“Vi svelo un segreto: mia madre è una matrioska. Lo so perché certe mattine mi chiede di aiutarla ad avvitarsi e io allora spingo con tutto il mio peso la parte di sotto mentre lei con le mani sui fianchi tiene ferma quella di sopra, dalla vita in su, scricchiolando come una betulla.
Il guscio più esterno di mia madre è un ingombrante cappotto che indossava sua nonna quando andò a votare nel ’46 e al quale è molto affezionata perché lì dentro si sente protetta. Quando mi accompagna a scuola, nell’atrio guardo le altre madri: alcune le assomigliano, altre invece sono fatte tutte d’un pezzo, strati su strati saldati tra loro come il tronco di un albero.
Un giorno che non stavo troppo bene per andare a scuola mi ha portato con sé al lavoro. Scric-scric, mia madre si è svitata il cappotto e ne è venuta fuori ridimensionata, con il camice bianco da laboratorio. Mi ha fatto osservare le cellule di una cipolla al microscopio. Per fare il lavoro che le piace ha dovuto contrariare suo padre, che avrebbe preferito vederla fare la madre e basta, mantenuta da un uomo con molti soldi.
Sai che noia, ho detto abbracciandola; con l’orecchio premuto al guscio ascoltavo il battito del suo cuore audace. E per fare te, ha sorriso lei spettinandomi la frangia, poi ho dovuto contrariare il lavoro.
Una volta a settimana andiamo a nuotare alla piscina comunale. Negli spogliatoi mia madre si svita cappotto, camice, maglietta, jeans e, impaziente di immergersi, viene fuori in una versione più compatta, con il costume olimpionico dipinto addosso. Mi spiega che come in un videogioco dovrà catturare tutti i pensieri positivi disseminati tra i galleggianti che dividono le corsie. Poi si tuffa. A volte sento le donne dell’aquagym che bisbigliano: vedi come nuota spedita quella, dev’essere una che non ha mai rinunciato a niente! Ma mia madre non ci fa caso e continua a nuotare. Il suo corpo centrale, la vera sé, arriva alla sponda e fa una capriola, cambia direzione e una bracciata dopo l’altra conta le vasche, cinque, dieci, venti, poi risale la scaletta con un po’ di fiatone. Li hai catturati tutti? Quasi.
Ci asciughiamo i capelli e lei si riavvita al contrario, scric-scric, eccola di nuovo nel cappottone. Facciamo la spesa, compriamo i rasoi e il bagnoschiuma da maschio per risparmiare, e nel tardo pomeriggio siamo a casa. Mentre cucina, mia madre mi aiuta a fare i compiti. Ha un grembiule annodato sulla tuta comoda, il suo legno più tenero e domestico.
Ceniamo insieme a mio padre e dopo è lui a lavare i piatti così lei può accompagnarmi a dormire e inventare con me i finali delle fiabe più scorretti che ci vengono in mente. Io faccio finta di addormentarmi, poi mi alzo e vado a spiare i miei genitori nella loro camera. Vedo tutte le capsule concentriche di mia madre appoggiate all’armadio. Lei spunta dal piumone soltanto con la testa e un libro. È molto più piccola del solito e quando mio padre la raggiunge nella camera, per scherzo le chiede: ehi, ma dove sei finita?
Lei una volta mi ha detto che ci ha messo proprio tanto a trovare quell’uomo, ma che ne è valsa la pena. Non si è accontentata di tutti gli altri, quelli che la volevano in un certo modo e basta, ferma a un preciso strato, che non accettavano le sue moltiplicazioni per contenere più spazio o le sue parti a metà.
No, mia madre ha rischiato, ha preteso, e infatti adesso c’è mio padre in quella camera, lui l’ha amata da subito per la sua complessità e perché gli piaceva soprattutto la donna che abitava al centro.
Sono qui, risponde mia madre agitando una mano dal lettone.
Ed ecco un altro segreto: mio padre è un patrioska. Piano piano, infatti, anche lui svita tutti gli strati. Il completo serioso da ufficio, scric-scric, la felpa sportiva con cui suona nella sua band, scric-scric, la camicia spiegazzata che tiene in casa o la domenica quando andiamo al parco a prendere il sole, e alla fine rimane un uomo ridimensionato, compatto, il microcosmo contenuto da tutti gli altri, come mia madre. Sparisce sotto il piumone e io, dal rumore di legno che fanno, so che i miei genitori si stanno abbracciando.
Allora torno a letto e penso al mio corpo, sogno quanti strati potrò avere da grande, ne vorrei tantissimi.
La matrioska più grande del mondo contiene cinquantuno pezzi e così cerco di immaginare il più piccolo, talmente piccolo che te lo puoi scordare o perdere per sempre. Eppure è proprio per quel pezzo che mia madre lotta ogni giorno: pari a tutti gli altri, né più forte né più debole, né più bello né più brutto.
Mia madre dice che quel pezzo va protetto perché contiene i semi della libertà, e io non devo dimenticarlo mai.”
Ester Armanino, “Mia mamma è una matrioska”, “La Stampa”, 8 marzo 2017