“La gentilezza è una cosa rara, perché è un mondo aggressivo a tutti i livelli. Gentilezza è quella che c’era una volta. Probabilmente non ai tempi dei nostri nonni ma dei nostri papà c’erano persone gentili. Io credo di essere una persona gentile, ma lo credo solamente; non so se nella realtà sono una persona gentile.”
“Lei pensa di essere un fotografo gentile?”
“Bella domanda! Penso di essere un fotografo, né gentile, né non gentile. In certe situazioni si è più gentili, direi quasi romantici e in altre si è molto più duri, secondo cosa si fa. Quando ho fotografato nei manicomi ero drammaticamente poco gentile perché ero in un ambiente completamente ostile ai poveri degenti e quindi ero molto poco gentile nei confronti di chi li torturava. Erano proprio dei lager. Anche quando ho fatto i due libri degli zingari ero gentile con loro. Io sono quasi sempre gentile con chi fotografo.”
“Quando si rapporta con un soggetto – mi parlava degli zingari e dei degenti dei manicomi – c’è un accordo tra lei e il soggetto, nel senso che lei è al servizio del soggetto oppure aspetta il soggetto e poi scatta?”
“Dipende se condivido le idee di chi fotografo: il più delle volte le condivido e quindi mi comporto allo stesso modo in cui si comportano con me. No, assolutamente non faccio mai mettere in posa. Ho in archivio 1 milione e 500 mila fotografie e solo 5 sono state create di sana pianta. Naturalmente se faccio dei ritratti non metto il soggetto in posa ma voglio che mi guardi. Ma sono indicazioni che do solo se faccio dei ritratti e io ne faccio pochissimi. Fotografo soprattutto figure ambientate e reportage (…)
“Qual è secondo lei una bella fotografia, quando vede una bella scena e si dice “questa la fotografo”?”
“Non credo nelle belle fotografie. Di belle fotografie se ne fanno tante, ma sono completamente inutili, sempre secondo me. Dicono che io pontifico, ma io dico solo quello che penso. Una volta dicevo anch’io “che bella fotografia”, poi una volta sono stato da Ugo Mulas che mi mostrava i suoi scatti – io ero appeno agli inizi, ero molto giovane – e continuavo a dirgli “che bella questa fotografia”, “questa è bellissima”. Più io commentavo entusiasta in questo modo, più lui si alterava. A un certo momento mi ha detto: “Se dici ancora che è bella una mia fotografia, io ti caccio fuori”. Io ero imbarazzatissimo perché ero giovane e lui era già Ugo Mulas. Allora gli ho chiesto: “Scusi Maestro, ma cosa devo dire per dire che le sue fotografie sono belle. E Mulas mi ha risposto: “Non devi dire che sono belle, ma devi dire che sono buone”. Ma tra me e me pensavo che bella o buona più o meno fosse la stessa cosa. “No”, mi spiegò: “Belle sono fotografie esteticamente perfette, ben composte, che però non dicono niente. Una buona fotografia racconta e dice delle cose, comunica qualcosa. Anche la bella fotografia comunica, ma comunica cose inutili”. Da allora non ho detto più “bella fotografia” ma “buona fotografia”. (…)
“Quando siamo entrati in casa stava suonando della musica francese. Qual è il suo rapporto con la musica, che musica ascolta?”
“Amo il jazz, ma voi avete sentito canzoni in francese. Nel ‘54 ho vissuto due anni a Parigi e sono rimasto molto legato alla cultura d’Oltralpe anche se ai miei tempi le letture non erano francesi. Come i giovani della mia epoca, durante il fascismo, non potevamo leggere gli autori americani e quando c’è stata la liberazione – anche per moda – noi tutti abbiamo letto Steinbeck, Dos Passos, Hemingway. Poi sono stato quei due anni a Parigi e mi sono innamorato della Francia e di Parigi. So bene che c’è una grossa differenza fra la Francia e Parigi, ma quando ho scoperto la campagna, anni dopo, questo amore è aumentato. A me piace la lingua, di questi cugini d’oltralpe. Mi piace il loro modo di vivere, più semplice, meno artefatto del nostro. In quei due anni ho frequentato moltissimo Boubat, Doisneau e, soprattutto, Willy Ronis. Molti anni dopo anche Henri Cartier-Bresson che però era già un dio, quasi irraggiungibile. Invece con Boubat, Doisneau e soprattutto con Ronis, abbiamo avuto un grande amicizia. La mia fotografia è stata molto influenzata da quei fotografi, soprattutto agli inizi. Mi dicono spesso che sono il Cartier-Bresson italiano, in realtà sono il Willy Ronis italiano, anche se una delle cose di cui più mi vanto è la dedica in cui Henri Cartier-Bresson mi scrive: “A Gianni Berengo Gardin con simpatia e ammirazione”. Avere l’ammirazione di Cartier-Bresson è il massimo, poi si può morire in pace.”
