L’occasione si presentò quando noi laici operanti con gli indios attraverso la Chiesa cattolica locale, decidemmo di realizzare incontri trimestrali. Per renderle più efficaci, sentivamo l’esigenza di riflettere profondamente, collegialmente, sulle nostre pratiche; ma a motivarci erano anche bisogni individuali. La scelta di affiancare gli indigeni nella lotta per la sopravvivenza fisica e culturale, infatti, implicava isolamento geografico; ostilità da parte della società regionale, che considerava gli indios un intralcio al cosiddetto progresso; marginalizzazione all’interno della Chiesa, essendo i laici l’ultima ruota del carro; come se non bastasse dovevamo anche fronteggiare l’avversione di alcuni esponenti reazionari del clero. Dovevamo prenderci cura gli uni degli altri, trasmetterci amicizia, incoraggiarci a vicenda; solo così avremmo potuto renderci meno vulnerabili, e ci saremmo sentiti meno soli. Io lavoravo con gli Yanomami, Sandrina e altri con i Makuxi, una coppia, con due bambini al seguito, con i Wapichana. I successivi sarebbero avvenuti nelle aree indigene in cui operavamo, ma il primo dei nostri incontri si realizzò in città.
Per me, che geograficamente ero la più isolata del gruppo, fu un’esperienza rifocillante. Tra riflessione, confronto, dialogo, definizione di priorità, stesura di progetti, di giorno le ore scorrevano intense. La sera ci ritrovavamo nel “Meu cantinho”, un baretto modesto e vetusto con tavolini all’aperto, fino ai quali giungeva la brezza rinvigorente del Rio Branco. Per ascoltarla e conoscerla meglio, io sedevo accanto a Sandrina: magrissima, di carnagione molto chiara, capelli lunghi e biondi, occhi di un colore liquido e celestiale. Parlava sottovoce, manteneva lo sguardo abbassato, metteva in salvo formiche e zanzare, riusciva a chiamare “manos” (ipocoristico di fratelli, ndt) uomini fetenti e “maninha” (ipocoristico di sorella) la più perfida delle donne. Di quelle ore notturne, i miei occhi vedono ancora il luccichio e lo scorrere lento del fiume, la brezza mi accarezza ancora la pelle regalandomi fremiti; il mio sguardo incontra ancora quello degli amici, sento ancora passione sprizzare dalle loro parole, li vedo ancora che ridono e sorseggiano birra. La “cervejinha bem gelada” (birretta ben gelata, ndt) riusciva ad ammazzare virus trasmessici da angustie personali; e a congelare, almeno provvisoriamente, quelli prodotti dalla drammatica situazione esistenziale dei popoli indigeni.
L’ultimo degli incontri cui partecipai si realizzò nel complesso in cui Sandrina aveva iniziato il suo lavoro, dove però non risiedeva più. Insieme a un’altra ragazza, si era trasferita in un villaggio Macuxi per aderire a quella che era chiamata “incarnazione”, cioè vivere insieme agli indios, ascoltarli, prendere decisioni con loro e non più per loro; programmare attività a partire da esigenze reali; far fronte alla durezza della congiuntura indigena anche mettendo a rischio la propria vita; pensare al futuro dell’etnia a partire dalle sue radici sociali, culturali, linguistiche, religiose, mitologiche. Ricordo che anche in quell’occasione la riflessione fu densa, stimolante, proficua. La sera ci riunivamo in un patio interno, sotto le stelle, che in luoghi come quello si rivelano più vicine e brillanti. Ricordo una scalinata e noi che vi sedevamo in ordine sparso. Ricordo che sorseggiavamo “caipirinha” (bibita alcolica, ndt). Ricordo che Sandrina era più taciturna del solito, ma il poco che le usciva di bocca infondeva speranza negli altri. Ricordo che mi bisbigliò qualcosa a proposito delle esperienze cui la stava introducendo un vecchissimo, rinomato “pajé” (capo spirituale, ndt). Ricordo che le sue poche, stilizzate parole mi fecero intuire un universo del tutto sconosciuto, talmente misterioso e vasto che mi presi uno spavento. Per non lasciare il mio pensiero sul baratro dell’ignoto, per non esporre le mie certezze al logorio del dubbio, quella notte non seppi far altro che imboccare una scorciatoia: dissi a me stessa che, effettivamente, Sandrina era “strana”, tappando così, con un vigliacco stereotipo, il foro da lei involontariamente prodotto nel mio piccolo mondo sicuro.
