“Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta”
Adam Zagajevskij
“È un momento in cui i discorsi pubblici su argomenti astratti da parte di chi, come me, scrive in russo, mi sembrano inopportuni.
Da sei mesi non riesco a non pensare neanche per un’ora alla guerra che l’esercito russo ha iniziato la mattina del 24 febbraio su ordine del governo russo. Non ci sono scuse per questa guerra, che non è solo un’onta indelebile per tutti i cittadini russi, compresi quelli che vi si oppongono, ma lo è anche per le persone che, se pur vivono all’estero da decenni, continuano a parlare e scrivere nella loro madrelingua. Personalmente vivo da trent’anni all’estero e non ho sensi di colpa nei confronti dell’Ucraina, a meno che per responsabilità non s’intenda che la mia lingua madre è la stessa in cui vengono ordinate le uccisioni e le distruzioni – anche se la stessa lingua è parlata e continua ad essere scritta da una parte non trascurabile di coloro che sono sotto attacco, ma sicuramente svanirà in quei luoghi con il tempo insieme ai suoi portatori.
La guerra è ragionare in bianco e nero e chi, come me, si ritrova per forza assegnato al campo nero per il semplice fatto di essere nato in un certo luogo, deve chiudere un occhio su tutte le possibili magagne provenienti dal campo bianco. In ogni caso, finché la guerra continuerà, finché le città distrutte non saranno ricostruite, finché coloro che hanno perso i loro cari saranno ancora vivi, anche il miglior russo, o quello che è considerato tale, rimarrà un orco agli occhi della maggior parte degli ucraini. E molti, anche gli amici che li aiutano e li sostengono nella vita privata, che sono conosciuti per il loro dissenso e che magari a livello genealogico e per la loro storia familiare sono più ucraini di loro, saranno evitati nello spazio ufficiale come se avessero addosso un’uniforme insanguinata dell’esercito della federazione russa.
Cos’altro ci si può aspettare se da otto anni dura una guerra coloniale che sta letteralmente cercando di cancellare l’Ucraina come stato dalla mappa del mondo?
Se la patria è madre, allora mia madre è una serial killer. O forse è stata presa in ostaggio, è una vittima di violenza domestica? La sua volontà comunque è asservita alle forze oscure. Non ha saputo ribellarsi. E poi non è un po’ troppo comodo pensare di essere una vittima che annuisce a un burattinaio? E se vogliamo parlare di responsabilità, forse anche io avrei dovuto parlare con più sicurezza e a voce più alta di come sono state coltivate certe tendenze, direi delle fissazioni imperialiste, condividere non solo con gli amici più stretti le mie premonizioni di lunga data su questa guerra, ricordare di continuo che la Russia ha iniziato la guerra in Georgia nel 2008 e si è impadronita di una parte del suo territorio, parlare della guerra cecena in cui l’esercito russo ha dato prova di crudeltà e sadismo senza precedenti, ricordare che la Russia ha bombardato città civili in Siria, che nel 2014 ha annesso un territorio dell’Ucraina, di un altro paese sovrano, che…
Ma non si sapeva forse già? Non sono stati pubblicati i libri di Anna Politkovskaja in tutto il mondo, compresa l’Italia? Non accadeva tutto di fronte al mondo intero? Già nel 2004 il politico Boris Nemzov avvisava della possibile dittatura di Putin, ed è stato ucciso nel 2015, anche lui. E quanti giornalisti, politici, perfino ex agenti di KGB. Gli affari però sono molto più importanti della graduale perdita di varie libertà dei cittadini di un paese e delle sue aggressioni verso gli altri. Il gas, il petrolio, il denaro.
Un piccolo editore italiano non molto tempo fa era felice di farsi fotografare accanto a Putin che lui riteneva grande, e la rispettabilissima Università Ca’ Foscari ha conferito una laurea honoris causa a un ministro dell’Istruzione della Federazione russa senza talento, che tra l’altro era stato beccato nel plagiare la sua tesi di laurea. Così, come si può vedere, sto cercando di spalmare un po’ la responsabilità, e perfino le colpe (che gravano giustamente sui russi) sul mondo, almeno quello occidentale. Con questo non voglio dire che ci sono due verità, ma vorrei ricordare che questa guerra non è solo l’ennesima sconfitta del mondo russo, ma anche in parte di quello occidentale.
