L’attentato di Via Fani
1. Al ministro dell’Interno Francesco Cossiga
Recapitata il 29 marzo 1978 insieme alla lettera indirizzata alla moglie, Eleonora, e a quella per il collaboratore Nicola Rana, mantenuta riservata a differenza di questa, che fu dai rapitori inviata in fotocopia ai giornali nonostante la richiesta di riservatezza di Moro: fu pubblicata il 30 marzo. Nella lettera a Eleonora si fa esplicito riferimento alla data di scrittura, il giorno di Pasqua 26 marzo. Intorno alla stessa data è collocabile la stesura di questa lettera, che il 6 aprile fu inoltrata dal ministro alla Procura della Repubblica di Roma.
Caro Francesco,
mentre t’indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni. Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione — mi è stato detto con tutta chiarezza — che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come Presidente della D.C., ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente). In tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare dunque sino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale. Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della D.C. nel suo insieme nella gestione della sua linea politica. In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere.
Nelle circostanze sopra descritte entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. Inoltre la dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato. Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e la Germania, ma non per il caso Lorenz. E non si dica che lo Stato perde la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un’alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato. Ritornando un momento indietro sul comportamento degli Stati, ricorderò gli scambi tra Breznev e Pinochet, i molteplici scambi di spie, l’espulsione dei dissenzienti dal territorio sovietico. Capisco come un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire. Queste sono le alterne vicende di una guerriglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l’emotività e riflettendo sui fatti politici.
Penso che un preventivo passo della S. Sede (o anche di altri? di chi?) potrebbe essere utile. Converrà che tenga d’intesa con il Presidente del Consiglio riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti. Un atteggiamento di ostilità sarebbe un’astrattezza ed un errore. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.
I più affettuosi saluti
Aldo Moro
2. Al segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini
Recapitata il 4 aprile 1978. Di questa lettera esiste una diversa versione, nota in fotocopia. La data di scrittura di entrambe è collocabile al 31 marzo sulla base dell’intrinseco riferimento ai quindici giorni trascorsi dal rapimento (1).
Caro Zaccagnini,
scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga, ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la D.C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell’immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a costituire.
È peraltro doveroso che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui. Questo è tutto il passato. Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze. Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n’è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi.
Si discute qui, non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che, nella sua sensibilità ha il pregio d’indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco. Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità e senza avere subito alcuna coercizione della persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po’ abbandonato da voi.
Del resto queste idee già espressi a Taviani per il caso Sossi [ed] a Gui a proposito di una contestata legge contro i rapimenti.
Fatto il mio dovere d’informare e richiamare, mi raccolgo con Iddio, i miei cari e me stesso. Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po’ diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per pagare per tutta la D.C., avendo dato sempre con generosità. Che Iddio v’illumini e lo faccia presto, com’è necessario.
Affettuosi saluti
Aldo Moro
3. Al segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini
Recapitata il 20 aprile 1978 insieme alla seconda lettera a Paolo VI e a una lettera alla moglie nella quale si chiede di inviare le due missive ai destinatari. La data di scrittura è collocabile intorno al 19 aprile, data di estensione di una breve nota per Zaccagnini, non recapitata e che ha le caratteristiche di una bozza.
