La finestra è aperta sull’orto, la lampada fa chiaro da sinistra, come consigliano gli oculisti. E sul foglio immacolato la penna va su e giù facile, senza rimorsi; il polso che la incalza, la mente che la governa, paiono alacri, ben disposti. Quand’ecco nel silenzio della mezzanotte una domanda rintocca di colpo nelle orecchie, un’interrogazione povera e febbrile: «Perché?».
Perché si scrive, mi chiedo. Perché ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si dà corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta, s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più immediate insurrezioni dei nostri sensi c’invitano al gioco affettuosamente, divinamente semplice della vita? La vita ch’è innamoramento impulsivo di se stessi, credulo abbandono alle quattro dorate, virginee, felici stagioni.
Scrivere, insinua la voce, non significa solo adulare i minuti con la cosmesi dell’immaginario, ma nutrirli dei nostri escreti mentali, addobbarli viziosamente delle nostre maschere nere. Rappresenta dunque in qualche modo una colpa: forse macchiarsi le mani d’inchiostro è come macchiarsele un poco di sangue, uno scrittore non è mai innocente.
Non solo, ma nell’atto stesso in cui un autore si umilia alla superbia di dire «io», come fa a non sentirsi inerme, spogliato, simile a una recluta nel mattino della visita di leva? Non assume forse ogni sua parola i colori lividi d’una delazione imperfetta? Non trasuda i sudori, le ciprie abiette d’uno spogliarello tentato e mancato? Starsene sul palcoscenico, nell’abbacinante fulmine dei riflettori, non diventa a lungo andare un’intollerabile gogna?
Il silenzio, invece… la perfezione, l’asepsi, l’impunità del silenzio! Poter assistere alla vita dal proprio loggione piuttosto che recitarla; fra tanti che smaniano di arrivare, scegliere di non partire! E poi… dal momento che il pensiero, come le onde avanti a quel cimitero marino, ricomincia senza posa, perché ostinarsi a volerlo pietrificare nei freddi piombi di Gutenberg? Veramente ogni libro stampato è una bara…
Lusinghevole discorso, e converrà ribatterlo punto per punto, anche se metà di me gli dà oscuramente ragione.
Afferma Montherlant che pubblicare un libro è come parlare a tavola in presenza della servitù. Il bello è che, per poterlo affermare, egli deve ricorrere a un libro: tanto è rischiosa e plurima la natura della scrittura. Al punto che perfino chi si affeziona alla segregazione e non sopporta altra aria che non sia quella del carcere; chi si fa obliquo voyeur di se stesso, con uno specchio in mano e uno dietro le spalle; nemmeno costui resiste alla tentazione di raccontare al mondo il suo narciso piacere e le mille soddisfazioni dell’ammutinamento. Dopotutto, nel racconto di Nathaniel Hawthorne, Wakefield, alla fine, ritorna a casa.
Questo vuol dire che si scrive per popolare il deserto; per non essere più soli nella voluttà di essere soli; per distrarsi dalla tentazione del niente o almeno procrastinarla. A somiglianza della giovane principessa delle Mille e una Notte, ognuno parla ogni volta per rinviare l’esecuzione, per corrompere il carnefice.
Morte e scrittura, quindi: ecco una connessione cruciale. Ha ragione Blanchot: si scrive per non morire. In questa vita, s’intende. Non in vista delle comiche immortalità sognate da romantici e classici, alle quali nessuno più crede. Più avanti si va, nei secoli, più la polvere cresce sui gonfi scaffali, nessuno si salverà. Andiamo, è sicuro, verso una civiltà di nuovo orale, fra diecimila anni la biblioteca d’Alessandria sarà stata bruciata innumerevoli volte.
Si dovrà per questo reprimere la ovvia comune volontà di durare? Riconosciamolo, si scrive specialmente per essere ricordati e per ricordare, per vincere dentro di sé l’amnesia, il buco grigio del tempo. Affidarsi alla pagina, come alle bende e ai balsami la mummia d’un faraone, non conosco altro modo che consenta il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere. «Riessere, è questo il problema», ho sussurrato una volta, parodiando umilmente Shakespeare. E so ch’è una fuga in prigione, una vittoria perduta, ma anche l’unica strada, benché precaria e illusa, che ci scampi un istante dalla maledizione di Eraclito.
