Maria era stufa. La vita così non aveva più senso e la frase in un libro che le era stato regalato per il suo compleanno le fece capire che era proprio così: “Finché sei vivo non sei morto”. Una banalità dal peso di un macigno nella sua mente. Uno di quei momenti che alcuni chiamano Eureka. In quella frase lei lesse la soluzione del problema. Era così palese, come aveva fatto a non pensarci. Doveva trovare quella frase così semplicistica, ma al contempo dal significato così profondo, che le risonava dentro alla notte mentre il sonno tardava a venire per scrollarsi di dosso quel senso di incompletezza, quel senso di irrisolto?
Quel libro, dal titolo strano: Storia di Uliviero, che la sua amica Flora le aveva regalato.
– Penso che ti possa piacere, una bella storia con tante sfaccettature. Un libro difficile da descrivere, direi che è un viaggio a ritroso nel tempo e che attraverso le vite di questi personaggi si possa capire come il carattere di un uomo tracci il suo destino. Leggilo e mi saprai dire cosa ne hai pensato – le disse Flora nel passarle il sacchetto di carta con dentro il libro incartato con una carta regalo dorata e un fiocco rosso, un probabile rimasuglio natalizio.
Maria aveva tanto tempo davanti a disposizione. Le ore solitarie le colmava leggendo, era l’unica cosa che le piaceva fare da quando Paolo suo marito se ne era andato appresso le gonne di quella là. Maria non aveva hobby e passioni. Solo la lettura le coinvolgeva l’anima facendole dimenticare che era una donna sola, senza un vero futuro con solo i ricordi che il destino le avevano regalato.
L’infanzia l’aveva preparata alla solitudine. Era figlia unica. Solo un piccolo cucciolo di cane randagio che trovò nel cortile di casa venne a interrompere i suoi giochi solitari. Lo chiamò Geremia.
– Un’altra bocca da sfamare? Non ci pensare nemmeno di tenerlo – gli disse suo padre Ruggero. Ma la sua argomentazione non funzionò: quello scricciolo di pelo nero come la pece, non avrebbe portato via un granché dalle pietanze giornaliere che preparava sua madre Maddalena con le scarse vettovaglie a disposizione. Maddalena, come suo solito, era di poche parole. Accettava con rassegnazione e devozione qualsiasi cosa dicesse Ruggero. Soffriva una malattia che, a quel tempo, non era stata diagnosticata per quello che era: depressione.
– Era solo un po’ triste, un carattere malinconico, succede, nulla di cui preoccuparsi, ci sono persone così e non c’è nulla da fare. Così aveva decretato il medico le volte in cui veniva interpellato quando Maddalena non si alzava dal letto. Ma quella semplice tristezza la portò a legarsi una pietra al collo e a buttarsi dal ponte sul fiume una notte, quando Maria aveva quindici anni. Non aveva lasciato un foglio, qualcosa che spiegasse il suo gesto. Non aveva nemmeno lasciato un gran vuoto perché la sua presenza era una presenza così in punta di piedi che Maria e Ruggero sentirono solo la mancanza di alcuni piatti prelibati, che lei preparava quando era, sporadicamente e per poco, di buon umore.
Maria scoprì, anni dopo, che una cosa la madre le aveva lasciato: la sua tristezza o meglio la sua depressione, così come la chiamò il dottor Invernizzi quando la visitò consigliandole un medico per questo tipo di cose. Non usò la parola “psichiatra” per non spaventare Maria, che era ancora di quella generazione che non guardava di buon occhio chi andava in analisi. Tutte stupidaggini. Sono cose passeggere. È il tempo. Sarà l’autunno. È tutta colpa della primavera, porta emozioni passeggere che come le nuvole passeranno. Così non andò in analisi. Si abituò a quel senso di malinconia, di afflizione che accompagnavano le sue giornate. Emozioni dell’anima che durarono un po’ di anni per sparire poco dopo aver incontrato Paolo. Faceva la cassiera al bar del paese e Paolo l’aveva corteggiata senza mezzi termini: le portava fiori e piccoli doni, finché un giorno la invitò a cena per chiederla in moglie. Maria aveva diciotto anni e si sposò poco dopo, all’alba dei diciannove anni.
