“Pensa a qualcosa di estremamente bello”. Ti guarda, ti carezza la fronte, ti scruta dal suo metro e 90 di altezza.
“Niente di sconcio, sono un gentiluomo”.
Giovanni Gastel, uno dei nostri più grandi fotografi di moda, fa così. Nel suo studio milanese di via Tortona, con la musica accesa, due assistenti a ruotargli intorno, una libreria piena di ricordi. Impossibile dargli del lei. Poco prima, con la erre arrotondata e la macchina fotografica in mano, spiegava: “Ti renderò un’icona, sarai tu dentro di me e poi di nuovo tu fuori da me. Non sono il tuo specchio, il mio tentativo è di ritrarti per come ti sento io, attraverso le mie gioie, le mie malinconie, i miei dolori. E su questo aveva ragione Barthes, la fotografia è più un’istanza di morte che di vita. Il mio tentativo è quello di restituirti al tuo archetipo”.
Nato a Milano nel 1955, ultimo di sette figli, Gastel è nipote di Luchino Visconti, e fra scrittura, poesia e teatro, negli anni Settanta sceglie la fotografia. Dopo una lunga gavetta, incontra Carla Ghiglieri che lo avvicina al mondo della moda. Collabora per Mondo Uomo, Donna, Vogue, W, Elle, Vanity Fair, Amica, Glamour. Poi le campagne pubblicitarie per Dior, Krizia, Trussardi, Nina Ricci, Tod’s, Versace, Acqua di Parma. Infinite le pubblicazioni, i premi e le mostre, come la personale nel 1997 in Triennale curata da Germano Celant. Nel 2002 riceve l’Oscar per la fotografia nell’ambito della manifestazione La Kore, Oscar della Moda. Lo scorso settembre Electa Mondadori ha pubblicato la sua autobiografia “Un eterno istante”, scritta in un mese a Filicudi.
Sei contento di come sta andando il libro?
Non me l’aspettavo, la prima edizione è andata esaurita. Del resto, ho sempre pensato che avrei scritto nella vita, è stata quella la mia prima passione.
All’inizio del libro però parli del teatro.
Il teatro è stata la mia porta d’ingresso al mondo dell’arte, a dodici anni. Ricordo che mia sorella mi scrisse una letterina seria, dicendomi che la sua compagnia aveva bisogno di un attore. Sono corso dalla mamma, una Visconti, che mi sorprese dicendomi: “Non solo puoi, ma devi farlo”.
E tuo padre com’era?
Mio padre era un industriale della media borghesia, molto incazzato. Quando a diciassette anni decisi di fare il fotografo, mi disse che non mi avrebbe più dato un soldo. Mi regalò un pettine e uno specchio: “Dato che farai le foto per i passaporti, almeno il cliente si darà un’aggiustata”. Poi però ha cominciato a venire lui da me a farsi le foto: “Gu de fa il passaport”, mi diceva al telefono prima di passare. Ma è sempre stato felice, e lo andava a dire ai miei fratelli: “Guadagna un sacco di soldi, Giovanni. Voi, invece, ancora a fare l’università”.
Com’era fare il fotografo negli anni Settanta?
È stata la moda, insieme al tempo, a valorizzare questo mestiere. Quando ho iniziato, a metà degli anni Settanta, il fotografo era un po’ come il ciabattino. Se volevi essere preso sul serio dovevi fare il fotografo ambulante: quello in piazza Duomo con i piccioni, per intenderci.
E perché tu hai iniziato?
Perché avevo una fidanzata che mi tormentava. Volevo scrivere, ma lei si annoiava. Effettivamente, le mie poesie erano spesso drammatiche, e lei si divertiva molto di più a stare tra i fotografi.
E ti sei mai pentito di non aver fatto il poeta?
La storia della poesia italiana dimostra che nessun poeta ha potuto vivere di poesia, nemmeno Montale, che faceva il critico musicale al Corriere della Sera. La poesia non la legge nessuno.
Non sono d’accordo.
Cinquecento copie vendute sono considerate un successo editoriale, su sessanta milioni di abitanti. Anche io continuo a pubblicare, ma chi legge le mie poesie? Ce le leggiamo fra noi. Se dico “Vi leggo una poesia”, scappano tutti.
Ma la poesia è intima, non va letta agli altri.
La scuola ha fatto sì che tutti oggi odino la poesia.
Forse il nostro declino è colpa della mancanza di poesia, non trovi?
