“Il mio nome, El Saadawi, è il nome di mio nonno […] Non l’ho conosciuto, è morto prima che io nascessi.
Ma ho conosciuto mia nonna, Al-Hajja Mabrouka, che noi chiamavamo Sittil Hajja.
Era una donna molto forte. Era il capo del villaggio.
Era analfabeta e lavorava nei campi.”
Nawal el Sa’dawi
Nawal nasce in Egitto nel 1931, in una società patriarcale che impone a lei, come a tante altre donne, l’orrore dell’infibulazione.
“Mi tagliarono via qualcosa tra le cosce.”
E, a farlo, è un’altra donna, la “daya”, la donna del rasoio.
“Sentivo dire […] che molto prima che io nascessi le neonate venivano sepolte vive. Fossi nata a quell’epoca sarei stata una di quelle neonate. Questo mi dicevano quando avevo quattro anni. Ma i miei erano tempi migliori. Quando veniva alla luce una bambina non le si faceva niente. Semplicemente la vita si fermava, semplicemente la gente era triste.”
Continua a ribellarsi, giorno dopo giorno, a quelle tradizioni che umiliano e vessano le donne. Vorrebbe essere libera di studiare, di laurearsi, di non essere consegnata da un uomo in balìa di un altro uomo.
“Quando mi ribellavo nei loro occhi si manifestava l’odio. Negli occhi di tutti ma non in quelli di mia madre: i suoi, mentre mi osservava combattere le mie battaglie, luccicavano di orgoglio e felicità. Di tanto in tanto mi lanciava un’occhiata di complicità e mi sussurrava all’orecchio parole d’incoraggiamento”.
“Quando eravamo bambine, ci fermavamo su alcuni versi dell’Antico Testamento e del Corano, che dicevano che le mestruazioni sono qualcosa di cattivo, che le donne dovrebbero stare separate, che dovrebbero essere purificate […] il mio dubbio riguarda ebraismo, cristianesimo e islam, fin da quando ero alle scuole elementari con le mie amiche Isis e Sarah. […] leggevamo i tre libri sacri, l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sebbene fossimo giovanissime, quei libri non ci convincevano, sentivamo che lì le donne venivano disprezzate.”
Grazie al sostegno della madre, ce la fa a realizzare il suo sogno: riesce a studiare, arriva all’Università, si laurea in medicina col massimo dei voti, diventa psichiatra, ma non per questo si esime dal partecipare alle lotte politiche.
“I tre anni dal 1949 al 1951 furono radicali, molto importanti, perché la rivoluzione giunse grazie alle dimostrazioni. Ricordo che in quei tre anni al Cairo, […], ero per strada quasi tutti i giorni: dimostrazioni contro il re, contro gli inglesi, contro la schiavitù, contro la povertà. Tanti studenti venivano uccisi; molti miei colleghi della facoltà di Medicina furono uccisi per le strade.”
Nel 1981 viene arrestata per le sue idee e per le sue battaglie politiche: l’accusa è di crimini contro lo Stato, ma quando viene rilasciata, fonda “The Arab Women’s Solidarity Assocation”, la prima organizzazione legale femminista.
La sua attività e le sue idee la portano nel mirino dei fondamentalisti islamici, che la condannano a morte. L’Associazione viene chiusa e lei finisce di nuovo in carcere.
Quando viene finalmente rilasciata, non le rimane che prendere la via dell’esilio per tentare di sfuggire alla condanna che incombe sulla sua testa.
Ottiene una cattedra presso la “Duke University’s Asian and African Languages Department”, in North Carolina, ma in Egitto le sue opere continuano ad essere vietate.
“Viviamo in un mondo dominato dallo stesso sistema oppressivo; il sistema capitalista, imperialista, religioso, razzista, militare e patriarcale. Prima o poi ci libereremo. Non perderemo mai la speranza perché la speranza è potere”.
Non riuscirà mai a dimenticare tutto quello che cercavano di inculcarle in testa con da bambina:
“Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni […]. Poi essa resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue […]. Ma, se partorisce una femmina, sarà immonda due settimane […]; resterà sessantasei giorni a purificarsi dal suo sangue” (Levitico, 12,2-5).
Il doppio! Dunque, ricordo che da bambine dicevamo: “Ma come? Se mia madre è incinta e partorisce me, femmina, deve purificarsi per sessantasei giorni, ma se partorisce mio fratello deve purificarsi soltanto per trentatré giorni!”. E così ridevamo, e loro dicevano: “Questa è la parola di Dio”, ma noi non eravamo convinte: “Come può Dio pensare in questo modo?”. Poi nell’Antico Testamento si dice anche che la donna dovrebbe sacrificare un agnello o altra carne e offrirla a Dio, per essere “purificata dal flusso del suo sangue” (Levitico, 12,6-7).
E noi dicevamo: “Ma che relazione c’è tra uccidere un agnello o un pollo o un’anatra e offrirli a Dio, per purificarsi del sangue?”.
Non aveva senso. Non ha senso. E non avrà mai senso.
Non perderemo mai la speranza perché la speranza è potere”.
Nawal el Sa’dawi, militante femminista, psichiatra, docente, scrittrice