Un sant’uomo dell’antichità dovette abbandonare il suo ritiro appartato per recarsi in città. Chiese la grazia di incontrare subito una persona con la quale discutere di cose sante, per non farsi distrarre dalla confusione del luogo. Ecco che all’ingresso della città vede per prima una prostituta. Perplesso e in difficoltà sotto lo sguardo della donna le chiede perché lo sta fissando.
«Io che provengo da un fianco dell’uomo, posso fissare la mia origine, ma tu che provieni dalla polvere del suolo puoi solo guardare in terra».
La magnifica lezione della prostituta mi riguarda. Con sfrontatezza un uomo guarda una donna. Alcune religioni ne velano i lineamenti per proteggerle dall’impurità dello sguardo maschile. Apprezzerei invece una misura che purifichi gli occhi degli uomini, che vieti loro di alzarli sul volto di una donna, senza avere prima sostato con lo sguardo in terra.
Le fotografie di Danilo De Marco provengono misteriosamente da questa lezione. Si sono abbassati sopra la polvere, la cenere, prima di sollevarsi e mettere a fuoco una donna. In queste immagini la castità di sguardo è la condizione dell’incontro. In confronto ad altre immagini con foto di donne, in queste i loro corpi sono interi e non un assemblaggio di pezzi, di attrazioni anatomiche per le fradice pupille maschili. Perché gli uomini sbavano con gli occhi. Qui il corpo di donna non è illustrazione, ma clessidra del tempo: esso deve passare attraverso di lei, nascere attraverso la sua strozzatura. Lascio l’ultima parola a una poesia d’amore. Il poeta è Izet Sarajlic, alla moglie pochi giorni dopo la sua scomparsa.
«Il tuo nome non è entrato in nessuna enciclopedia, non sei in nessuna, non ti chiedono: “Chi sei”.
Tu sei tutto per me, come per un soldato il letto nel primo giorno di pace e le lacrime e i fiori nel vaso.
I tuoi occhi sono la mia unica lettura in questo giorno che passa e se ne va».
Foto di Danilo De Marco