Papà, papà papà.
L’amore primitivo, inevitabile, ladro e santo della mia vita in quella telefonata finiva, e due voci continuavano a infilarsi fra le nostre per reclamare la sua attenzione.
Papà, papà.
Una delle due voci era femmina.
Al Paese ci conoscevano tutti.
I Senzaniente, continuavano a chiamarci, per via dei miei nonni, i genitori di mio padre, che dopo la guerra il poco che avevano se l’erano perso.
No che non te lo do un litro, aveva detto la vecchia della latteria a Rocco.
Mio fratello ha tre giorni e mia madre non ha latte.
Le tette secche si curano, basta massaggiarle con un panno d’acqua calda.
C’ha provato, non esce niente, c’ha la febbre alta.
Mi dispiace, io il latte però non te lo posso da’, sennò finisce come quand’era nata l’altra sorella tua, latte e latte per voi e mai una lira per me. Ha detto papà che entro domenica ti fa ave’ tutti i soldi, pure quelli di due anni fa.
Allora quando li vedo ti do il latte e un’altra bottiglia ve la regalo io.
Dopo tre giorni la madre di Rocco sarebbe morta e Rocco dopo ventidue anni sarebbe diventato mio padre, allora ne aveva nove. Da quelli non si entra, mi diceva, quando passavamo davanti allo spaccio in cui si era trasformata la latteria. A costo di non fare la spesa lì, se l’altro spaccio del Paese per qualche motivo era chiuso, prendevamo la corriera e andavamo al Paese Vicino. La macchina è arrivata quando facevo la prima elementare, un giorno sono tornata da scuola e l’ho trovata parcheggiata davanti a casa nostra, blu. Gli altri bambini delle Case Basse, il pezzo del Paese dove abitavamo, l’ultimo pezzo, il più lontano dal centro e ingoiato pure ad agosto dall’ombra del Panettone, così chiamavamo il monte che ci separava dalla Piccola Città, giravano attorno alla macchina, gli occhi allucciolavano e diventavano tutti dello stesso colore, pure loro blu. Mia madre era incinta dei gemelli e si accarezzava la pancia e si guardava la scena e rideva da sola.
Chiara Ganberale, da “Il grembo paterno”, 2021