Caro Zaccagnini,
mi rivolgo a te ed intendo con ciò rivolgermi nel modo più formale e, in certo modo, solenne all’intera Democrazia Cristiana, alla quale mi permetto d’indirizzarmi ancora nella mia qualità di Presidente del Partito. È un’ora drammatica. Vi sono certamente problemi per il Paese che io non voglio disconoscere, ma che possono trovare una soluzione equilibrata anche in termini di sicurezza, rispettando però quella ispirazione umanitaria, cristiana e democratica, alla quale si sono dimostrati sensibili Stati civilissimi in circostanze analoghe, di fronte al problema della salvaguardia della vita umana innocente. Ed infatti, di fronte a quelli del Paese, ci sono i problemi che riguardano la mia persona e la mia famiglia. Di questi problemi, terribili ed angosciosi, non credo vi possiate liberare, anche di fronte alla storia, con la facilità, con l’indifferenza, con il cinismo che avete manifestato sinora nel corso di questi quaranta giorni di mie terribili sofferenze. Con profonda amarezza e stupore ho visto in pochi minuti, senza nessuna seria valutazione umana e politica, assumere un atteggiamento di rigida chiusura. L’ho visto assumere dai dirigenti, senza che risulti dove e come un tema tremendo come questo sia stato discusso. Voci di dissenso, inevitabili in un partito democratico come il nostro, non sono artificiosamente emerse. La mia stessa disgraziata famiglia è stata, in certo modo, soffocata, senza che potesse disperatamente gridare il suo dolore ed il suo bisogno di me. Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del paese? Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti. Si aprirebbe una spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo Paese. Si aprirebbe, insanabile, malgrado le prime apparenze, una frattura nel partito che non potreste dominare. Penso ai tanti e tanti democristiani che si sono abituati per anni ad identificare il partito con la mia persona. Penso ai miei amici della base e dei gruppi parlamentari. Penso anche ai moltissimi amici personali ai quali non potreste fare accettare questa tragedia. Possibile che tutti questi rinuncino in quest’ora drammatica a far sentire la loro voce, a contare nel partito come in altre circostanze di minor rilievo? Io lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e non giustificherò nessuno. Attendo tutto il partito ad una prova di profonda serietà e umanità e con esso forze di libertà e di spirito umanitario che emergono con facilità e concordia in ogni dibattito parlamentare su temi di questo genere. Non voglio indicare nessuno in particolare, ma rivolgermi a tutti. Ma è soprattutto alla D.C. che si rivolge il Paese per le sue responsabilità, per il modo come ha saputo contemperare sempre sapientemente ragioni di Stato e ragioni umane e morali. Se fallisse ora, sarebbe per la prima volta. Essa sarebbe travolta dal vortice e sarebbe la sua fine. Che non avvenga, ve ne scongiuro, il fatto terribile di una decisione di morte presa su direttiva di qualche dirigente ossessionato da problemi di sicurezza, come se non vi fosse l’esilio a soddisfarli, senza che ciascuno abbia valutato tutto fino in fondo, abbia interrogato veramente e fatto veramente parlare la sua coscienza. Qualsiasi apertura, qualsiasi posizione problematica, qualsiasi segno di consapevolezza immediata della grandezza del problema, con le ore che corrono veloci, sarebbero estremamente importanti. Dite subito che non accettate di dare una risposta immediata e semplice, una risposta di morte. Dissipate subito l’impressione di un partito unito per una decisione di morte. Ricordate, e lo ricordino tutte le forze politiche, che la Costituzione Repubblicana, come primo segno di novità, ha cancellato la pena di morte. Così, cari amici, la si verrebbe a reintrodurre, non facendo nulla per impedirla, facendo con la propria inerzia, insensibilità e rispetto cieco della ragion di Stato che essa sia di nuovo, di fatto, nel nostro ordinamento. Ecco nell’Italia democratica del 1978, nell’Italia del Beccaria, come in secoli passati, io sono condannato a morte. Che la condanna sia eseguita, dipende da voi. A voi chiedo almeno che la grazia mi sia concessa; mi sia concessa almeno, come tu Zaccagnini sai, per essenziali ragioni di essere curata, assistita, guidata [che] ha la mia famiglia. La mia angoscia in questo momento sarebbe di lasciarla sola — e non può essere sola — per la incapacità del mio partito ad assumere le sue responsabilità, a fare un atto di coraggio e responsabilità insieme. Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell’interesse della D.C. Pensa ai sessanta giorni cruciali di crisi, vissuti insieme con Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari sotto la tua guida e con il continuo consiglio di Andreotti. Dio sa come mi son dato da fare, per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata per questa come per tante altre imprese. Un allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopo domani. Pensaci soprattutto tu, Zaccagnini, massimo responsabile. Ricorda in questo momento – dev’essere un motivo pungente di riflessione per te – la tua straordinaria insistenza e quella degli amici che avevi a tal fine incaricato – la tua insistenza per avermi Presidente del Consiglio Nazionale, per avermi partecipe e corresponsabile nella fase nuova che si apriva e che si profilava difficilissima. Ricordi la mia fortissima resistenza soprattutto per le ragioni di famiglia a tutti note. Poi mi piegai, come sempre, alla volontà del Partito. Ed eccomi qui, sul punto di morire, per averti detto di sì ed aver detto di sì alla D.C. Tu hai dunque una responsabilità personalissima. Il tuo sì o il tuo no sono decisivi. Ma sai pure che, se mi togli alla famiglia, l’hai voluto due volte. Questo peso non te lo scrollerai di dosso più. Che Dio t’illumini, caro Zaccagnini, ed illumini gli amici, ai quali rivolgo un disperato messaggio. Non pensare ai pochi casi nei quali si è andati avanti diritti, ma ai molti risolti secondo le regole dell’umanità e perciò, pur nelle difficoltà della situazione, in modo costruttivo. Se la pietà prevale, il Paese non è finito.
