“Scorre così il mio film
nella testa
di me che ti do
un sonoro ceffone
lì sulla guancia
sul punto che amavo
sempre odorare.
Ah, sì, sì!
Poi potrei anche urlarti
la rabbia dei torti
subiti
delle mancanze
che mancano
e che mai arriveranno.
Sono regista scenografa e attrice
unica e sola.
Mille copioni
ed un solo finale.
Solo anche lui,
un po’ come me.”
“Chissà se quello che perdiamo
si tramuta e si sporziona
in frammenti interstellari.
Forse siamo solo scie
d’un San Lorenzo dimenticato
in un mondo parallelo.
Parallelo come noi
che non ci sfioriamo mai.”
*****
“La realtà è meno terribile delle nostre fantasie”.
Credo di averlo sempre saputo, ma ci son voluti anni per crederci fino in fondo, quel tanto da rischiare e fare il salto.
Siamo animali sociali ed esseri fantasiosi. Interpretiamo la realtà con metodi non sempre appropriati e non sempre esaustivi.
Ma non ci arrendiamo. No, certe volte siamo perfettamente in grado di costruire edifici di risposte (quelle che ci convengono ovviamente) e, a dimostrare la validità delle nostre tesi campate in aria, raccogliamo indizi a dir poco forzati.
C’è del metodo in questa follia, lo riconosco!
Ma l’opera machiavellica ha senz’altro il suo culmine quando, ad un tratto, ci rintaniamo fuori dalla realtà, senza più trovare la strada di casa.
Così… non siamo mai inciampati su una buccia di banana, ma fantastichiamo talmente forte che è come se sia già accaduto. Quasi ne percepiamo il dolore.
Così… non abbiamo mai litigato con quel collega, ma fantastichiamo talmente forte che è arrivato a starci proprio sulle palle!
Così… non abbiamo mai cercato un nuovo lavoro, ma fantastichiamo talmente forte che siamo riusciti ad arrenderci perché, effettivamente, è un’impresa impossibile.
…continuo?
No, meglio di no. Ma non fatelo neanche voi, perché… sto fantasticando talmente forte che già vi vedo rimandare e procrastinare la vita, sulla base del niente.”
“Somatizzare
somatizzare
somatizzare!
Ho un cervello-segretario
il mio vice-controllore
che se trova le scartoffie
insolute dei miei guai
le raccoglie con dovizia
e con una certa fretta
per piazzarle, a promemoria,
in uffici assai speciali.
Se il pensiero che mi tormenta
mi imprigiona in stati d’ansia
il cervello-segretario
fa un pacchetto e lo spedisce
proprio dritto sullo sterno:
e così ad ogni respiro,
che è di certo più affaticato,
terrò sempre alla mente
quel pacchetto da scartare.
Ma se il guaio è più grosso
e l’angoscia si appropinqua,
il ragionier “scatola grigia”
non ci pensa su due volte:
mi propina un bel macigno
proprio al centro della pancia
ed ogni crampo
è solo un post-it
che ripete: “Ma che fai, mi stai ignorando?!
Non lo vedi che ti schiaccio?!
Corri corri ai ripari,
se non vuoi degli altri guai!”
“Le ho passato la tazzina con un goccio di caffè. È iniziato da qui a srotolarsi il gomitolo di parole che non era ancora andato giù, con la carne e le patate.
“Com’era il matrimonio? Bello?”
“Normale…”
“E dove si sono sposati?”
“A Tivoli.”
“Ah, vedi… ah, non ci sono mai stata a Tivoli.”
Sospiro.
Il goccio di caffè scende e si inizia.
Io sapevo già come sarebbe andata a finire. Mi sono messa comoda, testa poggiata sul braccio e ho iniziato a osservare. Ascoltavo eh, ma, più di ogni cosa, ascoltavo quello che mi dicevano i suoi occhi. Credo sia passata, in poco più di cinque minuti, dalla gioia, alla nostalgia, alla tristezza, alla depressione, alla rabbia, alla follia.
I ricordi fanno questi scherzi.
