Una sciarpa di seta turchese, lunga e stretta, con delicati ricami in oro e argento a forma di farfalle. Da perderci delle ore a guardarla, immaginando di essere in un’altra dimensione, dove le farfalle sono vive e battono lentamente le ali.
Avevo undici anni e cercavo un regalo di compleanno per mia madre. Per mia mamma, che nei momenti di sconforto la mia voce chiamava spesso mammina.
Era un ventoso sabato di fine marzo, una settimana prima di Pasqua, e faceva freddo. Avevo passato in rassegna tutti i negozi in centro a Strykersville. Non Woolworth’s, e tanto meno Rexall’s Drugs o Norban’s Discount, dove dopo la scuola scorrazzavano gruppi di ragazzine, ma posti più “chic”, dove la maggior parte di noi non metteva mai piede, e quelle poche volte con le rispettive madri.
Dopo mesi e mesi, ero riuscita a mettere da parte, in gran segreto, otto dollari e sessantacinque centesimi, che tenevo gelosamente in un calzino raggrinzito in un cassetto in camera mia. Le banconote adesso erano nella tasca della mia giacca, piegate accuratamente. Una somma sufficiente, credevo, per un regalo davvero speciale. Non stavo nella pelle, e già immaginavo la sorpresa negli occhi di mia madre quando avrebbe aperto il pacchetto. Sarebbe stata la mia ricompensa. Poiché non c’era niente di più delizioso del modo in cui mamma strizzava gli occhi col suo volto senza rughe e ancora giovane (l’età dei miei genitori era un mistero che non osavo indagare, anche se erano entrambi sulla trentina, “giovani” rispetto alla maggior parte di quelli delle mie amiche) e diceva, col suo tono caldo e sommesso, come se fosse un segreto tra noi due: “Oh, tesoro, che cosa hai fatto!…”
E io volevo accendere quella luce negli occhi di mia madre, quella lieta sorpresa. E per questo volevo farle un regalo che fosse non solo una cosa comprata in un negozio, ma anche un’offerta d’amore. Un talismano. Il regalo perfetto è un incantesimo contro la sofferenza, la paura, la solitudine; contro la malinconia, la vecchiaia, la morte e l’oblio. Il regalo che dice: Ti amo, sei la mia vita.
Che avessi otto o ottanta dollari, volevo spenderli tutti per il regalo per mia madre. Versare ogni centesimo in modo che la transazione fosse sacra. Ero convinta, infatti, che questo gruzzolo accumulato di nascosto dovesse essere sacrificato interamente all’autorità apposita, che risiedeva in uno dei negozi “chic” di Strykersville, e non altrove. E così mi sentivo investita di una missione; avevo una luce strana negli occhi, e il mio corpicino era spinto da una bramosia che vinceva ogni mia istintiva timidezza o imbarazzo.
Ovviamente venivo vista con sospetto dalle commesse inamidate – o, meglio, dalle “signore” – che lavoravano in quei negozi, e che dovevano mantenere un certo standard. Più erano cerimoniose, e più erano diffidenti. Visitai parecchi negozi in uno stato di cecità e di sgomento; non facevo in tempo a varcare la soglia che una brusca domanda mi faceva capire che avevo commesso un errore: “Si? Posso aiutarti?”
Alla fine mi trovai in mezzo a una serie di vetrine scintillanti in cui erano appesi, come carcasse di animali, stupendi oggetti di pelle. Il parquet scricchiolava colpevolmente sotto i miei piedi. Come avevo osato entrare da Kenilworth’s Ladies Fashion, dove neanche mamma andava mai? Quale raffica di vento mi aveva spinto, come una mano maliziosa? La commessa, stretta nel corsetto, una crocchia ispida sulla nuca e una bocca vermiglia volta all’ingiù, controllava ogni mio movimento tra i banconi. “Posso esserti d’aiuto, signorina?” chiese con voce fredda e scettica. Mormorai che stavo solo guardando. “Sei venuta per comprare o per guardare?” Mi sentivo avvampare come se fossi stata appesa a testa in giù. Questa donna non si fidava di me! Eppure ero una brava scolara, una di quelle che prendono sempre i voti più alti e che sono le cocche degli insegnanti, anche se non per questo meritano di essere disprezzate. Ma qui, da Kenilworth’s, sembrava che non fossi degna di fiducia. Forse sembravo vagamente una ragazza di colore, dato che avevo i capelli neri sospettosamente ricci e torti come cordicelle bagnate, e con la tendenza ad aggrovigliarsi sfidando la ragionevolezza di qualunque pettine. Avevo la pelle olivastra, non del bianco latteo che sfoggiava la commessa incipriata. Ero una ragazza povera, sgraziata, timida, e pertanto disonesta, una a cui bastava girarsi un istante che si tramutava in una piccola taccheggiatrice infingarda. Come gli zingari. Che non c’erano, nella cittadina di Strykersville, nello Stato di New York, ma se ci fossero stati, mi avrebbero subito presa per una di loro, con la mia pelle scura, gli occhi ingannatori e gli stivali di gomma malandati.