Nel marzo del 1984 mi trovavo a São Paulo. Nessun laico operava più in Roraima. Lo sfinimento aveva portato alcuni a dimettersi; i più caparbi erano stati semplicemente buttati fuori. Il clero reazionario aveva vinto la battaglia. A resistere più a lungo ero stata io, grazie all’isolamento geografico che mi aveva protetta da intrighi di curia e attacchi diretti. Sapevo che Sandrina era nella metropoli per seguire corsi universitari. Volli rivederla, e mi presi un altro spavento: la sua carnagione era scura come quella dei Macuxi; scuri, corti, tagliati a caschetto, i capelli; gli occhi erano scuri come il guscio delle castagne di “caju” (frutto dell’anacardo, ndt); solo la voce era la stessa, sommessa e tellurica. Mi raccontò che il pajé le aveva insegnato a curare con piante ed elementi della natura, ma anche attraverso riti di pajelança (pratica dei curatori, dei “pajé, ndt) ; le aveva rivelato quali fossero le fondamenta filosofiche sulle quali i Makuxi hanno costruito i propri archetipi del bene e del male, con ciò facendola sentire una privilegiata; in tono ancor più sotterraneo aggiunse che le aveva svelato segreti palesabili solo agli iniziati, consentendo a questi ultimi di prendere coscienza e di utilizzare al meglio determinati, sbalorditivi, poteri della mente.
Sandrina era insolitamente loquace. Mi raccontò che frequentava due corsi per specializzarsi in Piante Medicinali. I primi mesi, quando non disponeva ancora di borsa di studio, aveva fatto la fame, anche perché, con chi aveva vicino, divideva il poco che riusciva a comprarsi: si era nutrita di banane, di cui sapevo era ghiotta; divenute anch’esse troppo care, era passata al pane. Prestandovi servizio come medico-volontario, viveva in una Casa di Transito; vi affluivano persone che abbandonavano la campagna inseguendo il miraggio della civiltà industriale; persone che possedevano solo i vestiti che avevano indosso; persone alle quali individui ubriachi, disgraziati quanto loro, avevano bruciato la baracca; persone provenienti da favelas che il governo distruggeva per far posto a complessi residenziali e prati verdi. Sandrina mi parlò dell’ingente fetta di popolazione che, a causa della fame, stava generando una sottospecie umana con vistose modificazioni fisiche e psichiche.
Sto scrivendo questo brano anche per chiedere a Sandrina di intervenire su un certo mio malessere esistenziale. Per ragioni famigliari, mi ritrovo a vivere nel Primo Mondo. dell’Amazzonia, degli indios, della mia produzione intellettuale, di me ormai anziana, della mia vecchissima madre, non frega niente a nessuno, a parte, naturalmente le eccezioni che, essendo tali, si contano sul palmo della mano. Lo stregone Facebook non è riuscito a rintracciare la mia amica macuxi-brasiliana, ma lei mi ha raggiunta ugualmente, qui nel meu cantinho (mio cantuccio, ndt). Parliamo di solidarietà e giustizia sociale, osservo che mantiene lo sguardo abbassato, ci ascoltiamo, sorseggiamo vincotto. Continua a essere povera in canna, a non usare orologio: regalandomi un po’ del suo tempo, Sandrina degli Spiriti mi ha fatto il dono più prezioso.”