“Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”.
Alcide Cervi
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Ai fratelli Cervi, alla loro Italia
“Ai fratelli Cervi,
alla loro Italia.
In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti,
che ripetono il mondo
in sogni,
saggi di malizia e ladri
di sapienza.
Anche nella mia patria ridono
sulla pietà,
sul cuore paziente,
la solitaria
malinconia dei poveri.
E la mia terra è bella
d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d’antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi,
le reliquie d’amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani.
Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell’isola lontana.
E il ramo d’ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte
e ridono i nemici
familiari.
Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d’amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.
Nel mio cuore finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d’amore,
e anche questa è una lettera d’amore,
alla mia terra.
Scrivo ai fratelli Cervi
non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani
dei campi.
Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.
Non sapevano soldati filosofi poeti
di questo umanesimo di razza contadina.
L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.”
Salvatore Quasimodo, “Ai fratelli Cervi, alla loro Italia”
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“Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata:
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.
Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi:
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore?
Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d’Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.”
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Nel 1934, la famiglia Cervi arriva al podere di Campirossi, tra Caprara e Praticello. I Cervi sono una famiglia di radici cattoliche, molto sentite soprattutto dalla madre, Genoeffa Cocconi. Il padre, Aldo, già attivista dell’azione cattolica e del Partito Popolare, è il primo ad abbracciare il comunismo e ad infondere in tutta la famiglia forti convinzioni antifasciste, tanto che casa Cervi diventa ben presto un rifugio per i partigiani feriti e per i prigionieri fuggiti dalle carceri fasciste. Fra questi ultimi ci sono due soldati dell’Armata Rossa, Anatolij Tarassov e Viktor Pirogov, che in seguito avrebbero scritto un libro sulla famiglia Cervi, Sui monti d’Italia.
Nel 1943, la “banda Cervi” sale in montagna insieme agli altri partigiani, per poi tornare, poco tempo dopo, ai Campirossi, allo scopo di mantenere i contatti con i nuclei partigiani in via di formazione, di nascondere le armi e di diffondere volantini e opuscoli clandestini.
Il 25 novembre del 1943, i fascisti circondano la casa; i sette fratelli vengono catturati e portati nel carcere politico dei Servi, a Reggio Emilia, insieme al padre Alcide che non ha voluto abbandonarli.
Il 28 dicembre, i sette fratelli Cervi vengono fucilati per rappresaglia. Il padre, in seguito al bombardamento alleato dell’8 gennaio del 1944, si vede aprire una via di fuga dal carcere di San Tommaso, dove era stato trasferito, e solo al suo ritorno a casa apprende dalla moglie la notizia della morte dei figli.
Il 10 ottobre del 1944, i fascisti tornano a dar fuoco alla casa dei Cervi, già in parte distrutta l’anno prima e nella quale erano rimasti due vecchi, quattro donne e undici bambini. Un mese dopo, il 14 novembre, muore Genoeffa Cocconi, stroncata da un infarto.
“Genoeffa quando vide le fiamme, risentì quella notte, quegli spari, quei figli con le mani alzate nel cortile, e gli addii, e il furgone che parte. Così cadde di colpo e il cuore non resse, le era venuto l’infarto. Rimase a letto un mese [..] morì il 14 novembre, senza avere conoscenza“. (Alcide Cervi, da I miei sette figli)