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O mia bella Madonina

17.08.2022
“O mia bella Madonina / che te brillet de lontan / tutta d’òra e piscinina / ti te dòminet Milan. / Sòtta a ti se viv la vita / se sta mai coi man in man.”

[O mia bella Madonnina / che brilla da lontano / tutta d’oro e piccolina / tu domini Milano. / Sotto a te si vive la vita / non si sta mai con le mani in mano].
Giovanni D’Anzi, O mia bela Madunina, 1934
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Dundula l’altalena
“Dundula l’altalena in mess ai câ
i câ, i câ, che enn mai a sè, culurâ
cun i culûr d’i fenester, grîs o trücâ,
cui tênd sbandunâ dal vent. Quj câ
sensa vergogna, sensa lüs de vêr, inscì
luntan d’i alter câ, inscì luntan d’i alter citâ
inscì luntan da tütt che tütt el par istèss.
La dundula lì l’altalena, in mess ai câ,
quj cà che canten i cant de nott d’inverna
e i sò uciâ de veder guarden i cadèn balà
invidiûs, e i sò cavej moss dal vent che passa:
a mò de spirit o de fantasma, le, cul ritmo
de’n respîr sulitari, fiûr de anema grisa,
inscì grisa, de un grîs che lüsiss, altalena,
lì, in mess ai port, sbandunâda de par lè
suta aj fenester, amò a drè a cingulà el vöj
al saûr de rüsen, propri lì, sü la sò lengua
o de sal, si, o de ‘na qualsiasi ferida verta.”
“Dondola l’altalena in mezzo alle case / le case, le case, che non bastano mai, colorate / con i colori delle finestre grigie o truccate / con le tende abbandonate dal vento. Quelle case / senza vergogna, senza alcuna luce di vero, così / lontane dalle altre case, così lontane dalle altre città / così lontane da tutto che tutto sembra lo stesso. / Dondola lì l’altalena, in mezzo alle case, / quelle case che cantano i canti delle notti d’inverno / e i loro occhiali di vetro guardano le sue catene danzare / invidiosi, e i suoi capelli mossi dal vento che passa: / come spirito o fantasma, lei, col ritmo / di un respiro solitario, fiore di anima grigia, / così grigia, di un grigio che luccica, altalena, / lì, in mezzo alle porte, abbandonata a se stessa / sotto le finestre, ancora cigolando il vuoto, / il sapore di ruggine, proprio lì, sulla sua lingua / o di sale, si, o di una qualsiasi ferita aperta.”
Davide Romagnoli, “Dundula l’altalena”, da “El silensi d’i föj druâ” (poesie in dialetto milanese), 2018
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La preghiera

 

“Donna Fabia Fabron de Fabrian
l’eva settada al foeugh sabet passaa
col pader Sigismond ex franzescan,
che intrattant el ghe usava la bontaa
(intrattanta, s’intend, che el ris coseva)
de scoltagh sto discors che la faseva.

Ora mai anche mì don Sigismond
convengo appien nella di lei paura
che sia prossima assai la fin del mond,
chè vedo cose di una tal natura,
d’una natura tal, che non ponn dars
che in un mondo assai prossim a disfars.

Congiur, stupri, rapinn, gent contro gent,
fellonii, uccision de Princip Regg,
violenz, avanii, sovvertiment
de troni e de moral, beffe, motegg
contro il culto, e perfin contro i natal
del primm Cardin dell’ordine social.

Questi, don Sigismond, se non son segni
del complemento della profezia,
non lascian certament d’esser li indegni
frutti dell’attual filosofia;
frutti di cui, pur tropp, ebbi a ingoiar
tutto l’amaro, come or vò a narrar.

Essendo jeri venerdì de marz
fui tratta dalla mia divozion
a Sant Cels, e vi andiedi con quel sfarz
che si adice alla nostra condizion;
il mio copé con l’armi, e i lavorin
tanto al domestich quanto al vetturin.

Tutte le porte e i corridoj davanti
al tempio eren pien cepp d’una faragin
de gent che va, che vien, de mendicanti,
de mercadanti de librett, de immagin,
in guisa che, con tanto furugozz,
agio non v’era a scender dai carrozz.