Non seppe mai capire se si era innamorata oppure se aveva solo voglia di uscire di casa per non assistere allo spettacolo svilente del padre e delle sue serate passate davanti alla bottiglia che, da quando Maddalena si era tolta la vita, aveva capito come senza di lei la sua vita non avesse senso. Ruggero era un uomo semplice. Era il bidello della scuola del paese e la sua vita era priva di emozioni e aspettative. Dormire, mangiare e un lavoro onesto erano motivi sufficienti per ritenersi felice senza farsi troppe domande. Questo prima del gesto folle di Maddalena, che lo riempì di dubbi, di rimproveri e di sconforto per non aver capito chi fosse veramente la donna che aveva sposato. Così sposò la bottiglia, e si dedicò al bere come avrebbe dovuto fare, secondo lui, per rendere felice Maddalena. Non sapeva che non era colpa sua. Maddalena non si sarebbe salvata, ci si salva da soli, nessuno si può accollare il peso di dare felicità a una persona. Questo Maria lo aveva capito da tanto, perciò aveva deciso di diventare la moglie di Paolo. Non per essere felice, ma per vivere priva di preoccupazioni. Perché Paolo era il ricco del paese. Aveva ereditato in giovane età le terre di suo nonno essendo orfano di padre. Maria trovò conforto all’idea di non dover mai più lavorare un giorno nella sua vita.
Non aveva fatto i conti con la noia. Con il fatto che le sue giornate erano vuote e che Geremia, il suo fedele cagnolino, era molto vecchio e l’avrebbe lasciata presto sola. L’unico rimedio sarebbe stato di avere un figlio. Ma non arrivò mai.
Quando fu chiaro che il sogno di avere un figlio era da mettere da parte, Maria si domandò che senso avesse la sua vita. Viveva in una casa dove i domestici si occupavano di tutto. Non cucinava, non guidava, non si occupava del giardino e dare ordini per poi seguirli non la interessava più di tanto.
Le fu propizio l’incontro con Flora. Flora era la commessa della libreria del paese. Un piccolo angolo di paradiso per Maria. Solo lì, mentre scorreva le mani sui libri disposti sui tavoli e gli scaffali, comprese che la lettura sarebbe stata la sua salvezza. Flora era poco più giovane di lei. Era sposata a Riccardo, che faceva l’avvocato in un paese dove non c’erano molte diatribe o grandi motivi per sostenere la spesa di un avvocato, perché alla fine con il buon senso si trova sempre una soluzione ragionevole. La gente di paese è più saggia di quella di città. Così, Flora e Riccardo non navigavano nell’oro. Maria portava a Flora i suoi vestiti smessi, le regalava di tanto in tanto un ninnolo per la casa, un piccolo gioiello. Vederla felice per quei gesti alla portata delle sue mani, era l’unica gioia che Maria provava in una vita priva di tutto quello che potevano essere le gioie di una donna alla quale non mancava nulla, se non la maternità. Perciò quando Flora le chiese di diventare la madrina di Giada, la sua unica figlia, Maria accettò di buon grado, sentendo che questo ruolo era la cosa più vicina all’essere madre che le sarebbe capitata.
Giada cresceva con l’amore dei suoi genitori e l’affetto smisurato di Maria, che la copriva di giocattoli, di vestitini e pagava qualsiasi spesa ci fosse da sostenere per la sua salute e la sua educazione.
Avevano preso l’abitudine di fare le vacanze insieme in Versilia dove Paolo e Maria avevano casa. Per Maria, Flora e Riccardo erano la cosa più vicina all’avere una famiglia che avesse provato.