“Il rapporto fra uomo e natura.”
“Non lo so, francamente. Io amo molto la natura ma non in fotografia. Amo vivere la natura, non fotografarla. Sono forse una bestia di città. Fin da piccolo ho sempre amato la città più della campagna, però quando posso vado nel verde. Noi abbiamo una piccola casa a Camogli, con un giardino, ed è una lotta continua fra me e mia moglie perché lei vuole i fiori, mentre io odio i fiori e amo il verde. Per me la natura è verde, non sono i fiori.”
“Se le proponessero un reportage in un luogo deputato alla scienza?
“Quando mi sono trasferito da Venezia, il primo lavoro che mi hanno offerto era all’istituto del cancro. Sono andato e ho visto sei, sette topini inchiodati a una tavola di legno, con la pancia aperta e ancora vivi. Sono svenuto di colpo e ho detto mai più. Certo questo è un aneddoto, ma per quanto trovi la scienza vitale per l’uomo, è troppo lontana da me. Mi interessa di più la vita dell’uomo e quello che c’è davanti e dietro. Il rapporto con l’umanità credo sia per un fotografo più importante.”
“Nella mostra che ospitiamo a Torino ci sono tantissimi baci…”
“Quando ero giovane in Italia era proibito baciarsi in pubblico, ti potevano arrestare per oltraggio al pudore. Così, quando sono arrivato a Parigi, dove tutti si baciavano continuamente, sono diventato un guardone. Mi sembrava così strano che la gente potesse baciarsi dovunque: in strada, in autobus, in treno, che ero invidioso e avido di rubare queste fotografie di baci e la sensibilità per i baci mi è un po’ rimasta attaccata, come se fosse ancora proibito farlo in pubblico, mentre adesso per strada ne fanno di tutti i colori, anche troppo oltre il bacio. Ma l’idea romantica del bacio rubato, mi è comunque rimasta, come una volta, quando i baci si rubavano e questo mi interessava moltissimo.”
“Nelle foto che esponiamo a Torino ci sono anche molti viaggi: in treno, in carrozzina per i bambini, in auto, in bici. È come se le sue città fossero città in viaggio verso il benessere e la velocità ma ancora umane.”
“Io sono di un’altra epoca. Non è che contesti il computer o i mezzi moderni – anche se scrivo ancora a macchina, con due dita – ma questa accelerazione della vita, in tutti i suoi campi, non mi sembra utile all’uomo. Certo è utile, ma ci massacra. Con un gruppo di colleghi abbiamo addirittura fatto un’associazione che si chiama Slow photo, perché anche in fotografia bisogna andare con calma. Qua a Milano c’è una pubblicità di una grande produttrice di macchine digitali che dice: “Non pensare, scatta!”. Io quando insegno dico ai ragazzi: “Prima pensa e poi, casomai, scatta”. Non bisogna mai scattare a caso. È proprio un altro modo di concepire la fotografia, ma anche la vita. Tutti sono padroni di fare quello che vogliono, sia chiaro, ma anche io faccio quello che ancora voglio. E a me piace la lentezza. Il digitale ha cambiato secondo me la mentalità del fotografo, perché tanto scatti, scatti, scatti e poi quello che non ti piace lo cancelli, mentre il resto salvi con Photoshop. Ormai non sappiamo più se sono foto vere o se sono create. Non sappiamo se un’immagine è vera o taroccata e questo è un pericolo gravissimo per la fotografia, perché la maggior parte della gente quando vede una fotografia crede ancora che si tratti di una cosa avvenuta. Ultimamente a Parigi ho visto una foto bellissima di sei persone che vanno per strada, tutte col giornale sottobraccio, e credevo fosse stata fatta col digitale, ma non era così: era una fotografia vera! Adesso abbiamo il dubbio che tutto sia taroccato. In America e anche in Francia stanno studiando un sistema per obbligare a mettere un codice che indichi se la foto è autentica, oppure no. A me va bene anche una foto costruita in digitale ma deve essere dichiarato perché una foto in digitale è un’immagine, non più una fotografia. L’artificio, la costruzione di una fotografia va bene per la pubblicità. L’altro giorno ho visto una signora che fa la réclame a una pomata di bellezza. Nella fotografia non aveva una ruga, poi l’ho vista al naturale, a un’inaugurazione, ed era tutta una ragnatela di rughe. Non capisco con che coraggio si adattino, pur di guadagnare dei soldi, a fare la pubblicità per una crema che non usano e si fanno taroccare loro.”