L’imbarazzo era tal che in quella appunt
ch’ero già quasi con un piede abbass,
me urtoron contro un pret sì sporch, si unt
ch’io, per schivarlo e ritirar el pass,
diedi nel legno un sculaccion si grand
che mi stramazzò in terra di rimand.

Come me rimaness in un frangent
di questa fatta è facil da suppor:
e donna e dama in mezz a tanta gent
nel decor compromessa e nel pudor
è più che cert che se non persi i sens
fu don del ciel che mi guardò propens.

E tanto più che appena sorta in piè
sentii da tutt i band quij mascalzoni
a ciuffolarmì dietro il va-via-vè!
Risa sconce, improperi, atti buffoni,
quasi foss donna a lor egual in rango,
cittadina… merciaja… o simil fango.

Ma, come dissi, quel ciel stess che in cura
m’ebbe mai sempre fino dalla culla,
non lasciò pure in questa congiuntura
de protegerm ad onta del mio nulla,
e nel cuor m’inspirò tanta costanza
quant c’en voleva in simil circostanza.

Fatta maggior de mi, subit impongo
al mio Anselm ch’el tacess, e el me seguiss,
rompo la calca, passo in chiesa, giongo
a’ piedi dell’altar del Crocifiss,
me umilio, me raccolgo, e po a memoria
foo al mio Signor questa giaculatoria:

Mio caro buon Gesù, che per decreto
dell’infallibil vostra volontà
m’avete fatta nascere nel ceto
distinto della prima nobiltà,
mentre poteva a un minim cenno vostro
nascer plebea, un verme vile, un mostro:
io vi ringrazio che d’un sì gran bene
abbiev ricolma l’umil mia persona,
tant più che essend le gerarchie terrene
simbol di quelle che vi fan corona
godo così di un grad ch’è riflession
del grad di Troni e di Dominazion.
Questo favor lunge dall’esaltarm,
ome accadrebbe in un cervell leggier,
non serve in cambi che a ramemorarm
la gratitudin mia ed il dover
di seguirvi e imitarvi, specialment
nella clemenza con i delinquent.
Quindi in vantaggio di costor anch’io
v’offro quei preghi, che avii faa voi stess
per i vostri nimici al Padre Iddio:
Ah sì abbiate pietà dei lor eccess,
imperciocchè ritengh che mi offendesser
senza conoscer cosa si facesser.
Possa st’umile mia rassegnazion
congiuntament ai merit infinitt
della vostra acerbissima passion
espiar le lor colpe, i lor delitt,
condurli al ben, salvar l’anima mia,
glorificarmi in cielo, e così sia.

Volendo poi accompagnar col fatt
le parole, onde avesser maggior pes,
e combinare con un po’ d’eclatt
la mortificazíon di chi m’ha offes
e l’esempio alle damme da seguir
ne’ contingenti prossimi avvenir,

sòrto a un tratt dalla chiesa, e a quej pezzent
rivolgendem in ton de confidenza,
Quanti siete, domando, buona gent?…
Siamo ventun, rispondon, Eccellenza!
Caspita! molti, replico,… Ventun?…
Non serve: Anselm?… Degh on quattrin per un.

Chì tas la Damma, e chì Don Sigismond
pien come on oeuv de zel de religion,
scoldaa dal son di forzellinn, di tond,
l’eva lì per sfodragh on’orazion,
che se Anselm no interromp con la suppera
vattel a catta che borlanda l’era!

 