Grazie e cordialmente
tuo
Aldo Moro
4. Al segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini
Recapitata il 24 aprile 1978. In base alla lettera destinata all’allieva Maria Luisa Familiari, mai recapitata, nota solo in fotocopia e certamente scritta il 23 aprile, la stesura di questo testo è collocabile tra il 22 e il 23 aprile. La data posta in calce («24-4-78») sembra dunque una postdatazione al giorno stesso del recapito; potrebbe tuttavia trattarsi della data dell’ultima lettura e/o parziale riscrittura di una lettera elaborata in più giorni: sono segni di una rilettura — anche a breve termine — le cancellazioni nei fogli 1 («quasi», per evitarne la reiterazione) e 5 («consente», per evitare la reiterazione del verbo “accettare”; «uno stato di detenzione» in sostituzione di «una libertà»); le integrazioni nei fogli 2 («intelligenti») e 3 («ha»). Può essere invece un segno di rilettura il giorno 24 la cancellazione delle parole, qui restituite, «tra domenica e lunedì» (foglio 3) se si dovessero riferire alla domenica 23 aprile, appena passata, e al lunedì, ormai in corso. Segno di parziale riscrittura di pagina è l’incompleto riempimento dei fogli 3 e, in particolare, 6. In tal caso Moro avrebbe lavorato a questo testo fino a poche ore prima del recapito, che avvenne di pomeriggio. Non risulta tuttavia, in nessuna forma, una diversa versione, né totale né parziale, di questa lettera.
Caro Zaccagnini,
ancora una volta, come qualche giorno fa, m’indirizzo a te con animo profondamente commosso per la crescente drammaticità della situazione. Siamo quasi all’ora zero: mancano quasi più secondi che minuti. Siamo al momento dell’eccidio. Naturalmente mi rivolgo a te, ma intendo parlare individualmente a tutti i componenti della Direzione (più o meno allargata) cui spettano costituzionalmente le decisioni, e che decisioni! del partito. Intendo rivolgermi ancora alla immensa folla dei militanti che per anni ed anni mi hanno ascoltato, mi hanno capito, mi hanno considerato l’accorto divinatore della funzione avvenire della Democrazia Cristiana. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con la folla dei militanti. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con gli amici della Direzione del Partito o dei Gruppi parlamentari. Anche negli ultimi difficili mesi quante volte abbiamo parlato pacatamente tra noi, tra tutti noi, chiamandoci per nome, tutti investiti di una stessa indeclinabile responsabilità. Si sapeva, senza patti di sangue, senza inopinati segreti notturni che cosa voleva ciascuno di noi nella sua responsabilità. Ora di questa vicenda, la più grande e gravida di conseguenze che abbia investito da anni la D.C., non sappiamo nulla o quasi. Non conosciamo la posizione del Segretario né del Presidente del Consiglio; vaghe indiscrezioni dell’On. Bodrato con accenti di generico carattere umanitario. Nessuna notizia sul contenuto; sulle intelligenti sottigliezze di Granelli, sulle robuste argomentazioni di Misasi (quanto contavo su di esse), sulla precisa sintesi politica dei Presidenti dei Gruppi e specie dell’On Piccoli. Mi sono detto: la situazione non è matura e ci converrà aspettare. È prudenza tradizionale della D.C. Ed ho atteso fiducioso come sempre, immaginando quello che Gui, Misasi, Granelli, Gava, Gonella (l’umanista dell’Osservatore) ed altri avrebbero detto nella vera riunione, tra domenica o lunedì, dopo questa prima interlocutoria. Vorrei rilevare incidentalmente che la competenza è certo del Governo, ma che esso ha il suo fondamento insostituibile nella D.C. che dà e ritira la fiducia, come in circostanze così drammatiche sarebbe giustificato. È dunque alla D.C. che bisogna guardare. Ed invece, dicevo, niente. Sedute notturne, angosce, insofferenze, richiami alle ragioni del Partito e dello Stato. Mene una proposta unitaria nobilissima, ma che elude purtroppo il problema politico reale. Invece dev’essere chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra (guerra o guerriglia come si vuole), come si pratica là dove si fa la guerra, come si pratica in paesi altamente civili (quasi la universalità), dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente. Perché in Italia un altro codice? Per la forza comunista entrata in campo e che dovrà fare i conti con tutti questi problemi anche in confronto della più umana posizione socialista?