Le grandi sconfitte sono fatte anche dalle storie personali. Mio nonno materno è nato a Kharkov, in ucraino Kharkiv, il mio bisnonno a Kiev, anche se, come la mia bisnonna, ha vissuto tutta la vita a Kharkov, che all’epoca era il capoluogo dell’Ucraina. Il mio bisnonno era un artista e un fotografo. Dilettante, perché per il suo rango doveva essere al servizio dello stato. Creava lanterne magiche per le quali vinceva premi nazionali e internazionali e insegnava il disegno anche gratuitamente, faceva dei corsi aperti per i giovani perché credeva che l’uomo che ama l’arte non potrà mai diventare cattivo. Era nato nel 1871, e come si sbagliava! Dopo la Rivoluzione non poté più fare ciò che amava. Il suo laboratorio fu espropriato e distrutto selvaggiamente. Suo figlio, mio nonno, si trasferì a Mosca, dove all’epoca viveva mia nonna, e nel 1930 fu arrestato come anarchico-mistico. Dopo la prigione fu mandato in Kirghizistan, dove, in un posto che non esisteva sulla mappa, nacque mia madre. La guerra separò mio nonno e mia nonna. Lei e mia madre, all’inizio dell’invasione tedesca dell’URSS, si trovavano in Bielorussia, dove mia nonna insegnava inglese alla scuola ufficiali. Questo la salvò quando riuscì a salire sull’ultimo treno in partenza da Kalinkovichi insieme ai futuri ufficiali, all’inizio dell’agosto del 1941. Il treno fu bombardato durante il tragitto, ma riuscì a giungere, anche se non nella sua interezza, in territorio libero. Il 21 agosto i tedeschi entrarono in città. A metà settembre, a tutti gli ebrei fu ordinato di trasferirsi nell’area a loro destinata, il ghetto. Il 20 settembre fu detto loro di indossare i loro abiti migliori e di attendere gli ordini. Il 21 settembre furono caricati su un camion e portati alla stazione ferroviaria da dove, appena un mese prima, era passato il treno che aveva portato via mia nonna e mia madre. C’era un lungo fossato vicino alla ferrovia. Ed è lì che venivano gettate le persone morte e talvolta ancora vive. I camion effettuarono 12 viaggi. In un solo giorno furono uccise 700 persone. Soprattutto bambini, donne e anziani. La maggior parte degli uomini di giovane e media età erano al fronte. La sera furono portate le forze per ricoprire la fossa. E secondo le testimonianze, lì c’erano ancora persone vive. Nei mesi successivi gli ebrei rimasti furono braccati con l’aiuto della polizia locale e sterminati. Secondo gli ultimi dati, il numero delle vittime del genocidio a Kalinkovichi è di 812 persone. Mia nonna e mia madre sarebbero potute essere tra loro. Mia nonna era ebrea. Non per religione, come a volte si intende in Italia, ma per nazionalità, perché in URSS non c’era più la religione, ma la nazionalità invece era correttamente registrata in tutti i documenti, quindi i tedeschi non erano gli unici a tenere le liste. Oggi mia nonna e mia madre si trovano nelle liste della Shoah come sopravvissute. Ma per i tedeschi questo massacro era solo “un’azione”, la chiamavano ufficialmente così. Non vi ricorda forse una certa “operazione speciale”?
Mio nonno fu nuovamente arrestato dopo la guerra, nel ’47, e inviato nel Gulag, dove visse fino alla metà del 1953. Tuttavia, anche dopo il rilascio, non gli fu permesso di vivere nelle grandi città, e nemmeno nel raggio di cento chilometri da esse. Per molto tempo mia madre non ha saputo che suo padre era vivo. Per caso, da uno sconosciuto, scoprì che era un nemico del popolo e non un eroe di guerra come aveva pensato, e quando finalmente, dopo la morte di Stalin, venne a Leningrado per vederla, lei non volle comunicare con lui. Mio nonno è morto solo, lontano dalla famiglia.
