Era nato in un paesino della Bretagna e (naturalmente) aveva per forza padre e madre, ma sono sicuro che non li conobbe mai, oppure che non pensò mai a loro e che in qualche momento arrivò perfino a considerarsi auto-generato, figlio del caso, come certi organismi selvatici, dalla parvenza granitica, resistenti a qualsiasi avversità e di condizione molto fragile. Sebbene la traduzione del suo nome – P’tit Pierre – sia Pierino, nel suo caso dovrebbe essere “piccola pietra” (così con le minuscole), visto che proprio quello era stato P’tit Pierre lungo la sua vita quando io lo incontrai, laggiù a Parigi: un sasso, un ciottolo, una piccola pietra vagabonda senza cognome, né storia, né ambizioni.
Era sempre vissuto bazzicando nelle stradine del Quartiere Latino a Parigi, senza dimora conosciuta, praticamente all’aria aperta, guadagnandosi la vita come “bricoleur“. La parola gli veniva a pennello: uomo tuttofare, lavoratore – orchestra, capace di sturare tubi e camini, di piastrellare androni, modificare tetti, rammendare anticaglie e di trasformare soffitti sconquassati in graziosissime
“garçonières“. Ma, questo sì, operaio capriccioso e super libero, che fissava il prezzo dei suoi lavori secondo la simpatia o antipatia che provava per i clienti e che non si faceva scrupoli a scomparire senza preavviso, a metà compito, nel caso di annoiarsi di quello che stava facendo.
Ignorava il valore del danaro ed era sempre senza un soldo, perché tutto quello che guadagnava lo dilapidava subito pagando i conti degli amici, in una sorte di “potlach” (scambio, donazione, offerta, ndr).
Disfarsene quanto prima di quello che aveva era per lui poco meno di una religione.
L’ho conosciuto grazie alla mia amica Nicole, vicina di quartiere. La doccia incassata della mia soffitta cadeva a pezzi e per lavarmi ogni mattina dovevo fare equilibrismo e contorsioni. Mi disse Nicole: «La soluzione è P’tit Pierre». L’aveva scoperto da poco ed era incantata perché P’tit Pierre, con abilità e ingegno straordinari, aveva incominciato a trasformare magicamente il suo piccolo bagno in un lussuoso tempio per abluzioni e altri piaceri. P’tit Pierre venne nella mia soffitta, esaminò la mia doccia e l’umanizzò con una frase che lo dipingeva con precisione: «La guarisco io».
Siamo diventati amici. Lui era magro, sciatto, con una chioma di capelli ricci che non aveva mai visto un pettine e un paio di occhi azzurri errabondi. Nicole viveva insieme ad un ragazzo spagnolo, coinvolto come lei nel mondo del cinema, e P’tit Pierre li svegliava la mattina con cornetti freschi appena usciti dal forno all’angolo di strada. Lavorava fino a mezzogiorno nel bagno messalinesco e poi veniva a svegliare me. Scendevamo insieme per mangiare un panino presso Le Tournon e lì ho iniziato a conoscere la spensierata esistenza che portava avanti, dormendo dove lo sorprendeva la notte, in pianerottoli, saloni, poltrone e tappeti di qualcuno dei suoi innumerevoli amici, nelle cui case rimanevano sparsi i pochi capi di vestiario e gli strumenti del suo lavoro che costituivano tutto il suo capitale.
Mentre io scrivevo, lui faceva risuscitare la mia doccia, o frugava tra le mie cose senza il minimo imbarazzo, o si metteva a disegnare pupazzi che dopo strappava. A volte spariva per giorni interi o anche settimane, e quando ricompariva, sempre il solito, ridente e cordiale, io scoprivo le insolite avventure da lui vissute senza che però lui le considerasse affatto importanti, come fossero semplici rituali della normalità. Così venni a sapere che era vissuto in un accampamento di zingari e che in un’altra occasione l’avevano arrestato perché aveva fatto il bagno nudo nella Senna, una mattina all’alba, insieme a una banda di ragazzi e ragazze che avevano formato una comunità. Ma lui era troppo individualista per sperimentazioni promiscue e non rimase a lungo nel gruppo.
Qualche volta intratteneva caritatevoli rapporti amorosi con le padrone delle case che dipingeva, con signore cioè nelle quali, senz’altro, la sua aria sperduta stimolava l’istinto materno. Andava a letto con loro per simpatia o per compassione, non per interesse: ho già detto che P’tit Pierre era un curioso individuo privo di ambizione e di calcolo.
Un giorno arrivò da me con una bambina che sembrava appena uscita da un asilo nido. Era un suo vecchio amore, di modo che quando P’tit Pierre l’aveva sedotta, lei andava ancora gattoni (esagero un po’). Vissero insieme, e più tardi la bambina fuggì con un vietnamita. Ora era tornata a casa dei genitori e stava per finire la scuola. P’tit Pierre la portava fuori ogni tanto per farle prendere una boccata d’aria.
Quando alcuni mesi più tardi la mia doccia fu finalmente riparata, P’tit Pierre si rifiutò di farmi pagare. Abbiamo continuato a frequentarci, nei “bistrots” del Quartiere Latino, spesso con lunghi intervalli. Una sera ci siamo incontrati per strada e la mia amica Nicole, arrossendo, mi diede questa notizia: «Lo sai che vivo insieme con P’tit Pierre?».