Vorrei ora fermarmi un momento sulla comparazione dei beni di cui si tratta: uno recuperabile, sia pure a caro prezzo, la libertà; l’altro, in nessun modo recuperabile, la vita. Con quale senso di giustizia, con quale pauroso arretramento sulla stessa legge del taglione, lo Stato, con la sua inerzia, con il suo cinismo, con la sua mancanza di senso storico accetta consente che per una libertà che s’intenda negare si accetti e si dia come scontata la più grave ed irreparabile pena di morte? Questo è un punto essenziale che avevo immaginato Misasi sviluppasse con la sua intelligenza ed eloquenza. In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice come primo segno di autentica democratizzazione. Con la sua inerzia, con il suo tener dietro, in nome della ragion di Stato, l’organizzazione statale condanna a morte e senza troppo pensarci su, perché c’è una libertà uno stato di detenzione preminente da difendere. È una cosa enorme. Ci vuole un atto di coraggio senza condizionamento di alcuno. Zaccagnini, sei eletto dal Congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiesciente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza.
E poi, detto questo, io ripeto che non accetto l’iniqua ed ingrata sentenza della D.C. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno. Nessuna ragione politica e morale mi potranno spingere a farlo.
Con il mio è il grido della mia famiglia ferita a morte, che spero possa dire autonomamente la sua parola. Non creda la D.C. di avere chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della D.C. si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore. Cordiali saluti
24-4-78
Aldo Moro
On. Benigno Zaccagnini
P.S. Diffido a non prendere decisioni fuori degli organi competenti di partito.
5. Al partito della Democrazia Cristiana
Recapitata il 28 aprile, fu conclusa il 27 aprile, dato il riferimento intrinseco a un messaggio dei familiari pubblicato il 26 aprile e qui considerato del giorno precedente. Fu però un testo molto elaborato, verosimilmente in più giorni, poiché di questa lettera sono note altre due versioni, una delle quali, nota solo come dattiloscritto e come fotocopia, accompagnata da un biglietto, noto solo come fotocopia, che la descrive come variante più prudente di questa. La terza versione, nota solo in forma dattiloscritta, è da considerarsi una stesura preparatoria. Nelle due varianti non è presente il riferimento al messaggio dei familiari. Inoltre l’uso di inchiostri diversi, due fogli scritti con la seconda penna, nera, non riempiti e uno dei quali non in lineare continuità con il successivo (fogli 5-6); l’uso del secondo inchiostro per l’intestazione (foglio 1) e per la numerazione di alcune pagine scritte con il primo inchiostro, blu (fogli 1, 4, 9), sono il segnale della complessa stesura che dovette comportare la completa sostituzione di alcuni fogli, almeno il 5 e l’8, di cui non sono note le stesure originarie.(2)
Lettera al Partito della Democrazia Cristiana
Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n’era invece tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. È vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lie[to]. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l’onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte.
E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non l’avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons Zama, all’Avv. Veronese, a G.B. Scaglia ed altri, senza né conoscere, né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell’autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse.
Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità? Ma tra le Brigate Rosse e me non c’è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall’inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l’altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall’altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all’uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è prevedibile ce ne siano) è arroccato il Governo, è arroccata caparbiamente la D.C., sono arroccati in generale i partiti con qualche riserva del Partito Socialista, riserva che è augurabile sia chiarita d’urgenza e positivamente, dato che non c’è tempo da perdere. In una situazione di questo genere, i socialisti potrebbero avere una funzione decisiva. Ma quando? Guai, Caro Craxi, se una tua iniziativa fallisse. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l’espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d’immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c’era l’esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava, non s’intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla D.C.? È nella D.C. dove non si affrontano con coraggio i raggio i problemi. E, nel caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avallata dalla D.C., la quale arroccata sui suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a mort[e.] Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sincera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l’equivoca veste di Presidente del Partito, per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù. Son più volte che chiedo a Zaccagnini di collocarsi lui egual idealmente al posto ch’egli mi ha obbligato ad occupare. Ma egli si limita a dare assicurazioni al Presidente del Consiglio che tutto sarà fatto com’egli desidera. E che dire dell’On. Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto, (per così dire libero, comodo, a Piazza del Gesù, ad esempio, del Gesù), direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto l’On. Piccoli. Per parte mia ho detto e documentato che le cose che dico oggi le ho dette in passato in condizioni del tutto oggettive È possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l’esito? Possibile che non vi siano dei coraggiosi che la chiedano, come io la chiedo con piena lucidità di mente? Centinaia di Parlamentari volevano votare contro il Governo. Ed ora nessuno si pone un problema di coscienza? E ciò con la comoda scusa che io sono un prigioniero. Si deprecano i lager, ma come si tratta, civilmente, un prigioniero, che ha solo un vincolo esterno, ma l’intelletto lucido? Chiedo a Craxi, se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammissibile. Se altre riunioni formali non le si vuol fare, ebbene io ho il potere di convocare per data conveniente e urgente il Consiglio Nazionale avendo per oggetto il tema circa i modi per rimuovere gl’impedimenti del suo Presidente. Così stabilendo, delego a presiederlo l’On. Riccardo Misasi.
È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur con le mie tante colpe, credo di avere vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie, dei miei figli, dell’amatissimo nipotino, dell’altro che non vedrò. La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della D.C. a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti né per la D.C. né per il Paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità.
I[o] non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e pregare per me. Se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di Dio.
Ma nessun responsabile si nasconda dietro l’adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto.
Aldo Moro
6. Al funzionario della Camera dei deputati Tullio Ancora
Recapitata il 28-29 aprile 1978. Fu consegnata il giorno 29 dalla signora Eleonora Moro a Tullio Ancora, il quale il 2 maggio la consegnò ufficialmente al procuratore della Repubblica di Roma, Pietro Pascalino. In base alla missiva del 23 aprile destinata all’allieva Maria Luisa Familiari, anche la stesura di questa lettera è databile tra il 22 e il 23 aprile. In calce la nota di ricevuta della Procura della Repubblica di Roma.
Caro Tullio,
un caro ricordo ed un caloroso abbraccio. Senza perdersi in tante cose importanti, ma ovvie, concentrati in questo. Ricevo come premio dai comunisti dopo la lunga marcia la condanna a morte Non commento. Quel che dico, e che tu dovresti sviluppare di urgenza e con il garbo che non ti manca, è che si può ancora capire (ma male) un atteggiamento duro del PCI, ma non si capirebbe certo che esso fosse legato al quadro politico generale la cui definizione è stata così faticosamente raggiunta e che ora dovrebbe essere ridisegnato. Dicano, se credono, che la loro è una posizione dura e intransigente e poi la lascino lì come termine di riferimento.
È tutto, ma è da fare e persuadere presto.
Affettuosamente
Aldo Moro
Dott. Tullio Ancora
Via Livorno 44
Roma
7. Al presidente del Consiglio Giulio Andreotti
Recapitata il 28-29 aprile 1978 e databile tra il 22 e il 23 aprile sulla base della lettera all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile.
Caro Presidente,
so bene che ormai il problema, nelle sue massime componenti, è nelle tue mani, e tu ne porti altissima responsabilità. Non sto a descriverti la mia condizione e le mie prospettive. Posso solo dirti la mia certezza che questa nuova fase politica, se cominci con un bagno di sangue e specie in contraddizione con un chiaro orientamento umanitario dei socialisti, non è apportatrice di bene né per il Paese né per il Governo. La lacerazione ne resterà insanabile. Nessuna unità nella sequela delle azioni e reazioni, sarà più ricomponibile. Con ciò vorrei invitarti a realizzare quel che si ha da fare nel poco tempo disponibile. Contare su un logoramento psicologico, perché son certo che tu, nella tua intelligenza, lo escludi, sarebbe un drammatico errore.
Quando ho concorso alla tua designazione e l’ho tenuta malgrado alcune opposizioni, speravo di darti un aiuto sostanzioso, onesto e sincero. Quel che posso fare, nelle presenti circostanze, è di bene augurare al tuo sforzo e seguirlo con simpatia sulla base di una decisione che esprima il tuo spirito umanitario, il tuo animo fraterno, il tuo rispetto per la mia disgraziata famiglia. Quanto ai timori di crisi, a parte la significativa posizione socialista cui non manca di guardare la D.C., è difficile pensare che il PCI voglia disperdere quello che ha raccolto con tante forzature.