Se per mia nonna il 1930 fu l’anno dell’incarcerazione improvvisa e della condanna di suo marito, il 1931 toccò a suo fratello. Era vicedirettore di una fabbrica di tabacco in Crimea, fu arrestato il 6 febbraio dalla OGPU, cioè dalla Direzione politica di Stato generale della Crimea, e condannato come appartenente all’organizzazione controrivoluzionaria di sabotaggio. Il 23 luglio 1931 il consiglio della stessa inquietante OGPU lo esiliò dalla Crimea. Per tutta la vita portò il marchio del condannato, e anche dopo la morte di Stalin dovette passare da un lavoro all’altro, ringraziando chi trovava il coraggio di assumerlo. È stato riabilitato solo il 17 luglio 1990 dalla Procura dell’Oblast’ di Crimea, ormai dopo la sua morte. Non sapevo nulla di queste storie di famiglia, finché un giorno, già adulta, non le ho scoperte per caso. Nella nostra società non si facevano troppe domande ai parenti. La mia è la storia di molti altri.
Sono stati decimati, quasi eliminati interi popoli dell’URSS, dieci di loro hanno subito la deportazione. Così, ad esempio, nell’agosto del 1947 in soli due giorni circa 200 000 tatari di Crimea furono costretti a lasciare il loro luogo nativo. Li trasportarono nei vagoni di bestiame e di merci, e quasi la metà non arrivò mai alle terre destinate loro dal governo.
Come in Italia dopo la guerra, in Russia negli anni ’90 è stata fatta poca luce su questi fatti e tantissima gente che comandava durante l’URSS, e in alcuni casi era complice dei crimini, ha continuato ad essere ai vertici o ha trasmesso il potere ai figli e ai nipoti.
Durante gli anni sovietici si è verificata una disumanizzazione generale della popolazione. Il risultato lo possiamo osservare oggi, leggendo, ascoltando, vedendo le notizie sugli orrori di Bucia, Irpen’, Elenovka e tanti altri.
Poco prima di questa guerra avevo programmato di andare a Kharkov, la città dei miei antenati, di cui cercavo di sapere qualcosa da diversi anni. Non lontano dal luogo di nascita di mio nonno c’è una bella cittadina chiamata Chuguyev, dove si trova la casa-museo di un importante pittore, Ilya Repin, che nacque in Ucraina ma lavorò tutta la vita in Russia ancora prima della Rivoluzione d’Ottobre. In quel museo erano stati trovati alcuni documenti legati alla mia famiglia, e la direttrice del museo desiderava incontrarmi. La sera del 24 febbraio, in una giornata in cui tutto stava già precipitando fin dal primo mattino, ho letto la notizia dell’uccisione di un ragazzo di 14 anni a Chuguyev. A sei mesi dall’inizio della guerra siamo ormai abituati alla morte dei bambini. In quel momento mi è sembrato impossibile, assurdo, folle, e improvvisamente ho sentito che ancora una volta avevo perso i miei parenti, l’opportunità di ripristinare la storia.
Molte persone in Russia hanno radici o parenti in Ucraina. Purtroppo, un gran numero di russi corrosi dalla propaganda non capisce perché i parenti ripetano quello che loro ritengono falsità, fake news: attacchi missilistici, violenze da parte dei soldati russi, rifugiati, migliaia di morti.
In questo stesso tempo molte persone, fra le quali tanti miei amici, si sono ritrovate sparse per il mondo: in Armenia, Georgia, Turchia, a Berlino hanno trovato le loro case temporanee. Sono fuggiti nei primi giorni della guerra dal terrore, dalla paura delle minacce, dall’impossibilità di continuare a essere se stessi, lasciando le loro case, le comodità, il lavoro e i loro cari. Altri, che negli anni avevano sempre partecipato alle manifestazioni antigovernative, sono rimasti – non per indifferenza o consenso alla guerra, ma per comprensibili motivi familiari, così com’è comprensibile il loro timore di finire in una terribile prigione russa. Del resto oggi in Russia tante persone oneste cercano di fare quello che possono, ed è già nata una guerriglia di resistenza. Tutti i miei amici si muovono nei limiti delle loro possibilità per assicurarsi che l’Ucraina vinca questa guerra, perché, per quanto paradossale possa sembrare, è l’unica opportunità di libertà anche per la Russia di oggi.
Durante e dopo la seconda guerra mondiale, a molti sembrò impossibile continuare a scrivere. Tuttavia, alcuni iniziarono, o continuarono a farlo, affinché la memoria non tradisse i morti e testimoniasse contro gli assassini. Prevedo quindi una nuova fioritura della letteratura ucraina, che ha già prodotto testi di grande valore.
