, di fronte alle cataste di corpi martirizzati, imponevano ai deportati di non parlare mai di “cadaveri” ma di “marionette”, era perché è più facile bruciare delle marionette che un essere umano.
Noi abbiamo due corpi innestati l’uno sull’altro, il corpo di carne e il corpo del linguaggio. Quando il dolore o la gioia coglie l’uno, l’altro ne avverte il riflusso. Quando la menzogna si impossessa del linguaggio, nella carne spunta la morte. Proprio perché certe parole ci uccidono, altre parole possono resuscitarci.
È anche per questa ragione che non mi considero uno scrittore: credo troppo al potere di resuscitare che ha la scrittura per attardarmi un solo istante nella ricerca estetica.
I libri che amo sono i libri estenuati di prostrazione e di gioia, scritture rese stupide dalla loro intelligenza brutale, libri malati di salute che reinventano ogni volta un nuovo genere di lettore. Manca il termine per definirli. Si può a malapena tentare un elenco: tutto Rilke, tutto Pascal, tutto Dostoevskij. E così via.
Questi libri sono scritti con la parte sommersa dello spirito, là dove lo spirito tocca le acque oscure dell’inconscio, nelle profondità del profondo. Questi libri partecipano dell’idiota e del divino: non si può raggiungere questa luce del profondo senza attraversarne la propria stupidità, con il rischio di riportarne un poco in superficie, come alghe impigliate nelle reti dei pescatori. È un grande rischio o è sforzo di apparire sempre intelligente, uno sforzo sterile e, contemporaneamente, un esempio di stupidità.
Io non cerco mai la scrittura. È la scrittura che viene a me. È qualcosa che esce dal mondo e che mi ferisce. Scrivere è scoprirsi emofiliaco, sanguinare inchiostro alla prima sbucciatura, perdere ciò che si è a vantaggio di ciò che si vede. Si scrive perché si ha una malattia della pelle, perché ci si accorge d’essere venuti al mondo senza pelle e che il più leggero contatto provoca risonanze di sogno e brucia un nervo oscuro.
Il mondo batte il tam tam, sulla carne viva. Non rimane che ricopiare, trasmettere il tam tam su di un tamburo di carta bianca. È questione di musica più che di senso. È una questione di silenzio più che di musica. Il mio vero desiderio non era di scrivere, ma di starmene in silenzio. Sedermi sulla soglia d’una porta e guardare quel che capitava, senza aggiungere nulla al grande brusio del mondo. Questo desiderio è il desiderio di un autistico. Tra il termine “autistico” e il termine “artista” c’è una sola lettera di differenza, niente di più (in francese, rispettivamente “autiste” e “artiste”, ndr).
Mi hanno parlato di un paesino nei pressi di Orléans. Vi sonnecchia una piccola chiesa del dodicesimo secolo. Se la si vuol visitare, bisogna chiedere la chiave ad un giovane disabile mentale che vive in questo paesino a casa dei suoi. Egli vi apre il portone, vi prende per mano e illustra ogni statua, ogni bassorilievo.
Io non ho avuto la fortuna di sperimentare tale visita guidata. Posso solo immaginare lumi sorprendenti che si intrecciano tra il Dio vegetante in un angolo dell’altare maggiore e l’infermo che incespicava nella sua parola. Lo scrittore non è un Dio, e neppure un infermo. Per essere l’uno o l’altro, gli manca la semplicità che non ha e che non può avere. Ma sono sicuro che tutti i grandi libri nascono nel punto in cui scocca la scintilla tra due poli, nella conversazione che si stabilisce tramite noi tra il divino e l’infermo, nell’incontro improvvisamente felice tra lo spirito intorpidito e la carne ferita.
Scrivere è camminare in una piccola chiesa romanica del dodicesimo secolo, nei pressi di Orléans, con la più nobile compagnia che esista ed è vero che il nome dello scrittore, da solo, è rumoroso sulle pietre del pavimento, fin troppo rumoroso. Ma, dopo tutto, che importa: non si tratta che di scrivere. Non si tratta che di giocare. Il rumore dei bambini che giocano ricopre tutti i rumori del mondo.
Scrivo a fine mattinata, nella stanza più ampia dell’appartamento. Scrivere è quando la pagina ha improvvisamente lo spessore d’un cielo basso e si presagisce la neve. Ciò che il cuore racchiude trova la via d’uscita e si precipita di fuori come una massa bianca.
Lo scrivere è il cuore che scoppia in silenzio e poi più nulla, quasi nulla: lettere che compongono parole, parole che si presentano e si saldano in frasi, frasi che sprofondano e si perdono nel mattino d’inverno. Scrivo alla macchina. Non so scrivere a mano nuda. La mano, per la sua vicinanza fisica al foglio, dà alla scrittura una certa ingenuità. La macchina stabilisce quel niente di distanza che è necessaria, il freddo indispensabile per accostarsi al fuoco, per avvolgere il fuoco in un foglio di carta bianca. I giorni in cui non scrivo sono i più numerosi.
Arrivano come dei barbari, si moltiplicano talora fino a raggiungere settimane e mesi. Non mi fanno più paura. Non ho più paura di niente – se non di sottrarmi a quella vita nobile che scorre nella mia vita come scorre in qualunque altra vita, anche la più miserabile, la più deprivata, anzi soprattutto in questa. Non ho mai un piano, nessun metodo. Non ci sono più regole per scrivere di quante ce ne siano per amare. In ambedue i casi bisogna inoltrarsi soli e spogli di consigli, senza la convinzione che esistano convenzioni da rispettare, conoscenze da possedere. Quando io comincio a scrivere, quello che devo scrivere è già tutto presente, e non attende altro che di essere ricopiato. Altrimenti è inutile – non vale la pena di cercarlo, di invocarlo, di volerlo. Nella prima frase c’è già tutto il libro. Non posso dire: qui non c’è ancora niente e, il secondo dopo, arriva il testo. Non posso dirlo come non posso delimitare con precisione il luogo dove cade la pioggia da quello dove non cade. Quando piove, si ha l’impressione che abbia sempre piovuto e che pioverà per sempre. Lo stesso quando fa bel tempo. Così anche davanti alla scrittura, davanti al diluvio della vita bianca.
La scrittura è una zingara che si accampa a casa mia a intervalli irregolari, che parte senza preavvertirmi. È un suo diritto che mi lasci senza alcuna spiegazione, senza discutere le ragioni della partenza, senza pretendere di addolcirla con ragioni che finirebbero per rivelarsi false, è un diritto elementare di coloro che amo. A quelli che amo, io non chiedo nulla. A quelli che amo chiedo solo di sentirsi liberi da me e di non rendermi mai conto di ciò che fanno o di ciò che non fanno, e, naturalmente di non esigere mai una cosa simile da me.
L’amore funziona solo con la libertà. La libertà funziona solo con l’amore.
Io sono come la mia amica scrittura, nomade. Io che non esco quasi mai da questo appartamento, mi muovo moltissimo. Nessuno è più collegato al mondo di me nei giorni in cui la mia porta resta chiusa. Nessuno scrive più di me nelle ore in cui non scrivo niente.”
Christian Bobin, “Il mestiere dello scrittore”, da “Consumazione. Un temporale”, 2006