Che Iddio t’illumini e [ti] benedica e ti faccia tramite dell’unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia.
Grazie e cordialmente
tuo
Aldo Moro
On. Giulio Andreotti
Presidente del Consiglio dei Ministri
8. Al sottosegretario del Ministero di grazia e giustizia Renato Dell’Andro
Recapitata il 28-29 aprile e scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile: non è citata nella missiva all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile. La lettera è accompagnata da una busta con il nome del destinatario, scritto con mano diversa da quella di Moro. Sono qui restituite due parole cancellate energicamente.
On. Renato Dell’Andro
Carissimo Renato,
in questo momento così difficile, pur immagin[an]do che tu abbia fatto tutto quello che la coscienza e l’affetto ti suggerivano, desidero aggiungere delle brevi considerazioni. Ne ho fatto cenno a Piccoli e Pennacchinni ed ora lo rifaccio a te, che immagino con gli amici direttamente e discretamente presenti nei dibattiti che si susseguono. La prima riguarda quella che può sembrare una stranezza e non è e cioè lo scambio dei prigionieri politici. Invece essa è avvenuta ripetutamente all’estero, ma anche in Italia. Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra. Lo Stato italiano, in vari modi, dispose la liberazione di detenuti, allo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo Stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi. Io non penso che si debba fare, per ora, una dichiarazione ufficiale, ma solo parlarne di qua e di là, intensamente però. Ho scritto a Piccoli e a Pennacchini che è buon testimone.
A parte tutte le invenzioni che voi saprete fare, è utile mostrare una riserva che conduca, in caso di esito [contradditt confuso], negativo al coagularsi di voti contrari come furono minacciati da De Carolis e altri. Andreotti che (con il PCI) guida la linea dura, deve sapere che corre gravi rischi. Valorizzare poi l’umanitarismo socialista, più congeniale alla D.C. e che ha sempre goduto, e specie in questa legislatura, maggiori simpatie.
Forza, Renato. Crea, fa, impegnati con la consueta accortezza. Te ne sarò tanto grato.
Ti abbraccio
[tuo] Aldo Moro
9. Al presidente del Senato Amintore Fanfani
Recapitata il 28-29 aprile e scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile: non è citata nella missiva all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile.
Onorevole Presidente del Senato,
in questo momento estremamente difficile, ritengo mio diritto e dovere, come membro del Parlamento italiano, di rivolgermi a Lei che ne è, insieme con il Presidente della Camera, il supremo custode. Lo faccio nello spirito di tanti anni di colleganza parlamentare, per scongiurarla di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata, con le adeguate garanzie, un’equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me. Lo spirito umanitario che anima il Parlamento ebbe già a manifestarsi in sede di Costituente, alla quale anche in questo campo ebbi a dare il mio contributo, e si è fatto visibile con l’abolizione della pena di morte ed in molteplici leggi ed iniziative. D’altra parte non sfuggono alle Assemblee né i problemi di sicurezza, che però possono essere adeguatamente risolti, né la complessità del problema politico per il quale non sarebbero sufficienti scelte semplici e riduttive.
Al di là di questa problematica io affido a Lei, Signor Presidente, con fiducia ed affetto la mia persona, nella speranza che tanti anni di stima, amicizia e collaborazione mi valgano un aiuto decisivo, che ricostituisca il Plenum del Parlamento e che mi dia l’unica gioia che cerco, il ricongiungimento con la mia amata famiglia.
Con i più sinceri e vivi ringraziamenti, voglia gradire i miei più deferenti saluti.
Suo Aldo Moro
On. Prof. Amintore Fanfani
Presidente del Senato della Repubblica
10. Al presidente della Camera dei deputati Pietro Ingrao
Recapitata il 28-29 aprile e scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile: non è citata nella missiva all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile.
Onorevole Presidente della Camera,
in questo momento estremamente difficile, ritengo mio diritto e dovere, come membro del Parlamento italiano, di rivolgermi a Lei che ne è, insieme con il Presidente del Senato, il supremo custode. Lo faccio nello spirito di tanti anni di colleganza parlamentare, per scongiurarla di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata con le adeguate garanzie, un’equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me. Lo spirito umanitario che anima il Parlamento ebbe già a manifestarsi in sede di Costituente, alla quale anche in questo campo ebbi a dare il mio contributo e si è fatto visibile con l’abolizione della pena di morte ed in molteplici leggi ed iniziative. D’altra parte non sfuggono alle Assemblee né i problemi di sicurezza, che possono però essere adeguatamente risolti, né la complessità del problema politico per il quale non sarebbero sufficienti scelte semplici e riduttive.