All’epoca non furono però solo le vittime e i vincitori a scrivere. Fortunatamente, anche alcuni autori tedeschi alzarono la voce contro la Germania nazista. Thomas Mann, che chiamava Tolstoj e Dostoevskij i suoi maestri, disse durante il suo discorso del 1945 La Germania e i tedeschi, presso la Biblioteca del Congresso di Washington: “Non esistono due Germanie, quella del bene e quella del male, esiste solo una Germania, le cui migliori qualità, sotto l’influenza di un’astuzia diabolica, sono diventate il male personificato. La Germania malvagia è una Germania buona che ha sbagliato strada, si è messa nei guai, ha sguazzato nei crimini e ora sta affrontando una catastrofe. Ecco perché è impossibile per un uomo nato tedesco rinunciare completamente alla Germania cattiva, carica di colpe storiche, e dire: Io sono la Germania buona, nobile, giusta; guardate, indosso un vestito bianco. E vi consegno il maligno”.
Anche la vittoria su un nemico, sul male nazista, ha aumentato nella Russia la mania di grandezza, e anche se la vittoria apparteneva a tanti popoli dell’URSS, solo il popolo russo è stato presentato come l’artefice principale. L’idea che quello russo sia un popolo prescelto, il fratello maggiore che può guardare dall’alto in basso gli altri popoli, la bugia secondo cui la Russia è circondata dai nemici – tutto questo non può non portare all’imminente sconfitta.
Sconfitta, perdita, lutto – in questo momento è quello che io auguro alla Russia e ai suoi cittadini. Purtroppo anche chi non è stato un complice dovrà bere questo calice amaro, e tutta la cultura russa sarà passata al vaglio e ridiscussa mettendone in luce i fantasmi imperialisti – un passo necessario forse, lo spero, per la sua rinascita. Questa nuova sconfitta sarà più ovvia, più marcata, più fatale di tante altre che ha vissuto la Russia e che hanno prodotto grandissimi testi di Pushkin, Tolstoj, Cechov, Dostoevskij, Mandelshtam, Cvetaeva, Achmatova, Blok, Andrej Belyj. A partire da oggi dovremo riflettere ed evidenziare le tendenze nocive per noi stessi e per gli altri, a lungo presenti nella cultura russa, poi in quella russo-sovietica e di nuovo in quella russa. Certamente non propongo di bandire i poeti e gli scrittori senza i quali non possiamo immaginare il pensiero mondiale e l’uomo moderno, non invito a rinunciare alla complessità. E né Dostoevskij né tantomeno Gogol potranno mai scrivere in ucraino. Dobbiamo solo aguzzare l’occhio per vedere in ogni vittoria una possibile sconfitta, senza dimenticare che in Russia è sempre stata presente la tradizione della critica antipatriottica, scritta da chi aveva a cuore il proprio paese. Parlare apertamente delle sconfitte e delle ferite, a partire da Alexandr Radishev, i decabristi, Anton Cechov con il suo Sachalin, Saltykov-Shedrin, Korolenko e Tolstoj, che scrivevano articoli infuocati contro il caso Bejlis, un ebreo accusato di bere il sangue di bambini cristiani, fa parte della tradizione intellettuale russa. Anche Maxim Gorkij, Solzhenizyn e Anna Politkovskaija incarnano questa tradizione.
Per questo oggi vedo nella sconfitta della Russia una possibile purificazione, una rinascita, forse, un giorno, una nuova poesia. Non so se la guerra italiana in Etiopia abbia prodotto tutto questo. A primo vista sembra di no, anche se i 275.000 etiopi uccisi dovrebbero creare un’eterna insonnia. La guerra fatta dal tuo paese, soprattutto se è ingiusta, non può non lasciare tracce. Gli aguzzini e le vittime, gli osservatori, gli ignari e i negazionisti, in qualche modo sono e saranno toccati tutti. E poiché la cultura russa fa parte della cultura europea, questa sconfitta sarà sentita anche al di fuori della lingua russa. La sentirete anche voi.
Tutte le parole comunque oggi sono vane di fronte alle sofferenze del popolo ucraino e vorrei ricordare tutti i loro morti in questi 6 mesi con un minuto di silenzio.”
Roma, 15 agosto 2022: Discorso pronunciato dalla poetessa e scrittrice russa Alexandra Petrova, in occasione della consegna di un premio di poesia