Di sicuro. Paradossalmente, la poesia, come struttura, sarebbe anche molto adatta al mondo di oggi. Perché è breve, sintetica, perfetta per un’epoca in cui nessuno ha più tempo di leggere. Ma io sapevo che per vivere di poesia avrei dovuto fare un altro lavoro.
Il fotografo?
Non fraintendermi, per me la fotografia è un amore furibondo. Non riesco a vivere se non faccio una fotografia. Anche ieri notte sono venuto in studio e ne ho fatta una, non avevo scelta. Se faccio fotografie sto bene, se non le faccio sto male. È uno stato di necessità. Se non le faccio entro in conflitto con me stesso.
Lo dici come se fosse un istinto sessuale, una necessità erotica.
Se non c’è seduzione, non c’è fotografia. Devo essere sedotto e sedurre la persona che ritraggo. Per 1/125 di secondo. Tutto si azzera nell’istante del flash. Tutti pensano che l’eterno istante sia la fotografia, e invece è l’esplosione del flash, quell’attimo di bianco assoluto e di totale pulitura. Poi c’è un mondo nuovo. Ho anche imparato a eliminare il senso del tempo.
E come?
Tutto quello che ho fatto non conta più nulla, tutto quello che farò non è detto che lo faccia. Quindi aderisco solo al presente. Adesso sono con te e l’unica realtà sei tu.
Dovrebbe essere scritta sulle magliette, questa frase.
Io sono totalmente tuo, tu però devi essere totalmente mia. Era un suggerimento che da piccolo mi dava sempre mia madre: “Se parli con qualcuno, chiunque lui sia, dedicagli la tua assoluta attenzione. Isolati da tutto e da tutti e, per il tempo che sarai con lui, sii solo suo, altrimenti non parlarci affatto”.
Passando ai tuoi lavori, ho saputo che fotograferai i personaggi e le istituzioni che hanno “fatto” Milano per il progetto editoriale You are Milan. Non solo volti noti, ma anche il fioraio, il barista, il lavavetri, etc.
È un progetto che mi convince, mi piace l’idea di fondo secondo cui senza ognuno di noi, di fatto, non ci sarebbe il mondo. O meglio, questo mondo qui. Da appassionato lettore di teologia mi viene in mente una bellissima riflessione di Pascal sulla nostra condizione di donne e di uomini.
Cosa dice?
Che noi tutti ci affanniamo a capire il senso della vita, il domani. Ma dovremmo invece pensare a un arazzo. Noi siamo dentro quell’arazzo, dispersi nel groviglio senza senso dei nodi. Ma quando saremo dall’altra parte, dopo la morte, allontanandoci, potremo vederne il disegno. Se anche mancasse soltanto un nodo, l’arazzo sarebbe incompiuto.
Credi in Dio?
(Riflette qualche secondo) Sì.
Dio, donna o uomo?
Non saprei, spero che sia donna. La legge dell’amore è più femminile che maschile. Ho un rapporto molto profondo con la religione, ma non ho una fede incrollabile. Oscillo.
Ma la fede non è questo?
In realtà, dovrebbe assomigliare a quella delle vecchiette in chiesa. Spesso mi succede quando sono in chiesa, mi rilasso, sento l’abbraccio. Posso cadere all’indietro, perché so che qualcuno mi tiene. Infatti spesso sbadiglio. Tutti credono che mi stia annoiando, ma non è così. Sono talmente rilassato che sto bene.
Di solito si consigliano i ristoranti, tu quale chiesa consigli a Milano?
San Gottardo, dietro Palazzo Reale. È stata la chiesa storica dei Visconti, prima che quel pazzo di Gian Galeazzo avviasse la costruzione del Duomo. Una chiesa deliziosa.
Che rapporto hai con Milano, che senso ha per te essere un Visconti?
È una città che amo, anche se ho vissuto per dodici anni a Parigi. Milano non è mai riuscita a diventare una capitale europea, ma ora si sta riprendendo.
Cosa ti piace?
Mi è piaciuto molto l’Expo, amo i nuovi quartieri, piazza Gae Aulenti. La città ha ricominciato a progettarsi, si vede proiettata nel futuro.
Tu sei un ottimista?
Sono soprattutto malinconico. Ho sempre pensato di avere in me l’eleganza, come valore morale. È la parola fondante della mia estetica. Eleganza è tante cose: amare le donne, pagare le tasse.
Cioè?