Al di là di questa problematica io affido a Lei, Signor Presidente, con fiducia ed affetto la mia persona, nella speranza che tanti anni di stima, amicizia e collaborazione mi valgano un aiuto decisivo che ricostituisca il Plenum del Parlamento e che mi dia l’unica gioia che cerco, il ricongiungimento con la mia amata famiglia.
Con i più sinceri e vivi ringraziamenti, voglia gradire i miei più deferenti saluti.
Suo Aldo Moro
On. Pietro Ingrao
Presidente della Camera dei deputati
11. Al presidente della Repubblica Giovanni Leone
Recapitata il 28-29 aprile e scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile: non è citata nella missiva all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile.
Alla stampa, da parte di Aldo Moro, con preghiera di cortese urgente trasmissione al suo illustre Destinatario. Molti ringraziamenti
All’On. Prof. Giovanni Leone
Presidente della Repubblica Italiana
Faccio vivo appello, con profonda deferenza, al tuo alto senso di umanità e di giustizia, affinché, d’accordo con il Governo, voglia rendere possibile un’equa e umanitaria trattativa per scambio di prigionieri politici, la quale mi consenta di essere restituito alla famiglia, che ha grave e urgente bisogno di me. Le tante forme di solidarietà sperimentate t’indirizzino per la strada giusta.
Ti ringrazio profondamente e ti saluto con viva cordi[a]lità
Aldo Moro
12. Al Presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati Riccardo Misasi
Recapitata il 28-29 aprile e databile tra il 22 e il 23 aprile sulla base della lettera all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile.
Carissimo Riccardo,
un grande abbraccio e due parole per dirti che mi attendo, con l’eloquenza ed il vigore che ti sono propri, una tua efficace battaglia a difesa della vita, a difesa dei diritti umani, contro una gretta ragion di Stato. Tu sai che gli argomenti del rigore, in certe situazioni politiche, non servono a nulla. Si tratta di ben altro che dovremmo sforzarci di capire. Se prendi di petto i legalisti, vincerai ancora una volta. Non illudetevi d’invocazion[i] umanitarie Vorrei poi dirti che, se dovesse passarsi, come ci si augura, ad una fase ulteriore, la tua autorità ed esperienza di Presidente della Commissione Giustizia, dovrebbero essere, oltre che per le cose in generale che interessano, preziose per alcuni temi specifici che tu certo intuisci.
Grazie e tanti affettuosi saluti.
Aldo Moro
On. Avv. Riccardo Misasi
13. Al presidente del Comitato parlamentare per il controllo sui servizi di informazione e di sicurezza e sul segreto di Stato Erminio Pennacchini
Recapitata il 28-29 aprile e scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile: non è citata nella missiva all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile. In calce la nota di ricevuta della Procura della Repubblica di Roma, del 2 maggio 1978.
On. Erminio Pennacchini
Carissimo Pennacchini,
ho avuto sempre grande stima di te, per tutto, ma soprattutto per la cristallina onestà. È quindi naturale che in un momento drammatico mi rivolga a te per un aiuto prezioso che consiste semplicemente nel dire la verità. Dirla, per ora, ben chiara agli amici parlamentari ed a qualche portavoce qualificato dell’opinione pubblica. Si vedrà poi se ufficializzarla.
Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a disinnescare. L’analogia, anzi l’eguaglianza con il mio doloroso caso, sono evidenti. Semmai in quelle circostanze la minaccia alla vita dei terzi estranei era meno evidente, meno avanzata. Ma il fatto c’era e ad esso si è provveduto secondo le norme dello Stato di necessità, gestite con somma delicatezza.
Di fronte alla situazione di oggi non si può dire perciò che essa sia del tutto nuova. Ha precedenti numerosi in Italia e fuori d’Italia ed ha, del resto, evidenti ragioni che sono insite nell’ordinamento giuridico e nella coscienza sociale del Paese. Del resto è chiaro che ai prigionieri politici dell’altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato Terzo.
