Moshé.
Sì, questo il mio nome. Mosé, in ebraico. Figlio e discendente di quel popolo che ha eletto il mondo a sua casa. Provengo da una famiglia di musicisti ed ho imparato a suonare il violino, ad esprimermi con la musica, prima ancora di saper parlare. I miei genitori vivevano per la musica e nella mia casa natale i suoni profumavano l’aria, pervadevano le stanze e ci facevano una famiglia felice. Quando ero vivo passavo il mio tempo sognando il presente e la musica era un arcobaleno che salutava ogni alba. Quanto amavo la mia vita!
Un giorno arrivò la guerra e come le piaghe d’Egitto portò morte e desolazione. Un esercito di locuste bombardò i miei affetti e la mia vita si sciolse come la locandina di un mio concerto sotto il temporale dell’autunno.
E’ un giorno indefinito del 1941. Qui il tempo è scappato, come ogni forma di felicità , senza lasciare traccia. Nevica. Nevica sempre ad Auschwitz. Sembra che i colori, i fiori e le farfalle, siano implosi dentro questi fiocchi di cenere. Mi alzo dalle quattro tavole su cui ho sdraiato il mio corpo durante la notte. Racimolo un po’ di forze, raccolgo da terra quel che resta della mia dignità e mi alzo. Anche oggi dobbiamo lavorare per sentirci inutili, fare per non produrre, esistere per soccombere a noi stessi. Guardo fuori dalla finestra. Fantasmi di corpi calpestano il biancore senza quasi lasciare traccia. Siamo ancora esseri umani? Che scopo ha tutto questo? Un silenzio che dura come il buio. Poi, per un breve istante la vita fa irruzione dentro il filo spinato che cinge il mio corpo. Oggi è il compleanno di mia moglie.
I ricordi, questo giardino segreto in cui ancora mi ritiro quando voglio vivere.
Chissà dove sarà ora e se sarà ancora viva. Non sento nemmeno dolore, perché la sua quotidiana consuetudine ha livellato i miei sensi. L’abitudine ti uccide, lo sanno bene questi generali tedeschi che hanno trasformato il campo in una tragicommedia dell’assurdo.
“Il lavoro rende liberi”
In un unico atto, senza coro.
Il mondo ci ha dimenticati ed abbandonati, siamo marionette deposte nel retroscena di un teatro fallito. La giornata è passata. Un vuoto dentro il nulla. Anche la mia coscienza altalena come un bambino. Ho il corpo spaccato dalla fatica anche per la dose di botte che oggi mi sono state inferte. Riprendo a pensare solo dopo che questa zuppa di patate mi restituisce quel minimo di energia. Certe volte mi chiedo perché sopravvivo, che cosa mi spinge a lottare per non morire, pur sapendo che l’inferno che mi spetta lo sto già vivendo e che poco cambierebbe. Stamattina quel leggero raggio di sole mi ha ricordato che vivo per un unico senso. L’amore. Ho fatto una promessa alla vita, quel giorno di vent’anni fa in cui ti ho dichiarato fede eterna.
Lacrime asciutte mi salgono agli occhi.
Girandomi non so per quale motivo verso l’angolo della stanza la custodia malmessa del mio violino attira il mio sguardo. L’ho salvato durante la cattura. Sono riuscito a portare con me la mia voce, altrimenti a quest’ora sarei afono e potrei piangere i miei giorni solo sulle piaghe della pelle. Apro la custodia con un gesto delicato che racconta tutta una mia vita di concerti. Il profumo del legno si lascia accarezzare per un momento ed il mio corpo ormai moribondo, ritrova un’energia sommersa. E’ la passione per l’arte: da queste ceneri che campeggiano nell’aria, risorge come l’araba fenice. Prendo il mio strumento, il mio cuore, la mia anima e comincio a suonare. Senza volerlo, oppure volendolo profondamente. Eseguo la Ciaccona di Bach. È per te amore mio. Suono ad occhi chiusi ed il mondo ricomincia a trovare colore, c’è un sole caldo e sento la vita che sorride. La musica mi trasforma nell’eternità dei suoi istanti in un pittore.
Ecco perché vivo. Sono ancora qui perché la musica esiste e dentro di essa scorre il mio amore per te. Questa musica barocca è anche parte di me che la eseguo, l’ho fatta mia in anni di fatiche e di studio e ogni volta che verrà eseguita, anche io sarò parte di essa. Mi sarò salvato per sempre dal seppellimento. I suoni sono miei amici, gli unici rimasti. Li guardo dialogare fra loro, unirsi, mettersi in discussione e ritrovare sempre l’armonia da cui sono nati. La musica è un’energia democratica e gli uomini l’hanno dimenticato. Quando suono nello stanzone cala il silenzio. Credo che quest’arte porti un poco di conforto anche ai cuori disidratati di queste ossa che si muovono attorno a me. Si adunano tutti in cerchio attorno a me, quasi potessi dar loro del calore o forse speranza. Non mi interessa quando e se verrà la mia fine. Ho vissuto sempre dando un senso e una direzione alla mia vita ed anche quando il più infimo odio dei miei fratelli umani ha cercato di strapparmi di dosso le mie vesti, io mi sono salvato. Si, loro hanno cercato di sommergermi ed io mi sono salvato. Perché nel mio cuore battono l’amore e la musica. Finché questo pulserà, dentro di me scorrerà vita umana. Quando sarà la morte, io non sarò più, ma l’arte, la musica, l’amore continueranno a vivere e io non sarò stato su questa terra invano.
Finita la musica si spegne anche l’ultima luce che è in me. Riposto il violino chiudo gli occhi e la stanchezza mi vince. Ho notti senza sogni e senza incubi.
La mattina dopo Moshé non lo sa, ma i tedeschi laveranno via con le docce anche la sua vita. Eppure non l’hanno avuta vinta. Moshé vive nell’aria, come lo spirito Ariel. Si trasforma nelle mille bellezze dei suoni, in sonate, sinfonie e concerti. I tedeschi avevano dimenticato una cosa e per questo hanno perso.
Avevano dimenticato che Moshé era un essere umano.
Moshé Liba, “Il violinista di Auschwitz”