Un vero signore paga le tasse, non pagare le tasse è da pizzicagnoli. Non si nasce più gentiluomini, lo si diventa per come si trattano le persone, le donne, lo Stato. Oltre che all’eleganza, il mio stato d’animo è legato alla malinconia. L’ho scritto in una poesia, mi sento come un naufrago: “Approdato in questa epoca come un naufrago in terra straniera, ho misurato il territorio e ho appreso la lingua dei nativi”. Questa poesia si è concretizza da sola, un po’ come la fotografia.
Diciamo che Giovanni Gastel è un insieme di poesia e fotografia.
Sono entrambe espressione di un bisogno, nascono da uno stato latente di inquietudine. Un po’ come i sogni.
Cosa sogni?
Mi capita spesso di fare sogni complicati di cui non ho memoria. A volte risolvo situazioni e capisco cose importanti. Quando moriremo sarà un po’ come sognare. C’è una nuova teoria della fisica quantistica, disciplina che mi affascina da sempre. Alcuni fisici sono molto vicini a dimostrare che lo stato di coscienza è scollegato dalla materia. Quindi la sopravvivenza dello spirito ha una sorta di ragione scientifica. Esiste un’autogenerazione della coscienza che esula dalla materia, il nostro pensiero si genererà autonomamente all’infinito anche quando la materia non ci sarà più. Questo cambierebbe il destino del pensiero, anche sul piano religioso.
Cosa ci sarà dopo la morte?
Ho l’impressione che sarà tutto più semplice, il mio è un pensiero di natura poetica. Non ce l’ho con questo mondo, ma non mi sento proprio di farne parte. Per questo ho scelto di chiudermi in cantina e ricreare il mondo, a quello là fuori non posso proprio aderire. Come in Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, la storia di un uomo che non riesce ad aderire alla vita. Alla fine si spara, per aderire finalmente alle cose. Drieu La Rochelle, insieme a Céline, è stato dimenticato per la sua vicinanza al nazismo. Ma mio zio Luchino mi diceva sempre una cosa.
Cosa?
Non giudicare mai un artista dalla sua vita, ma dalle sue opere. Sarebbe quasi meglio non sapere nemmeno che faccia abbia un artista.
Che rapporto avevi con tuo zio? Nel libro ne parli e lo ringrazi.
L’ho amato tanto, era un uomo straordinario. Purtroppo in molti oggi vedono Luchino come un triste impiegato, un omosessuale, come von Aschenbach in Morte a Venezia. Mio zio invece era un rivoluzionario, comunista, bellissimo, vincitore, andava al Piper a ballare tutte le sere. Noi siamo gli ultimi sopravvissuti a dire chi era veramente. Lui parlava delle società morenti perché gli interessava la società nascente. Credeva profondamente nella società nascente, non era malinconico. Lo sono molto più io.
E tu credi nelle società nascenti?
Invecchiando, ho capito che la società cui pensavo di appartenere non è mai esistita. Ho pensato esistesse un mondo aristocratico, elegante, ma quando poi l’ho conosciuto ho capito che era popolato di teste di cazzo, come tutti noi. Il mio è proprio un mondo di invenzione.
Com’è il mondo della moda?
È stato il mio mecenate, quando ho iniziato a disegnare il mondo, la moda era perfetta. Ho visto nascere l’idea della comunicazione per la moda quando i pubblicitari la evitavano. Ho partecipato con Flavio Lucchini, da giovanissimo, a tavoli di lavoro in cui si discuteva di tutto questo. Con un gesto rivoluzionario, avevamo deciso di non parlare mai all’acquirente finale. La comunicazione per la moda – parlo di vestiti, non di accessori – crea un mondo di riferimento. In sostanza, dicevamo: “Se vuoi far parte di questo mondo, fatto di ricchezza, eleganza, bellezza, una realtà che di fatto non esiste, devi comprarti quel tipo di mutanda lì”. Geniale, no?
Mi sembra un abbaglio: per essere come un dio, devi vestirti come un dio.
Noi siamo quel mondo lì: feste, ricchezza, eleganza. È un’illusione che serve a vendere. E a me interessava proprio questo nella mia ricerca, perché anch’io creavo un mondo di riferimento fatto di armonia e bellezza. E poi sono stati i miei sponsor per tutta la vita.
C’è un personaggio della moda con cui sei stato particolarmente contento di lavorare?
Da ragazzo Nicola Trussardi, perché puntava al mio stesso mondo. Diceva di voler creare una società intelligente, colta, elegante. Però mi sono divertito tantissimo con tutti, da Versace a Krizia.