Mentre raccontava a se stessa, poi a me, dei viaggi dell’adolescenza, del lavoro, dei momenti belli e brutti di una vita che sembra, a ripercorrerla, durata un soffio, ho capito che dovevo tacere. Non dovevo assolutamente interrompere nulla. Dovevo solo mantenere il contatto visivo, per farle capire che ero lì, ma che quel momento era suo. Non sarei intervenuta con alcun commento, perché non sarebbe servito. Dovevo semplicemente esserci, perché certe volte abbiamo bisogno di confidarci, di tirar fuori, e vogliamo farlo in presenza di un testimone. Forse temiamo di dimenticare e che non rimanga nessuno a dire di quei viaggi adolescenziali, di quel lavoro, di quei momenti belli e brutti.
Siamo come i bambini sulla riva del mare, che si ostinano a lasciare tracce del loro passaggio, sfidando il costante lavorio delle onde.”
L’arte della meditazione non l’ho appresa in un viaggio all’estero e nemmeno in qualche corso Newage. Ci voleva il sacro GRA. Ci volevano le lamiere su strada, quelle scatolette di latta, custodie di un’umanità sbiadita, ingrigita male. Malissimo.
Quando le luci rosse sfavillano in lontananza, io so che devo fermarmi. E questa consapevolezza mi accende di colpo un lobo preciso della mente, non saprei indicarne il nome. Con quel lobo ci faccio un sacco di cose, tra cui scrivere queste poche righe.
Eccomi, sono ferma. Il mio volto ha una sfumatura rossa, lievemente brillante. Siamo tutti distesi sotto lo stesso cielo, ma non sotto la stessa luce.
Mi volto, cerco i compagni di questo nuovo restare ancorati all’asfalto. Un signore stempiato allunga una mano ed alza il volume della sua radio. La musica è accesa, ma lui ha l’occhio spento, da pesce lesso. Chissà se ora corre con la mente verso casa o se corre per scappare via.
Accendo una sigaretta. Si pensa meglio tra i fili di fumo che entrano ed escono dallo spiraglio del vetro abbassato. I fili si intrecciano ma non li sbroglio, non sono capace, li lascio fare, seguo il mio ed il loro corso naturale. Non è il momento di rischiare, di forzare la mano. Mollo anche il cambio, lo metto a folle e tiro il freno a mano. Sistemo le gambe e aspetto di sentire di nuovo il sangue fluire dal ginocchio al polpaccio.
Forse fa freddo in questo abitacolo? Ma perché chiamarlo proprio così, se poi ci si abita in modo saltuario? O quasi per sbaglio? A volte per una semplice coincidenza, altre volte perché sembra essere l’unica scelta.
Il traffico si rianima e si riscompone. Le luci si spengono a pioggia ed io perdo quel colorito rossastro sul viso. D’un tratto si arresta anche quel lobo del mio cervello, che ancora vive nell’anonimato.
Riprendo a scattare in avanti, ad inseguire e a frenare tutto il mio essere, sempre pronto ad andare sulla strada di casa.
“Tutti i pomeriggi, alle tre, li vedo tornare. Hanno sempre dei grandi bustoni nelle mani che, regolarmente, lanciano sul divano. Lui non ha una mira eccelsa, stranamente. Lei, invece, sembra sia nata per questo: per un attento gioco di tiro al bersaglio.
Li sento ridere. Ridono spesso. A volte sentirli così felici e leggeri fa sorridere anche me, ma dipende molto dai giorni, da come mi sento. Certe altre volte, difatti, neanche ci fossimo vomitati i peggiori insulti, con aria offesa non mi presento a questo nostro insolito appuntamento e resto sul divano. In quei giorni non mi concedo nemmeno il gelato e non lo concedo nemmeno a loro. Sì, perché nella mia testa siamo ospiti reciproci: io offro loro la me alla finestra, con il gelato, e loro offrono se stessi, con i bustoni, le risate e, lo ammetto, alle volte le effusioni.
Non so se è questo a mancarmi di più. Forse no. Mi manca tremendamente lo sguardo che hanno, che intravedo da qui. La complicità con cui girano per casa, a volte urtandosi, a volte deridendosi, a volte litigando.
Chissà che mi aspetto, sempre qui alla finestra.”
Testi e foto di Sonia Simbolo – Modella dell’ultima foto: Rossana Perri