(Donna Fabia Fabroni di Fabriano era seduta accanto al fuoco sabato passato col padre Sigismondo, un ex francescano, che nel frattempo le usava la bontà (nel frattempo s’intende che il riso cuoceva)di ascoltare questo discorso che lei faceva. Ormai anch’io, don Sigismondo, condivido pienamente la sua paura che sia vicina la fine del mondo, perché vedo cose di una tal natura, di una natura tale che possono esserci soltanto in un mondo molto prossimo a disfarsi. Congiure, stupri, rapine, persone contro persone, tradimenti, uccisioni di principi ereditari, violenze, angherie, sovvertimenti di troni e di morale, beffe, motteggi contro il culto e perfino contro i natali del primo Cardine dell’ordine sociale. Questi, don Sigismondo, se non son segni
del compimento della profezia, non mancano certamente d’essere gli indegni frutti dell’attuale filosofia,
frutti di cui, purtroppo ebbi a ingoiare tutto l’amaro, come ora le racconto. Essendo ieri venerdì di marzo
fui spinta dalla mia devozione a San Celso e vi andai con quello sfarzo che si addice alla nostra condizione;
il mio coupé con lo stemma e gli alamari tanto al domestico quanto al cocchiere. Tutte le porte e i corridoi davanti al tempio erano pieni zeppi d’una farragine di gente che va, che viene, di mendicanti, di venditori di libretti, d’immagini, per cui con tutto quel trambusto non era agevole scendere dalle carrozze. L’imbarazzo era tale che mentre ero appunto già quasi con un piede a terra, mi spinsero contro un prete così sporco, così unto
che io, per schivarlo e fare un passo indietro, andai a sbattere col sedere contro il legno tanto forte che stramazzai a terra di rimando. Come sia rimasta in una situazione di questo genere è facile supporre: e donna e dama in mezzo a tanta gente, compromessa nel decoro e nel pudore, è più che certo che se non persi i sensi
fu grazia del cielo che mi guardò benevolo. E tanto più che appena alzata in piedi sentii da tutte le parti quei mascalzoni zufolarmi dietro il va via vé! Risa sconce, improperi, atti buffoneschi, quasi fossi donna nel rango uguale a loro, cittadina… merciaia… o simile fango. Ma, come dissi, quel cielo stesso che in cura mi ebbe sempre sin dalla culla, non tralasciò neppure in questa congiuntura di proteggermi ad onta del mio esser nulla, e nel cuore m’ispirò tanta costanza quanta ce ne voleva in quella circostanza. Appellandomi a tutte le mie forze, subito ordino al mio Anselmo di tacere e di seguirmi, rompo la calca, entro in chiesa, giungo ai piedi dell’altare del Crocifisso, mi umilio, mi raccolgo in meditazione, poi a memoria faccio al Signore questa giaculatoria. Possa quest’umile mia rassegnazione, congiuntamente ai meriti infiniti della vostra acerbissima passione, espiare le loro colpe, i loro delitti, condurli al bene, salvare l’anima mia, glorificarmi in cielo, e così sia. Volendo accompagnare con un fatto concreto  le parole, in modo che avessero maggiore peso,
e combinare con un po’ di eclat la mortificazione di chi mi ha offeso e l’esempio alle dame da seguire
nei contingenti prossimi avvenire, esco d’improvviso dalla Chiesa, e a quei pezzenti, rivolgendomi in tono di confidenza, Quanti siete, domando, buona gente?… Siamo ventuno, rispondono, Eccellenza. Caspita! Molti, replico, Ventuno? Non importa. Anselmo, dategli un quattrino per uno. Qui tace la dama e qui non Sigismondo, pieno come un uovo di zelo di religione, scaldato dal suono delle forchette, dei piatti, era lì per sfoderarle un’orazione, che, se Anselmo non avesse interrotto con la zuppiera, vattelapesca che sproloquio sarebbe stato!)

Carlo Porta, “La preghiera”

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Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll,

“Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll,
no per el frègg, no per la pagüra,
no del dulur, legriâss o la speransa,
ma de quel nient che passa per i ciel
e fiada sü la tèra che rengrassia…
Forsi l’è stâ cume che trèma el cör,
a tí, quan’ne la nott va via la lüna,
o vegn matina e par che ‘l ciar se mör
e l’è la vita che la returna vita…
Forsi l’è stâ cume se trèma insèm,
inscí, sensa savèl, cume Diu vör…

 

(Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle, no per il freddo, no per la paura, no del dolore, del rallegrarsi o per la speranza, ma di quel niente che passa per i cieli e fiata sulla terra che ringrazia…
Forse è stato come trema il cuore, a te, quando nella notte va via la luna, o viene mattina e pare che il chiarore si muoia ed è la vita che ritorna vita… Forse è stato come si trema insieme, così, senza saperlo, come Dio vuole…)

Franco Loi, da “Lünn” 

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Foto di pierdomenikserra

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