“Qual è il suo rapporto con il viaggio?”
“Io viaggio con uno zainetto. Ormai faccio solo più viaggi di una settimana, al massimo. Giro in Italia e al massimo in Francia. E quindi porto solo l’indispensabile. Da ragazzo, invece, ho girato molto e dovrei fare un monumento a mia moglie perché ha tirato su egregiamente i nostri due figli, mentre io sono stato un padre sempre assente. Gli ha fatto da madre e da papà, in modo eccezionale. E poi agli inizi ho fatto anche molta gavetta e mi è stata sempre molto vicina, aiutandomi in tutte le occasioni. Devo essere molto riconoscente alle donne in genere e a mia moglie in modo particolare. Conosco molto bene l’India, il Canada, l’Australia mentre non conosco per niente l’Africa e il Sud America. L’Africa per capirla bisogna starci tanto e non mi piacciono i lavori che escono sull’Africa dai colleghi mentre il Sud America, mi piace molto come ambiente, ma non ho avuto occasione di andarci. Mi hanno offerto di starci una settimana, ma non capisci un paese in una settimana.”
“Quando è in vacanza, fotografa?”
“Non ho mai fatto un viaggio che non fosse di lavoro. Io lavoro sempre. Faccio un lavoro che mi piace, mi diverte, mi interessa e per di più mi pagano: cosa voglio più dalla vita! (…)”
“No, niente. Né animali né bambini. I bambini non è che non li fotografi per via della legge sulla privacy, ma perché sono sempre tropo sdolcinati. E non fotografo signore, in assoluto, perché non gli vanno mai bene le mie fotografie. Ho fotografato Anna Magnani perché abitavamo nello stesso palazzo. Ero amico con suo figlio che aveva un handicap. Andavamo a giocare a casa sua così quando ho iniziato a fotografare ho ritratto la Magnani. Un giorno, mentre le facevo delle foto, eravamo vicino a una finestra e le ho chiesto se potevamo spostarci perché c’era una luce troppo dura che le sottolineava le rughe. Lei mi ha risposto: “Queste rughe me le sono conquistate, una alla volta, e voglio che si vedano tutte!”. Non ho avuto più parole. Da allora faccio pochissimi ritratti mentre mi piacciono le figure ambientate, dove le persone sono riprese da lontano. Il ritratto però, a parte tutto, non è comunque il mio genere. Io amo raccontare una storia, come mi ha insegnato il mio amico Koudelka. Sono molto amico con lui e con Salgado e da Koudelka ho imparato che in una fotografia ci deve essere sempre qualcosa da raccontare. Non bisogna mai fotografare qualcuno impalato, come si usa adesso. Una foto deve raccontare, come ho imparato da Koudelka, mentre da Salgado ho imparato che il contenuto deve andare di pari passo con la forma. Poi, se devo scegliere fra una foto formale e una di contenuto, io scelgo sempre quella di contenuto, ma se a una fotografia di contenuto aggiungiamo la forma, allora diamo più notizie e facilitiamo la lettura dell’immagine. Le due cose dovrebbero quasi sempre andare insieme, anche se il contenuto, per me, resta più forte.”
“Lei ormai è un modello: cosa le preme dire ai suoi allievi?”
“Mah, non ho indicazioni da dare. Ognuno trova la sua strada. Io trovo che oggi sia molto più difficile rispetto alla mia epoca. Noi eravamo nel momento del boom, c’era tanto lavoro per tutti, oggi è molto più dura, soprattutto per iniziare, ma io credo che se si hanno delle idee, prima o poi, ce la si farà lo stesso. Non ho insegnamenti da dare perché non ho la presunzione di essere un artista, e non ci tengo a esserlo. Sono un fotografo, ho fatto bene il mio lavoro. Tutto qui.”
Carola Benedetto, da “Intervista a Gianni Berengo Gardin”