Io non mi sono meravigliato più di tanto perché ho sempre avuto il sospetto che P’tit Pierre fosse innamorato della magnifica Nicole. Ma come era avvenuta la sostituzione di ruoli? Come era stato promosso P’tit Pierre da portatore di cornetti per Nicole e il suo uomo spagnolo a sostituto di questi? La mia teoria era che il fattore decisivo non fossero stati i morbidi cornetti, bensì il bagno, meraviglia delle meraviglie, recinto di soli cinque metri quadri in cui l’immaginazione (e l’amore) di P’tit Pierre aveva concentrato specchi, piastrelle, ornamenti, porcellane, recipienti, vestiari, con una raffinatezza babilonica e un equilibrio cartesiano. Tutti gli amici del “quartier” assicuravano che il rapporto di quella ragazza piccolo – borghese, colta e ricca, con l’artigiano semianalfabeta e deliquescente non sarebbe durato molto. Invece io, con la mia incorreggibile vocazione romantica, scommettevo che sì, sarebbe durato. Mi sono sbagliato soltanto in parte, poiché ho indovinato che quegli amori non erano convenzionali ma inaspettati e drammatici. Mi sono arrivate le loro notizie parzialmente e in tempi diversi, per sentito dire, perché poco dopo che Nicole e P’tit Pierre si sono messi insieme io ho dovuto lasciare Parigi. Ci sono tornato dopo diversi anni, e nel considerare il destino delle persone conosciute insieme a un casuale interlocutore, son venuto a sapere che la coppia era imboscata nei labirinti dell’amore-passione: si disfaceva e si rifaceva soltanto per disfarsi di nuovo. Qualcuno, una volta, da qualche parte, mi domandò: «Ti ricordi P’tit Pierre? Sapevi che è diventato matto? È rinchiuso da parecchio tempo in un manicomio della Bretagna».
È stata la notizia del ricovero – e la relativa violenza – che mi lasciò piuttosto scettico. Perché se la pazzia è la rottura della normalità, P’tit Pierre non era mai stato un uomo assennato. Da prima ancora di avere dominio della ragione, lui era vissuto – come il suo predecessore Gavroche, il monello de “I miserabili” – contravvenendo ai buoni costumi, alla morale codificata, ai valori umani e, molto probabilmente, alle leggi. Ma qualsiasi sintomo di aggressività fisica nei confronti del suo prossimo mi sembrava inconcepibile in lui. Io non avevo mai conosciuto un essere più buono, più disinteressato, accondiscendente e generoso di P’tit Pierre. Chi poteva convincermi che quel ragazzo per il quale sembrava inventato il bel termine «nefelibata» – sognatore, che vive fra le nuvole – poteva diventare un pazzo furioso?
Sono passati un altro bel po’ di anni senza avere altre notizie sue, quando ad un tratto, in uno scalo tra due voli, all’aeroporto di Madrid, una figura mi chiuse la strada aprendo le braccia. «Non mi riconosci? Amico, sono il tuo vicino del Quartier Latin?». Era il cineasta spagnolo ex-compagno di Nicole. Così grosso e canuto che facevo fatica ad associarlo con lo smilzo legionense che quindici anni prima si scompigliava in pregiudizi carpetovetonici (in senso lato, stranieri, ndr) ogni volta che la sua ragazza francese faceva cenno di pagare il conto. Ci siamo abbracciati e siamo andati a prendere un caffè.
Lui andava a Parigi ogni tanto, anche se per niente al mondo sarebbe tornato a viverci, quella città non era più nemmeno l’ombra di quello che era stata. E si vedeva con Nicole? Sì, qualche volta, erano sempre buoni amici. E come stava lei? Molto meglio, si era ripresa molto bene. Era stata malata Nicole? Come, io non sapevo quello che era successo? No, proprio niente, secoli che nessuno mi dava notizie di Nicole. Lui mi diede le informazioni, e anche di P’tit Pierre verso cui – lo poteva giurare – non aveva mai serbato rancore per il fatto di essersi preso la sua ragazza.
La faccenda del manicomio era vera e anche quella della furia. Ma non contro gli altri, era chiaro che P’tit Pierre era incapace di fare male a una mosca. A se stesso, invece, sì. Era già ricoverato da un po’ di tempo in Bretagna quando a Nicole fecero sapere che P’tit Pierre si era procurato una sega elettrica con la quale si era orribilmente mutilato. Le visite di Nicole lo turbavano e quindi fin quando non ci fosse stato un miglioramento del suo stato d’animo, i medici le vietarono di andare a trovarlo.
Settimane, mesi o anni dopo, la clinica avvisò Nicole che P’tit Pierre era scomparso. Le ricerche risultarono infruttuose. A quel punto, credo, Nicole si era rifatta la sua vita, come si dice, aveva migliorato la sua posizione e aveva trovato un nuovo compagno. Immagino che al momento di vendere il suo appartamento del Quartier Latin, il ricordo di P’tit Pierre dovesse essere già qualcosa di remoto. Il fatto è che uno degli eventuali compratori si accanì nel curiosare nella vasta soffitta che scorreva sopra la camera da letto, il bagno e la cucina. È stata lei che lo vide per prima? È stato l’eventuale compratore? Il corpo di P’tit Pierre si dondolava impiccato tra le ragnatele e la polvere, appeso a una delle travi. Come mai era riuscito ad arrivare fin lì senza essere visto? Da quanto tempo era lì, morto? Non c’era stata forse una puzza che denunciava il suo cadavere?
L’aereo stava per partire e non sono riuscito a fare al cineasta spagnolo neanche una delle domande che mi pulsavano in testa. Se dovessi ritrovarlo, magari in un altro aeroporto, non gliele farò nemmeno. Non voglio sapere altro di P’tit Pierre, quel sassolino del Quartiere Latino che seppe aggiustare la mia doccia.
Scrivo questa storia per vedere se così mi libero della sua maledetta ombra di impiccato che a volte mi fa svegliare nella notte tutto sudato.
Mario Vargas Llosa, da “Contro vento e marea”, 2015
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