Che rapporto avevi con lei?
Stupendo, la mia Kriziuccia. Mi ha scelto nel 1981. Abbiamo fatto un enorme lavoro insieme, in pratica fino a quando ha venduto. Nella sua antologica mi ha dedicato anche una bella descrizione. Parla di un’esperienza caratterizzata da un’affinità quasi medianica.
L’assenza del mondo della moda ai suoi funerali ha fatto scalpore.
Ti spiego com’è andata. Il nostro mondo, quello della moda, è un gioco di società e non va confuso con la vita. È come il Monopoli o il poker, e quando giochi evidentemente vuoi vincere. Però sai che finito il gioco lo metti via. Il fatto che non ci fosse nessuno è dispiaciuto un po’ anche a me. Ma è il Monopoli, se non hai più gli alberghi, non gliene frega più niente a nessuno.
Che tristezza.
È terribile, ma quelli della moda lo sanno che è il Monopoli. E guai a scambiarlo con la vita vera. Il successo genera successo, ma devi sapere che le regole sono queste. Nel Monopoli puoi non contare più niente, anche se nella vita vera conti tantissimo. E per me Krizia era fondamentale nella vita vera.
All’inizio della tua autobiografia, elenchi tutti gli interpreti. Come si fa nelle pièce teatrali. Oltre a Krizia, sono tantissimi i protagonisti della tua vita.
Io sono cresciuto e ho vissuto in un clima di amore generale. Sarà il mio modo di essere, la mia faccia, ma per me sono tutti adorabili, e lo penso davvero.
Così passi per essere un buonista, dimmi qualcosa di cattivo. Su, provaci.
Con me il mondo è stato buonissimo, tutto è andato bene. Perché dovrei? Ho avuto fortuna. Sono nato in una famiglia pazzesca, sono alto un metro e 90, ho avuto tutta la cultura che volevo, posti che per altri sono musei per me erano casa, ho giocato a tennis e sono diventato un campione, sono andato a cavallo. Le donne mi adorano. Ho fatto il fotografo e sono diventato bravissimo. Ho da poco compiuto sessant’anni, ho lo stesso segno zodiacale di Dio. E dovrei anche essere incazzato?
Non è solo fortuna.
La fortuna non basta, devi metterci la vita. Picasso diceva che il genio sono otto ore di lavoro al giorno. Un po’ di fortuna la devi avere, ma poi devi studiare, leggere, impegnarti. Mia moglie Anna dice che per tredici anni non sono mai tornato a casa prima delle due di notte. I sabati e le domeniche non esistevano.
Metà fortuna e metà virtù.
Ho sempre sentito che la fortuna galoppa insieme a me, come diceva Cesare.
Cosa consigli ai giovani fotografi?
Lavorate sulla vostra differenza, il vostro lavoro deve avere qualcosa di voi. Scegliete una parola che vi rappresenti e su quella fondate la vostra estetica. Sulla mia pagina Facebook giovani fotografi mi scrivono: “Sono un modesto fotografo di matrimoni”. Modesto un corno! Recentemente, ho fotografato il matrimonio di Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi.
E poi tu hai iniziato con i matrimoni!
Esistono orrende foto di moda e foto geniali di matrimoni. Non cambia nulla, non c’entra cosa fai, ma come lo fai. Può essere uno spillo, una top model, un matrimonio, un sasso. Io devo sedurre il sasso, e il sasso deve sedurre me.
Quanto costa una tua fotografia?
Diecimila euro, oppure, come spesso faccio con gli amici, te la regalo. Giò (chiama l’assistente). Mi prepari un set?
Francesca Esposito, “Giovanni Gastel: L’eleganza è tante cose”, 2 marzo 2016 – Intervista per Klatmagazine
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Nelle foto, tratte da Klatmagazine:
1. Monica Bellucci, 1999. Foto: © Giovanni Gastel
2. Krizia, campagna 1985. Foto: © Giovanni
3. Krizia, campagna 2006. Foto: © Giovanni Gastel
4. Elisa Sednaoui, 2015. Foto: © Giovanni Gastel
5. Bianca Balti, 2015. Foto: © Giovanni Gastel
6. Donna, prima uscita, marzo 1982. Foto: © Giovanni Gastel
Foto in evidenza: Krizia, campagna 1987. Foto: © Giovanni Gastel, tratta da Klatmagazine