Per mia sfortuna, non c’erano altri clienti in quel momento, e così la commessa poteva concentrare tutta la sua astiosa attenzione su di me. E solo per non avere richiesto la cortesia ossequiosa con cui si serve il vero cliente. D’altra parte non ero una “cliente” ma solo un’intrusa. Crede che sia qui per rubare, il pensiero si impose dentro di me come una notizia sentita alla radio. Che vergogna provai, e che risentimento. Eppure quanto mi sarebbe piaciuto rubare, in quel momento; far scivolare qualcosa — qualunque cosa! – nelle mie tasche: un borsellino di pelle, una borsettina con le perline, un fazzoletto di lino irlandese col pizzo. Ma non ne avevo il coraggio; ero una brava ragazza, che anche quando era insieme alle sue compagne non rubava mai neanche un rossetto da quattro soldi, un fermaglio dorato, o uno di quei portachiavi che c’erano da Woolworth’s, con i volti estatici di Jane Russell, Linda Darnell, Debra Paget e Lana Turner. E così rimasi paralizzata, sotto lo sguardo della commessa: bloccata tra la consapevolezza del mio desiderio più profondo (fino a quel momento a me sconosciuto), e quella dell’inutilità di tale desiderio. Vorrebbe che rubassi, ma non posso, e non voglio.
“E’ per mia madre,” dissi con un filo di voce. “Un regalo di compleanno. Quanto costa… questa?” Stavo guardando delle sciarpe. I prezzi di certi oggetti – i borsellini, le borse, perfino i guanti e i fazzoletti – erano così assurdamente alti, che il mio cervello si rifiutava di registrarli. Le sciarpe, credevo, sarebbero state più abbordabili. E ce n’erano di stupende, che guardavo a bocca aperta, quasi rapita. Bisogna sapere che non erano sciarpe pratiche e banali di flanella, come quelle che portavo per quasi tutto l’inverno, strettamente annodate sotto il mento; sciarpe che tenevano calde le orecchie e il collo, e a posto i capelli; sciarpe che nel peggiore dei casi – che era anche il più frequente – sembravano bende avvolte attorno alla testa. Queste, invece, erano opere d’arte. Di seta, o di lana molto sottile; bizzarramente lunghe, o triangolari; o quadrate, enormi, con le frange – forse quelli erano scialli. A disegni cachemire o a fiori. Sottili come garza, decorate con giunchiglie gialle o audaci tulipani rossi, impalpabili come quei sogni di soverchiante dolcezza che, quando ci svegliamo e cerchiamo di portarceli dietro, si sbriciolano e si disintegrano come ragnatele. Alla cieca indicai – di toccarla non se ne parlava neanche – la più bella di tutte: turchese, di seta, con un disegno delicato in oro e argento che non riuscivo a decifrare. La commessa mi scrutò attraverso le lenti dei suoi occhiali bifocali e disse, in tono di rimprovero: “Quella sciarpa è di pura seta cinese. Quella sciarpa costa…” Fece una pausa, come se si fosse accorta di me solo in quel momento. Forse aveva percepito la mia agitazione. Forse era solo pietà. Forse era uno di quei momenti imprevedibili e incomprensibili che, a rari intervalli, segnano la parabola delle nostre vite con una grazia gratuita. Con un tono di voce più sommesso e gentile, anche se con un residuo di fastidio adulto, la commessa disse: “Costa dieci dollari. Più le tasse.”
Dieci dollari. Come incantata, cominciai a estrarre macchinalmente i miei risparmi, le sei banconote da un dollaro sgualcite e poi le monete da cinque e da dieci centesimi, l’unico quarto di dollaro e i numerosi pennies, contandoli con scrupolo come se non sapessi il totale. “… Volevo dire otto dollari,” disse la commessa irritata. “E’ stata ribassata a otto dollari per i saldi di Pasqua.” Otto dollari! Balbettai: “La… la prendo. Grazie.” Mi sentivo così sollevata che quasi svenivo. Ma sorridevo vittoriosa. Non potevo credere alla mia fortuna anche se, con egoismo infantile, non avevo mai smesso di dubitarne.
Porsi ansiosa i miei soldi alla commessa, che tutta impettita batté il mio acquisto con impazienza, come se l’avessi messa in imbarazzo; come se dopotutto non fossi un’intrusa, lì da Kenilworth’s, ma una sua parente che non desiderava riconoscere. Mentre metteva la sciarpa in una scatola e la avvolgeva con fare spiccio in un’allegra carta rosa con la scritta BUON COMPLEANNO!, osai alzare il mio sguardo, e con una certa sorpresa mi accorsi che la commessa non era vecchia come pensavo – non doveva avere molti anni più di mia madre. Aveva i capelli sottili, di un castano che si stava ingrigendo, raccolti in una crocchia arcigna; la faccia pesantemente truccata, ma non per questo carina. Quando mi porse il pacchetto in un sacchetto a strisce argentate, mi disse, corrucciata: “È pronta da dare a tua madre. Ho tolto il prezzo.”
