Cara Maria,
stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un’angoscia leggera leggera, non più che un’ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po’ di nevrosi: ma oggi in te ‘era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata ‘adoperata’ (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare.
Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà ‘intera’ per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più ‘intera’ ancora. Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so.
Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l’intera, intatta luminosità. C’è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi esprimo in termini un po’ incomprensibili. Ma a questo ci vuol poco a mettere rimedio: sono un po’ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le ‘Visioni della Medea’: in queste condizioni di emergenza, devi avere un po’ di pazienza con me, e cavarmi un po’ le parole con la forza. Ti abbraccio.