Si scrive per ricordare, ripeto. Ma si scrive anche per dimenticare, per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica. Può essere una vernice, la scrittura, che ci anodizzi i sentimenti e li protegga dalle salsedini della vita.
Qui un altro nodo emerge: medicina e scrittura. Che può tradursi in modi più spicci: scrittura come analgesico, come palliativo e placebo, quando non si tenga conto del margine di frode pietosa che sempre inerisce a una consolazione del genere.
Ma non si scrive anche per essere felici? Leopardi lo attesta: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo che io abbia passato in vita mia e nel quale mi contenterei di durare finché vivo. Passar le giornate senza accorgermene e parermi le ore cortissime e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta felicità di passione». E sentiamo Pavese: «Quando scrivo qualcosa e do dentro, sono sereno, equilibrato, felice».
Andiamo avanti: si scrive per far testamento. Testamento e testimonianza hanno radice comune, si sa. Scrivere vale dunque a redigere una deposizione a futura memoria, come quelle che si lasciano ai giudici, perché ripetano, dopo la morte, la nostra parola. «Pronunziare ogni parola come se fosse l’ultima» ha detto Canetti, ed è una bella e solenne definizione della scrittura.
Si scrive per giocare, perché no?, la parola è anche un giocattolo, il più serio, il più fatuo, il più caritatevole dei giocattoli adulti.
Si scrive per scongiurare, per evocare. Ho imparato, ragazzo, da un’affabile maga che graffire su un muro quattro nomi di diavoli, Furcu, Rifurcu, Lurcu, Cataturcu, bastava a farli apparire. Una sera ci provai.
E si scrive per battezzare le cose, chi le nomina le possiede. Esiste solo chi ha un nome, l’innominato è nessuno. Nelle teogonie primitive il dio “è” soltanto se ha un nome.
Si scrive per surrogare la vita, per viverne un’altra. L’arte, in quel caso, diventa, se il bisticcio è lecito, un arto, un arto artificiale, la pròtesi d’una vita non vissuta. Forse è così che l’arte è cominciata, quando un cavernicolo in un angolo buio, dove sarebbe occorsa una torcia per scoprire le sue pitture, dipinse uccisa la bestia che bramava di uccidere, esercitando quindi una pratica magica, ma soddisfacendo altresì una tensione, come avviene a chi sogna e chi s’innamora.
Sì, perché si scrive anche per persuadere e amorosamente sedurre. Chi scrive intreccia con chi legge una guerra d’amore, una complicità invidiosa, una clandestina intesa di peccatori; a volte associandosi con lui per delinquere, a volte odiandolo come un rivale.
Si scrive per profetizzare: non accade spesso, ma accade, che su una lavagna cieca, mentre re Baldassarre è alla frutta, una mano intrecci misteriose parole.
Si scrive per rendere verosimile la realtà. Non so degli altri, ma io sono stato sempre colpito dalla inverosimiglianza della vita, m’è parso sempre che da un momento all’altro qualcuno dovesse dirmi: «Basta così, non è vero niente». Allora io penso che si debba scrivere per cercare di crederci, a questo impossibile e riuscito colpo di dadi; che si debba, se l’universo è una metastasi folle, un po’ fingere di mimarla, un po’ cercarvi un ordine che ci inganni e ci salvi. Questo mi pare il compito civico e umanitario dello scrittore: farsi copista e insieme legislatore del caos, guardiano della legge e insieme turbatore della quiete, un ladro del fuoco che porti fra gli uomini il segreto della cenere, un confessore degli infelici, una spia sacra, un dio disceso a morire per tutti. Ciò non vuol dire che scrivere è uguale a pregare?
Tante sono, suppergiù, le ragioni per scrivere. Una di più, ma forse una di meno (non ho contato bene), delle ragioni per tacere.
Gesualdo Bufalino, “Le ragioni dello scrivere”, da “Cere perse”, 1985
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Immagine in evidenza: Haynes King, “The love letter”, 1878