Mia madre insiste: “A me non serve più, cara. Ti prego, prendila tu.” Stiamo rovistando armadi e cassetti della vecchia casa che presto sarà venduta a estranei. “Non voglio che vada persa. Se mi dovesse succedere qualcosa,” dice con la voce calma e melodiosa che maschera il tremolio delle mani.
Ogni volta che torno a casa, mia madre ha qualcosa da darmi. Oggetti un tempo preziosi, che risalgono a un passato sempre più remoto e sfuggente. Quale sia il significato segreto di tale prodigalità da parte di una donna di ottantatré anni, non lo chiedo.
Mia madre parla spesso di perdita. Teme la perdita di documenti, polizze assicurative, esami medici. La perdita è un baratro senza fondo, in cui sono già scomparsi, a uno a uno, fratelli, sorelle, e un bel numero di amici. E papà? E già passato un anno? Quello che le rimane da vivere, è diventato per lei misterioso come un sogno incessante e indefinito, senza la brutale interruzione della lucidità; e ogni mattina, quando si sveglia, si chiede: Dov’è andato papà? Allunga la mano e non c’è nessuno accanto a lei. Sarà in bagno, si dice. E quasi le sembra di sentirlo. Più tardi pensa: È fuori. E quasi sente il tagliaerba. Oppure pensa: Ha preso la macchina. Ed è andato. Dove?
“Eccola qua! Guarda!”
In fondo a un cassetto nel comò della camera da letto, mia madre ha trovato quello che cercava con tanto impegno. Questo pomeriggio mi ha già dato un anello con un’ametista, che era di sua suocera, e una presina cucita a mano, quasi impercettibilmente bruciacchiata. E adesso apre una lunga scatola piatta. In mezzo alla carta velina, c’è la sciarpa di seta turchese con le farfalle pallide.
Per un attimo rimango ammutolita. Paralizzata.
Cinquant’anni. Non possono essere passati cinquant’anni.
“Me l’ha regalata tuo padre,” dice con orgoglio. “Eravamo appena sposati. Era la mia sciarpa preferita, ma lo vedi, era troppo delicata per portarla. Così l’ho messa via.”
“Ma io ricordo che la portavi, mamma.”
“Davvero?”
“Col vestito di seta beige, al matrimonio di Audrey. E… altre volte.” Noto la sua espressione di allarme velato. Ogni accenno al venir meno della sua memoria la terrorizza. È come se vedesse da vicino i disastri che la vecchiaia fa negli altri.
“Ti prego, prendila tu,” si affretta a dire. “Ne sarei felice.” “Ma, mamma...”
“A me non serve, e non voglio che si perda.”
La sua voce si alza quasi impercettibilmente. Una via di mezzo tra una supplica e un ordine.
Mi decido a togliere la sciarpa dalla scatola. La ammiro. In effetti l’etichetta è francese, e non cinese. In effetti il turchese non è così brillante come lo ricordavo. Mezzo secolo! E la commessa di Kenilworth’s che prima sembrava volere che la rubassi, e che poi (come avrei stabilito in seguito) me l’aveva praticamente regalata, colmando la differenza di tasca sua? E io, l’intelligente undicenne, non avevo capito quello che c’era dietro?
Mezzo secolo. Mia madre compiva trentatré anni. Aveva aperto la scatola nervosa; la carta, i nastri, la scritta argentata KENILWORTH’S sulla scatola dovevano averla messa in allarme. E poi, estraendo la sciarpa, era rimasta ad ammirarla per un momento, prima di dire: “Tesoro, è stupenda. Ma come hai...” Ma aveva lasciato cadere la domanda. Come se non trovasse le parole. O come se avesse capito che sarebbe stato indelicato fare tale domanda a una figlia di undici anni.
Il talismano che dice: Ti amo, sei la mia vita.
Il tipo di sciarpa costosa che oggi le donne portano con negligenza sulle spalle. Chiedo a mia madre se è proprio sicura di volersene disfare, anche se so già la risposta; ormai è arrivata a un’età in cui sa esattamente quello che vuole e quello che non vuole, così come quello di cui ha o non ha bisogno. Gli impacci che legano alla vita.
A mo’ di risposta, mi avvolge la sciarpa al collo, provando ad annodarne le estremità. È accanto a me, allo specchio. “Lo vedi, cara? Ti sta benissimo.“
Joyce Carol Oates, “La sciarpa”, da “Misfatti – racconti di trasgressioni“ 2003
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Nell’immagine: Umberto Boccioni, “Controluce”, 1910