Pensieri

In nome della madre

17.12.2022
“Il genere maschile è invidioso della potenza femminile di generare.
Si è ritagliato per sé il potere, la guerra, la politica, spazi di governo minori di fronte all’immensità di fare nascere.
Il femminile riproduce l’opera della creazione, l’uomo ne è l’appendice. Nella scrittura sacra si danno casi di gravidanze salve dal contributo maschile. Isacco, Sansone, Gesù sono celebri nascite inseminate.
A volte l’uomo non è servito neanche a quello.
Il più invidioso fu Socrate che volle usurpare l’opera femminile. In greco “maieutica” è l’arte della levatrice. Se l’attribuì dicendo che lui aiutava gli uomini a partorire qualche idea, un pensiero. Chiamò maieutica la sua filosofia. Che misera riduzione del termine: in campo maschile generava un po’ d’aria riscaldata, una flatulenza cerebrale.
Nascere è lavoro di donne. E’ il travaglio di due vite che si separano per riafferrarsi subito, per attaccarsi e riparare il taglio con abbracci, succhiate. L’ombelico è il nodo di sutura del distacco più violento, una cicatrice irreparabile. Resta fuori da questa forza la natura dell’uomo, a lui spettano i paraggi di una protezione, di un sostegno, di una provvidenza.
Questo, fermato da uno schizzo di luce sopra un fotogramma, è il tempo delle madri. Scorre da età infinita in mezzo al loro cerchio. E’ frutto di espulsione, di forze addominali che scacciano all’aperto a boccheggiare nella miscela di azoto e ossigeno, verso mani che estraggono dallo spalancamento il grido e affanno e schianto di sollievo, a capofitto, a occhi chiusi, a sangue dappertutto e sia benedetta l’ora di arrembaggio della vita, l’ora del più sfrenato dei tumulti.
Nessuna morte è dura come il punto di nascere. Ecco le madri, le levatrici, la macchina che rinnova il mondo, indifferente a guerre, terremoti, incendi, cataclismi.
Niente la ferma, niente l’ha fermata. Opera a catapulta, scaraventa vita nel pianeta, consola e dispera, strappa e aggiunge, e attraverso di lei siamo l’umanità.”
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Emya Photography
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“Ho tagliato il cordone, un solo taglio, ho fatto il nodo del sarto e ho strofinato il suo corpo in acqua e sale. Eccolo finalmente. L’ho palpato da tutte le parti fino ai piedi. L’ho annusato e per conferma gli ho dato una leccatina. “Sei proprio un dattero, sei più frutto che figlio”. Ho messo l’orecchio sul suo cuore, batteva svelto, colpi di chi ha corso a perdifiato. Al poco lume della stella l’ho guardato, impastato di sangue mio e di perfezione. “Somigli a Iosef”. Così ho voluto vederlo. “Tuo padre in terra è un uomo coraggioso, tu gli assomiglierai”. Mi sono stesa sotto la coperta di pelle e l’ho attaccato al seno.
Il bue ha muggito piano, l’asina ha sbatacchiato forte le orecchie. E’ stato un applauso di bestie il primo benvenuto al mondo di Ieshu, figlio mio. Non ho chiamato Iosef. Gli avevo promesso un figlio all’alba ed era ancora notte. Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio: voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Stanotte qui a Bet Lèhem è solamente mio. Succhiava e respirava, la mia sostanza e l’aria: “Non potrai avere niente di più bello di questo, bimbo mio. Il respiro di una notte di kislev scarsa di luna te l’offre la tua terra d’Israele, il succo di madre-pianta lo spremi tu da me. Questo è il meglio che potremo darti, la tua terra e io”.
Erri De Luca, da “In nome della madre”, 2006
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Nell’immagine: Opera di Dusanka Petrovic

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