Ma il tempo va avanti e nulla lo ferma. Giada crebbe, si sposò e si spostò a vivere a Parigi per seguire il marito, che era un musicista dell’Opéra. Così l’unico momento di gioia era quando Giada tornava a trovarli portandosi appresso i suoi figli, Mario (in onore della sua madrina Maria) e Giuseppe. Flora aveva ripreso a lavorare in libreria perché era la sola cosa che sapeva fare e che la rendeva felice e appagata. Avrebbe voluto che Maria la seguisse perché vedeva l’amica spegnersi, soprattutto dopo il divorzio da Paolo. Era ottenebrata dalla gelosia e non si dava pace al fatto che lui non aveva saputo resistere al richiamo della carne più giovane. E non solo aveva lasciato Maria, ma aveva avuto anche un figlio da quella schifosa.
Fu allora che il dottor Invernizzi suggerì a Maria di vedere il prof. Marchioni, l’avrebbe aiutata a venir fuori dalla sua depressione. Perché di depressione si trattava: era indubbio che il rifiuto del cibo, dell’alzarsi dal letto, del vedere la sua amica del cuore non potevano che essere i segnali di una profonda depressione.
Eppure Maria si trovava bene in quello stato. La sua vita rimase immobile per una buona decina d’anni. Solo le regolari visite di Flora, con l’immancabile pacchetto contenente un libro scelto con cura, interrompevano le sue giornate solitarie con accanto il cane di turno. Dopo Geremia ce ne erano stati tanti altri, fedeli ai suoi piedi, ad accompagnarla nella sua solitudine.
Ma accadde l’imprevisto. Alla soglia degli ottant’anni Maria lesse una frase, che le risvegliò qualcosa sopito in lei da tempo: la voglia di novità. Aveva ancora tempo.
“Finché sei vivo non sei morto”, sosteneva la frase nel libro. E aveva ragione! Si fece un esame di coscienza e si domandò cosa avrebbe voluto fare più di tutto prima di morire? Voleva andare in India ad aiutare i più poveri. A Calcutta le suore di Madre Teresa si occupavano di fare la carità e di aiutare gli ultimi.
Maria non disse nulla a Flora. Non disse nulla a Giada. Chiese all’ultima domestica rimasta di accudire la casa, di occuparsi del cane Elia e si organizzò. Prima il passaporto, poi il visto per l’India, poi un corso di computer per saper navigare in rete, infine un biglietto d’aereo per New Delhi.
Aveva capito che l’unica felicità la trovi nel sorriso degli altri. Il vero motivo della nostra esistenza le era stato a portata di mano tutti quegli anni: fare del bene, portare qualcosa al mondo, anche se il mondo può essere racchiuso in una sola persona. Non aveva capito in tutto quel tempo che la sua esistenza aveva già un senso perché aveva aiutato la sua amica a crescere la figlia, dando un sostegno economico che l’amica e il marito non avrebbero mai potuto sognarsi.
Però adesso che loro non avevano bisogno, c’erano altri. Sentiva il richiamo ad aiutare gli ultimi del mondo.
Partì senza dire nulla a nessuno. Prese il treno per Milano e il volo per New Delhi e poi si recò a Calcutta.
– Sono qui per aiutare, disse alle suore che l’accolsero alla casa di Madre Teresa.
– Quanti anni hai?
– Ottanta. Ho letto che finché sei vivo non sei morto. Per questo sono qui. Per servire e dare il mio modesto aiuto.
Fu portata in una stanza dove c’erano file di suore intente a pregare in ginocchio e le fu detto di pregare.
Quando Maria disse un po’ contrariata che voleva aiutare davvero le persone e non chiudersi in una stanza a pregare si sentì rispondere:
– Madre Teresa sosteneva che la preghiera è la parte più importante e necessaria della loro carità.
Maria morì cinque anni dopo.
Flora Giada e Riccardo scoprirono dove era finita la loro cara amica. Nella sua casa oggi giocano felici i loro figli Mario e Giuseppe con il vecchio Elia.
In un angolo del giardino ci sono sei lapidi. Geremia, Isaia, Ezechiele detto Ezzie, Gioele, Giona e Aggeo.
I suoi cani adorati chiamati con i nomi dei profeti.
Sulla lapide che sovrasta le sue ceneri, una scritta incisa nella pietra:
FINCHÉ SEI VIVO NON SEI MORTO. RICORDATELO.
Milagros Branca, “La frase”