Ecco, la tua obiettiva ed informata testimonianza, data ampiamente e con la massima urgenza, dovrebbe togliere alla soluzione prospettata quel certo carattere di anomalia che taluno tende ad attribuire ad essa. È un intermezzo di guerra o guerriglia che sia, da valutare nel suo significato. Lascio alla tua prudenza di stabilire quali altri protagonisti evocare. Vorrei che comunque Giovannoni fosse su piazza. Ma è importante è che tu sia lì, non a fare circolo, ma a parlare serenamente secondo verità. Tra l’altro ricordi quando l’allarme ci giunse in Belgio? Grazie per quanto dirai e farai secondo verità. La famiglia ed io, in tanta parte, dipendiamo da te, dalla tua onestà e pacatezza.
Affettuosamente
Aldo Moro
14. Al presidente del gruppo parlamentare della Dc Flaminio Piccoli
Recapitata il 28-29 aprile e databile a partire dal pomeriggio del 23 aprile. Nella lettera all’allieva Maria Luisa Familiari del 23 aprile non è citata questa lettera, ma un’altra missiva indirizzata a Piccoli, mai recapitata e nota come dattiloscritto e come fotocopia.
On. Flaminio Piccoli
Presidente Gruppo D.C.
occorrendo puoi parlare anche di me
Caro Piccoli,
non ti dico tutte le cose che vorrei per brevità e per l’intenso dialogo tra noi che dura da anni. Ho fiducia nella tua saggezza e nel tuo realismo, unica antitesi ad un predominio oggi, se non bilanciato, pericoloso. So che non ti farai complice di un’operazione che, oltre tutto, distruggerebbe la D.C. Non mi dilungo, perché so che tu capisci queste cose. Aggiungo qualche osservazione per il dibattito interno che spero abbia giuste proporzioni e sia da te responsabilmente guidato. La prima osservazione da fare è che si tratta di una cosa che si ripete come si ripetono nella vita gli stati di necessità. Se n’è parlato meno di ora, ma abbastanza, perché si sappia come sono andate le cose. E tu, che sai tutto, ne sei certo informato. Ma, per tua tranquillità e per diffondere in giro tranquillità, senza fare ora almeno dichiarazioni ufficiali, puoi chiamarti subito Pennacchini che sa tutto (nei dettagli più di me) ed è persona delicata e precisa. Poi c’è Miceli e, se è in Italia (e sarebbe bene da ogni punto di vista farlo venire) il Col. Giovannoni, che Cossiga stima. Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero pos state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente. Uguale il vantaggio dei liberati, ovviamente trasferiti in Paesi Terzi. Ma su tutto questo fenomeno politico vorrei intrattenermi con te, che sei l’unico cui si possa parlare a dovuto livello. Che Iddio lo renda possibile.
Naturalmente comprendo tutte le difficoltà. Ma qui occorrono non sotterfugi, ma atti di coraggio. Dopo un po’ l’opinione pubblica capisce, pur che sia guidata. In realtà qui l’ostacolo è l’intransigenza del partito comunista che sembra una garanzia. Credo sarebbe prudente guardare più a fondo le cose, tenuto conto del più duttile atteggiamento socialista cui fino a due mesi fa andavano le nostre simpatie. Forse i comunisti vogliono restare soli a difendere l’autorità dello Stato o vogliono di più. Ma la D.C. non ci può stare. Perché nel nostro impasto (chiamalo come vuoi) c’è una irriducibile umanità e pietà. Una scelta a favore della durezza comunista contro l’umanitarismo comunista socialista sarebbe contro natura. Importante è convincere Andreotti che non sta seguendo la strada vincente. È probabile che si costituisca un blocco di oppositori intransigenti. Conviene trattare.
Grazie e affettuosamente
Aldo Moro
Note
(1) Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2009, n. 7, pp. 16-18.
(2) Per gli altri testi, cfr. Ibid., nn. 83-85, pp. 146-155; su questa lettera cfr. inoltre M. Mastrogregori, La lettera di Aldo Moro al Partito della Democrazia cristiana. Costruzione del documento, punto di vista dell’ostaggio e storia del sequestro, in Nuovi studi sul sequestro Moro, a cura di M. Mastrogregori, in «Storiografia», 2009, n. 13, pp. 9-69.
Aldo Moro. Le lettere di Aldo Moro dalla prigionia alla storia. A cura di Michele Di Sivo. Roma, Mura, 2013. – Fonte: Direzione Generale degli Archivi
Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro
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Foto in evidenza tratta dal sito Pickline